Tra il governo romano e i sudditi giudei i rapporti, si sa, non sono mai stati particolarmente cordiali. I romani non sono mai riusciti a capire sino in fondo la mentalità questo piccolo e ostinato popolo tenacemente attaccato alla propria tradizione religiosa legata al culto del loro unico Dio, in nome del quale a migliaia erano sempre pronti a ribellarsi. Per questo la Giudea era una provincia difficile da governare oltre ad essere una terra arida, povera, ai confini dell’impero. Insomma non certo il posto più desiderabile per un magistrato romano che sognasse di fare carriera.
Date queste premesse, quando nel 26 d.C. l’imperatore Tiberio lo destinò a quella remota provincia Ponzio Pilato non fece evidentemente i salti di gioia. Pilato, per quel poco che sappiamo di lui, proveniva da una famiglia di rango equestre[1] originaria dell’Abruzzo e aveva con ogni probabilità un passato da militare. Ma soprattutto Pilato era amico di uno dei personaggi più influenti della corte imperiale, Lucio Elio Seiano, il potentissimo prefetto del pretorio[2] e fidato braccio destro di Tiberio. Conoscendo il carattere inflessibile e duro dell’amico, Seiano lo raccomandò al sovrano, evidentemente alla ricerca di un castigamatti che mettesse ordine in quella turbolenta provincia.

Pilato, una volta insediatosi in carica, non impiegò molto tempo per rendersi antipatico agli ebrei. Prima fece esporre nel Tempio l’effigie di Tiberio, urtando i sentimenti religiosi degli israeliti, che consideravano blasfema la raffigurazione di figure umane, e segnatamente quella dell’imperatore romano. Successivamente, nel tentativo di risolvere la cronica penuria d’acqua che affliggeva Gerusalemme, il prefetto ordinò la costruzione di un acquedotto suscitando nuovi tumulti dovuti al fatto che per finanziare l’opera Pilato aveva attinto al tesoro del Tempio. Questa volta il governatore scelse di agire con mano pesante attuando una repressione brutale che costò la vita a oltre cento dimostranti. Ormai ai ferri corti con gli abitanti della provincia affidatagli a Pilato capitò tra le mani una nuova gatta da pelare costituita da un predicatore ebraico itinerante che, stando alle voci, aveva grande presa sulle folle: Gesù di Nazareth.
Gesù aveva cominciato la sua missione verso la fine del terzo decennio del I secolo. Egli annunciava al popolo il prossimo avvento del Regno di Dio, come già prima di lui aveva fatto suo cugino Giovanni Battista, presentandosi inoltre come il Messia (dall’ebraico “Mashiach” che significa “l’Unto del Signore”). Il suo messaggio e i suoi insegnamenti avevano grande presa sulle masse di diseredati ma erano nello stesso tempo invisi alla casta dei sacerdoti, depositari della Legge mosaica, per i quali questo rabbi altro non era che un blasfemo che aveva avuto l’ardire di definirsi “Figlio di Dio”. Costoro si convinsero che l’aspirante Messia era soltanto un pericoloso sovversivo, una minaccia all’ordine costituito e al loro potere che andava tolto di mezzo al più presto: come riporta l’evangelista Giovanni i capi religiosi temevano che il popolo, sobillato dagli insegnamenti di Gesù, avrebbe potuto sollevarsi provocando l’inevitabile intervento repressivo dei romani e la probabile distruzione del Tempio di Gerusalemme. Occorreva dunque farla finita con quel Nazareno come affermò lo stesso sommo sacerdote, Caifa, il quale, come riportato sempre da Giovanni, dichiarò chiaro e tondo di fronte al Sinedrio[3] “Conviene per noi che un solo uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione”. I membri dell’assemblea si convinsero una volta per tutte ad agire dopo che Gesù, una volta entrato trionfalmente in Gerusalemme tra due ali di folla festante, scacciò i mercanti dal Tempio.

Il sinedrio ordinò dunque l’arresto di Cristo che avvenne, come noto, nel Giardino del Getsemani. L’operazione fu eseguita da un manipolo di guardie del Tempio grazie alle indicazioni fornite da Giuda l’Iscariota, il discepolo traditore. Anche se adesso era nelle loro mani i sacerdoti sapevano benissimo che solo l’autorità romana, nella persona del prefetto Pilato, aveva l’autorità necessaria per emettere una condanna a morte nei confronti del Nazareno.
Quello che viene ricordato come il “processo” a Gesù, e che troviamo riportato nei Vangeli, presenta molti aspetti controversi. Innanzitutto in quel momento storico e in quelle condizioni parlare di “processo” non ha senso: in qualità di rappresentante dell’imperatore, un magistrato romano poteva agire nei confronti di un suddito che non fosse cittadino romano (come nel caso di Gesù) utilizzando la più ampia discrezionalità. Gli unici vincoli all’arbitrio dell’autorità erano unicamente di carattere politico: comportarsi come un despota sanguinario avrebbe alienato al governatore il consenso della classe dirigente indigena che avrebbe potuto presentare ricorso a Roma contro gli abusi da lui perpetrati.
Del processo a Gesù non parla nessuna fonte pagana. Per avere informazione su questo avvenimento dobbiamo rifarci unicamente ai Vangeli, che però non possono essere considerati fonti storiche attendibili ma al massimo racconti di memoria. In particolare a insospettire gli storici sono alcuni elementi procedurali che lasciano più di un dubbio sulla veridicità del racconto: il “referendum” indetto da pilato per chiedere al popolo chi tra Gesù e Barabba dovesse essere liberato, il gesto plateale del lavarsene le mani compiuto dal prefetto (assente nella tradizione romana) per non parlare della decisione di far sottoporre Gesù al giudizio di Erode Antipa tetrarca di Galilea (di cui oltretutto parla solo l’evangelista Luca, che, va detto, non conobbe direttamente Cristo). Tutti gli elementi sopracitati stridono con i poteri pressoché assoluti di cui poteva disporre un governatore romano.

Altra “stranezza” sta nel comportamento tenuto dallo stesso Pilato il quale, come traspare soprattutto dal Vangelo di Giovanni, appare sinceramente convinto dell’innocenza dell’uomo che ha di fronte e sembrerebbe cercare di fare quanto è a lui possibile per sottrarlo alla morte. Questo comportamento “umano” del prefetto appare in stridente contrasto con il suo carattere, descritto in una lettera di Erode Agrippa[4] come “implacabile, senza riguardi, ostinato”. È dunque probabile che, attraverso il racconto evangelico, il cristianesimo, in ascesa all’interno della società romana, abbia in qualche modo cercato di sminuire le responsabilità dell’autorità imperiale nell’uccisione del Redentore scaricandola sugli ebrei.
Dopo la condanna di Cristo Pilato continuò a governare la Giudea per alcuni anni, agendo sempre con spietatezza al minimo accenno di ribellione. Proprio a causa della sua durezza nel 36 d.C. fu richiamato a Roma da Tiberio in seguito a un ricorso inoltrato all’imperatore dai samaritani[5]. Da quel momento la figura del prefetto di ferro scomparve nelle nebbie della Storia. La sua figura è stata lungamente esecrata dal cristianesimo occidentale che gli ha da sempre riconosciuto un ruolo fondamentale nella morte del Figlio di Dio al punto da ipotizzare una dura punizione al rientro a Roma. Sempre a causa della cattiva fama di Pilato tra i commentatori della Divina Commedia c’è chi ha riconosciuto in lui il personaggio “che fece per viltade il gran rifiuto” collocato da Dante tra le anime degli ignavi nell’Antinferno.
Tuttavia un’altra tradizione afferma come Pilato fosse intimamente convinto dell’innocenza di Gesù ma che fu suo malgrado costretto dalla folla a metterlo a morte. Successivamente si racconta che Pilato, tormentato dai rimorsi, si convertì al cristianesimo ispirato da sua moglie Claudia Procula, seguace del Maestro. Seguendo questo filone, nel VI secolo la Chiesa Copta etiope lo ha elevato al rango di santo.
Note:
[1] Nella società romana quella equestre era la classe sociale al di sotto di quella senatoria.
[2] il prefetto del pretorio era il comandante dei pretoriani, le guardie del corpo dell’imperatore, istituite da Augusto.
[3] al tempo di Gesù il supremo tribunale ebraico e organo preposto all’interpretazione della Legge mosaica.
[4] Erode Agrippa era nipote di Erode il Grande, il sovrano che secondo il Vangelo di Matteo ordinò la “strage degli Innocenti” nel tentativo di eliminare Gesù bambino.
[5] Gruppo minoritario in seno all’ebraismo. Al tempo di Gesù i Samaritani erano disprezzati e discriminati dai “cugini” Giudei, i quali vietavano loro di accedere al Tempio di Gerusalemme. Per questo i Samaritani avevano innalzato un loro tempio sul monte Garizim. Famoso è l’incontro di Gesù con la donna samaritana al Pozzo di Giacobbe narrato in Giovanni 4, 4-26.