Il due maggio di cinquecento anni fa si spegneva ad Amboise, in Francia, uno dei massimi artisti del Rinascimento, Leonardo da Vinci. Il Maestro toscano era approdato Oltralpe due anni prima su invito del sovrano Francesco I di Valois. Leonardo aveva da poco compiuto sessantasette anni, un’età ragguardevole per un uomo delle sua epoca. La sua era stata senza dubbio una vita intensa, trascorsa tra la natia Toscana, la Milano degli Sforza, la Roma medicea ed infine la Francia. Un’esistenza interamente spesa al servizio della scienza e dell’arte. Leonardo fu un uomo animato dall’inesauribile sete di conoscenza che lo portò a indagare praticamente ogni campo dello scibile, oltre che un artista eclettico, sempre pronto a sperimentare nuove tecniche e a confrontarsi con la Natura. Nell’anniversario della sua morte vogliamo allora rendere omaggio a uno dei massime personalità dell’umanità andando alla scoperta di uno dei suoi capolavori più celebri, che continua ancora oggi ad affascinare milioni di persone in tutto il mondo: l’Ultima Cena, realizzata per il convento di Santa Maria delle Grazie, importante sede milanese dell’Ordine Domenicano.
Leonardo ricevette la commissione per l’opera dai frati di San Domenico verso la metà degli Anni Novanta del Quattrocento. L’artista si era trasferito nel capoluogo lombardo agli inizi degli Anni Ottanta su richiesta del reggente del Ducato di Milano Lodovico Sforza detto il Moro. I committenti scelsero di affidare l’esecuzione del dipinto proprio a Leonardo anche in virtù del legame esistente tra il convento e la dinastia sforzesca. I duchi infatti avevano stretti rapporti con i domenicani e avevano eletto le Grazie come loro chiesa gentilizia, attraverso l’intervento della tribuna di Bramante, nella quale sarebbero stati sepolti, all’interno dello splendido sarcofago di Cristoforo Solari, oggi conservato alla Certosa di Pavia. La richiesta fatta a Leonardo era di un’Ultima Cena di Cristo, da porre sul muro del refettorio del convento, in dialogo ideale con gli stessi frati, lì riuniti per il pasto quotidiano, ed in parallelo simbolico con l’opera collocata sulla parete opposta, una Crocefissione alla maniera lombarda di Foppa realizzata da Donato da Montorfano nel 1495, cui l’artista toscano aggiungerà i ritratti dei duchi. Alla Cena Leonardo accosterà anche la decorazione delle lunette superiori, dove vengono rappresentati i blasoni del Moro come duca di Milano e signore di Bari. Essi sono circondati da ghirlande di fiori e frutti, che dimostrano la grande attenzione fisica alla natura che il da Vinci riprenderà nella Sala delle Asse, all’interno del Castello Sforzesco.

L’opera di Leonardo si mostrò fin da subito innovativa. Innanzitutto, se cercaste nell’ambito lombardo un Cena anteriore a questa con tale disposizione e tale tipologia, non la trovereste. Ciò è dovuto all’influenza su Leonardo del mondo fiorentino della sua gioventù dove tale tradizione, proseguita fino al ‘700, aveva avuto nel ‘400 il suo apice (Andrea del Castagno, il Ghirlandaio e, più tardi, Andrea del Sarto). A differenza di questi, però, l’artista di Vinci introdusse elementi suoi propri. Innanzitutto la divisione in gruppi piramidali di tre in tre, che finirono per riportare Giuda, solitamente messo di spalle e posto sul lato opposto della mensa, tra gli altri Apostoli. Fondamentale per comprendere a pieno il capolavoro vinciano è poi la scelta dell’artista di rappresentare un episodio diverso da quelli più tradizionali. Se infatti gli artisti precedenti si concentravano solitamente sull’istituzione dell’Eucarestia, prefigurazione della Passione, Leonardo decide di rappresentare il passo di Matteo 26,21, nel quale Cristo dichiara ai discepoli che uno di loro lo tradirà. Tale scelta inusuale dimostra fin da subito quanto Leonardo fosse assai meno “sanza lettere” di quanto si creda, conoscitore delle Scritture o comunque in contatto con un ricco mondo intellettuale cui i suoi committenti appartenevano.

La predilezione di tale evento viene inoltre scelta dal da Vinci anche per un’ esigenza artistica. Le parole di Cristo infatti hanno l’effetto di creare un’esplosione emotiva dei presenti, che mostrano un vero campionario di emozioni e di “moti dell’animo”, che si trasforma anche in moti fisici di corpi che li materializzano, dove gli Apostoli chiedono se siano loro i colpevoli (Giacomo, Filippo e Pietro) o, se distanti da Gesù, cercano di capire ciò che accade (Bartolomeo, Matteo e Giuda Taddeo). L’attenzione alle emozioni umane, riscontrabile nelle opere di Leonardo e da lui ereditata dagli artisti fiamminghi, viene qui portata a maturazione, anche attraverso un’osservazione diretta della realtà, come traspare dai suoi taccuini.
Altro elemento fondamentale per la Cena è l’attenzione prospettica della scena. Leonardo la ambienta infatti in una scatola prospettica accurata, in cui il punto di fuga coincide simbolicamente con la testa di Cristo. Sul fondo tre finestre, aperte su un cielo azzurro, derivate anch’esse da una lettura attenta delle fonti, mentre, alle pareti, ciò che oggi sembrano aperture sono in realtà arazzi a fiori e piante tardogotici, molto diffusi nella Milano rinascimentale. Tale elemento testimonia la scelta vinciana di usare una serie di dettagli per manifestare che la Cena di Cristo avvenga nei fatti nello stesso refettorio dei frati, rendendoli partecipi dell’evento. La prospettiva è infatti abbassata per dare l’idea dell’unità spaziale tra il reale e l’immaginario, così come la luce del dipinto coincide con quella reale del refettorio. Gli Apostoli inoltre mangiano su un tavolaccio di legno, come quelli coevi dei frati e hanno oggetti, come la michetta (tipico pane meneghino) e bicchieri di vetro del tutto quotidiani.

Ultimo aspetto, centrale per comprendere il Cenacolo e in generale l’opera vinciana, è la tecnica di esecuzione, che l’ha resa ad oggi un opera quasi evanescente. Leonardo infatti ebbe qui, come per la battaglia di Anghiari, una forte volontà di sperimentazione. L’artista infatti, pur conoscendo la tecnica dell’affresco, cercò in questo caso di sviluppare una nuova modalità di pittura a muro, che si avvicinasse alla pittura da cavalletto e risolvesse gli inconvenienti della “frescatura”. L’affresco infatti, basandosi sull’assorbimento dei pigmenti da parte dell’intonaco fresco, garantiva un risultato duraturo ma impediva interventi continui o ripensamenti dopo che l’intonaco si era asciugato, se non interventi superficiali a secco. Ciò non si adattava all’inventiva dell’artista, ne alle modalità lavorative del da Vinci. Matteo Bandello, famoso novellista cinquecentesco e in gioventù novizio domenicano alle Grazie, racconta infatti come il lavoro di Leonardo fosse discontinuo e magari legato a singoli particolari dell’opera. Ciò comportò quindi la scelta di creare una nuova tecnica mescolando i pigmenti con una colla, applicata poi a muro, trasformandola quindi in una sorta di “tempera su muro”. Ciò fu però la “croce” del dipinto perché questo procedimento lo rendeva molto fragile e deperibile, in ciò aiutato dall’umidità del muro, collocato a nord del refettorio.

Leonardo lavorò all’opera per tre anni, tra il 1495 e il 1498, venendo più volte richiamato dal duca e dai frati per suo tramite, in quanto costretti a mangiare in cucina per via dei ponteggi. L’opera ebbe fin da subito grande successo, tanto che moltissimi artisti si riunirono lì per copiare l’opera del Maestro. Tale presenza, che creava problemi ai domenicani, portò alla decisione di richiedere che gli artisti ottenessero l’autorizzazione per poter accedere a quel luogo, come avvenne a Marco d’Oggiono, allievo di Leonardo incaricato di fare un cartone dell’opera, presupposto per una sua copia ad arazzo voluta da un dignitario francese, sul cui modello lo stesso artista realizzerà con la stessa tecnica una Cena per Francesco I di Francia, ora ai Musei Vaticani (in mostra a Milano il prossimo autunno). La fortuna del dipinto riguardò tutto il XVI secolo, durante il quale venne riprodotto sia nella sua totalità sia in alcuni particolari, tanto ad opera di allievi diretti quanto di seguaci successivi, anche in molti refettori milanesi (Castellazzo, Santa Maria della Pace, San Vittore al Corpo). Dato lo stato precario dell’opera, la copia più attendibile del capolavoro vinciano è una Cena realizzata a metà del secolo da un seguace di Leonardo collocata nella chiesa di Sant’Ambrogio a Ponte Capriasca, in Canton Ticino.

Accanto alla sua fortuna iconografica, l’opera soffrì fin da subito di una sfortuna conservativa, legata per la maggior parte alla tecnica usata. Già il Vasari a metà ‘500 la descrisse come una “macchia abbagliata”, distrutta dall’umidità e dalle muffe che la caratterizzavano causate anche, come detto, dalla disposizione a settentrione della parete. Tale condizione continuò e peggiorò nei secoli successivi, tra la costernazione di coloro che venivano a vederlo e i tentativi infruttuosi di recupero. La visione completa dell’opera venne ulteriormente resa critica anche da interventi strutturali sulla parete, come l’apertura, nel corso del ‘600, di una porta sui piedi di Cristo, che permetteva un collegamento diretto tra il refettorio e le cucine del convento. Un restauro importante, anche se con scarsi risultati, fu compiuto in età napoleonica sotto il patrocinio del viceré d’Italia Eugenio di Beauharneis. Nello stesso periodo si fece largo l’ipotesi di un’eventuale strappo dell’affresco, suggerita da Stefano Barezzi, avventuriero e restauratore amatoriale imparentato con il più noto sponsor di Giuseppe Verdi. Per fortuna il progetto del Barezzi non ebbe seguito, evitando i danni da lui compiuti in altri contesti, come con gli affreschi del Luini alla villa Pelucca di Sesto San Giovanni oggi conservati a Brera.

Nonostante le sue difficili condizioni, il Cenacolo mantenne la propria importanza capitale, portando le autorità di tutela, ad inizio Novecento, a raccogliere all’interno del refettorio una serie di copie antiche dell’opera, asportate precedentemente dalle loro sedi originarie, a Milano e in tutta la regione, tra cui una dall’Ospedale Maggiore, oggi sede dell’Università Statale. Tale scelta, importante in quanto permetteva una vero confronto tra le opere, fu tuttavia deleteria a seguito del secondo conflitto mondiale. Nell’agosto del 1943 infatti il convento domenicano venne bombardato: il refettorio venne distrutto con tutto ciò che vi era all’interno. Il Cenacolo e la Crocefissione, si salvarono solo grazie alla copertura costruita da tralicci e da sacchi di sabbia. Tuttavia entrambe le pitture rimasero esposte alle intemperie di fatto sino alla fine della guerra, due anni dopo.

L’ultimo capitolo della travagliata storia del Cenacolo vinciano è rappresentato dal restauro più recente, che ha portato al recupero parziale dell’opera, restituendoci gli originali, smaglianti colori, applicati secoli prima da Leonardo. I lavori, iniziati nel 1977 con l’importante sponsorizzazione dell’Olivetti di Ivrea, furono condotti per ben 22 anni con pazienza certosina dalla restauratrice Pinin Brambilla Barcilon, a cui dobbiamo la possibilità di ammirare nuovamente il capolavoro in condizioni quanto più possibile fruibili. Le condizioni dell’Ultima Cena restano tuttavia precarie, il che ha reso necessario dotare la sala di un apposito sistema di climatizzazione, allo scopo di limitare le conseguenze negative sull’opera stessa determinate dall’umidità dalla polvere lasciata dai visitatori.