Il 4 novembre 1918 le armi finalmente tacquero su tutto il fronte italiano. L’armistizio firmato il giorno 3 novembre tra i comandi italiano e austriaco stabiliva infatti che le ostilità tra i due eserciti sarebbero cessate il giorno successivo. Terminava così la nostra guerra, cominciata quel funesto 24 maggio 1915 fra l’incosciente entusiasmo delle manifestazioni interventiste.

Pareva passata un’eternità da quel giorno di primavera e invece erano trascorsi 41 interminabili mesi. 1260 giorni infernali passati dai nostri soldati nel fango delle trincee, tra pidocchi, fame, freddo e fuoco nemico, con la consapevolezza che ogni momento avrebbe potuto essere l’ultimo.
Cosa si proponeva esattamente di ottenere il nostro governo gettandosi in quella strage che stava insanguinando il continente? Chi incendiò le piazze per mesi incitando alla guerra la nazione e quali erano invece le voci contrarie all’intervento? In questo articolo cercherò di dare risposta a queste domande. Torniamo allora a quei convulsi primi mesi del 1915. La guerra era iniziata da circa 10 mesi, dopo l’ultimatum a cui seguì la dichiarazione di guerra dell’Austria – Ungheria alla Serbia del 28 luglio, causati dall’assassinio dell’erede al trono di Vienna Francesco Ferdinando, avvenuto esattamente un mese prima a Sarajevo per mano di un gruppo di terroristi serbi affiliati alla società segreta denominata “Mano nera”.

L’alto comando austroungarico riuscì a l’ottuagenario imperatore Francesco Giuseppe che un’azione rapida contro la Serbia avrebbe evitato una pericolosa escalation ponendo le altre potenze di fronte al fatto compiuto. L’Austria era inoltre convinta che le cancellerie d’Europa avrebbero approvato il suo intervento in Serbia, giustificato come la punizione di uno “stato canaglia” sponsor del terrorismo.
Purtroppo per loro, e per l’intera Europa, i generali austriaci avevano, come si suol dire, fatto i conti senza l’oste, ovvero la Russia, da sempre amica della Serbia in nome della fratellanza slava e della comune fede ortodossa. Fu così che in una settimana il continente si ritrovò in divisa: la Russia mobilitò il proprio esercito contro l’Austria e la Germania, che per bocca del Kaiser Guglielmo II aveva appoggiato le ragioni dell’alleato austroungarico. Dal canto suo la Francia, alleata della Russia da vent’anni, mobilitò le sue truppe in appoggio a quelle dello Zar.

La Germania per reazione dichiarò guerra a Russia e Francia per poi invadere il Belgio per aggirare le difese francesi e conquistare Parigi ma la mossa provocò l’intervento nella mischia della Gran Bretagna, protettrice del Belgio. E l’Italia? Ufficialmente il nostro Paese fin dal 1882 era alleato di Austria – Ungheria e Germania nella cosiddetta Triplice Alleanza. Tuttavia quella tra noi e l’Austria era un’alleanza innaturale, fra due paesi che si detestavano cordialmente e dettata principalmente dalla comune volontà di Roma e Vienna di essere entrambe amiche di Berlino. Per capire la natura dei nostri rapporti con l’Austria basti pensare che nel 1908, poco dopo il terremoto di Messina, il feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf propose a Francesco Giuseppe di dichiarare guerra all’Italia in ginocchio!
Non sorprende quindi che il 2 agosto 1914, mentre ormai la crisi di Sarajevo stava deflagrando nella guerra europea, l’Italia, per bocca del ministro degli esteri Antonino Paternò di San Giuliano, si fosse dichiarata neutrale appellandosi alla natura difensiva del trattato istitutivo della Triplice Alleanza, che ci obbligava ad entrare in guerra solamente nel caso in cui Austria o Germania fossero state aggredite, mentre nel caso specifico erano stati proprio i nostri alleati ad attaccare la Serbia.

Diplomatico scaltro e navigato, il marchese di San Giuliano aggiunse tuttavia che l’Italia si riservava la possibilità di intervenire nel conflitto nel caso in cui i suoi interessi “fossero salvaguardati con previ e precisi accordi”, come riportato dall’articolo 7 del patto. In pratica il nostro Paese condizionava la sua partecipazione alla guerra alla garanzia di compensi territoriali. Questa fu la posizione del Governo, che trovò il pieno appoggio del sovrano Vittorio Emanuele III. Tuttavia apparve chiaro fin da subito che per l’Italia la neutralità era soltanto una scelta temporanea visto che accanto alle dichiarazioni di non intervento il Governo ordinò il richiamo di due classi di leva e lo stanziamento di 120 milioni di lire per l’esercito, necessari per supplire alle carenze generate dalla guerra di Libia del 1911-12. La disponibilità a scendere in guerra è confermata da una lettera segretissima inviata da San Giuliano al Presidente del Consiglio Antonio Salandra datata 8 agosto 1914 nella quale il ministro degli esteri afferma che l’Italia avrebbe dovuto considerare fin da quel momento la possibilità di attaccare l’Austria. Ciò tuttavia sarebbe dovuto avvenire solo se si fosse avuto certezza di vittoria perché una guerra persa avrebbe significato a suo giudizio la fine della monarchia e la rivoluzione.

Gli austro tedeschi dal canto loro nei mesi della neutralità italiana tennero d’occhio con attenzione le mosse di Roma, sospettando, con ragione, un possibile passaggio dell’Italia nel campo avversario. La Germania inviò dunque come nuovo ambasciatore in Italia il principe Bernhard von Bülow, che oltre ad essere amico del nostro Paese disponeva di vaste conoscenze a Roma. Nello stesso tempo i tedeschi fecero pressione sugli austriaci affinché accettassero almeno la cessione del Trentino in cambio dell’intervento italiano. Come si è detto però i sospetti di Austria e Germania circa un nostro possibile tradimento erano tutt’altro che infondati: fin dai primi giorni di guerra i governi dell’Intesa sondarono la disponibilità ad un intervento italiano al loro fianco. Nonostante la sua inferiorità militare infatti, data la collocazione geografica del nostro Paese, l’intervento dell’Italia avrebbe potuto dimostrarsi decisivo nel quadro della guerra grazie all’apertura di un nuovo fronte.

Mentre nei palazzi del potere i nostri governanti portavano avanti i loro disegni, in tutta Italia si accese un aspro dibattito fra favorevoli alla guerra, gli interventisti, e i contrari ad essa, i neutralisti. Le forze interventiste rimasero sempre una minoranza nell’opinione pubblica, ma si trattava di una minoranza agguerrita e vociferosa. Gli interventisti erano in maggioranza di estrazione borghese e le loro idee godevano di largo seguito nel mondo accademico, fra professori e studenti universitari, oltre che tra i letterati e gli intellettuali, primi fra tutti gli esponenti del movimento futurista, il quale glorificava la guerra, definita “unica igiene del mondo”. L’interventismo godeva di larghe simpatie tanto a destra quanto a sinistra. A destra erano interventisti i nazionalisti di Corradini e Federzoni, i quali ritenevano che solo attraverso una partecipazione vittoriosa al conflitto l’Italia avrebbe potuto affermarsi come grande potenza imperiale. A sinistra l’intervento era sponsorizzato dalle correnti di ispirazione risorgimentale, mazziniana e garibaldina, fra cui militava infatti lo stesso Peppino Garibaldi, nipote dell’Eroe dei Due Mondi. Essi vedevano la guerra come continuazione delle campagne risorgimentali, attraverso la quale dare compimento all’Unità nazionale liberando le “terre irredente” del Trentino e della Venezia – Giulia. Tutti i grandi giornali, come il Corriere della Sera, Il Resto del Carlino e il Giornale d’Italia, sostenevano l’intervento. Tra le grandi testate solamente La Stampa di Torino era schierata per la neutralità, e questo perché il suo direttore, Frassati, era amico di Giolitti, a sua volta neutralista.

Oltre a Giolitti e ai suoi seguaci, contrari all’intervento in quanto giudicavano l’Italia impreparata alla guerra, erano neutralisti gran parte del liberali, oltre che i cattolici e il Partito Socialista. Quest’ultimo, coerentemente alla propria visione internazionalista, sosteneva che l’intervento nel conflitto fosse contrario agli interessi del proletariato, i cui figli sarebbero stati massacrati in nome della “guerra capitalista”. Fece scalpore il caso del direttore del quotidiano socialista “Avanti!”, Benito Mussolini, il quale dalle colonne del suo giornale sostenne invece l’intervento dell’Italia in guerra, venendo perciò espulso dal PSI. Mussolini allora, con l’aiuto di capitali anglo-francesi, fondò nel novembre 1914 “Il Popolo d’Italia”, giornale che divenne una delle voci interventiste più battagliere. Contrari alla guerra erano anche i cattolici in ossequio alle posizioni assunte dalla Chiesa, che con il nuovo Papa Benedetto XV condannò il macello dei popoli europei all’inizio del novembre 1914. La Chiesa, ancora in urto con lo Stato a seguito della Presa di Roma del 1870, era particolarmente contraria alla guerra italiana contro l’Austria, potenza tradizionalmente cattolica.

Nei primi mesi del 1915 intanto, l’Austria cedette alle pressioni tedesche dichiarando all’Italia la sua disponibilità alla cessione del Trentino e alla costituzione di Trieste in città libera ma rifiutando ogni possibilità di cessione immediata come invece da noi richiesto, in quanto il governo italiano temeva che gli austriaci avrebbero potuto rimangiarsi la parola in caso di vittoria. Non soddisfatto delle proposte austriache, il governo italiano riprese allora le trattative con l’Intesa a partire dal 6 marzo 1915. Esse si concretizzarono il 26 aprile successivo nella stipulazione del Patto di Londra, concluso con rappresentanti dell’Intesa dal nuovo ministro degli esteri italiano Sidney Sonnino, successore di San Giuliano, morto il 16 ottobre 1914. In base all’accordo in caso di vittoria l’Italia avrebbe ottenuto: il Trentino con l’Alto Adige fino al Brennero, Trieste, la Venezia – Giulia, l’Istria (tranne la città di Fiume), buona parte della Dalmazia, l’isola di Saseno e Valona in Albania. A questo si aggiungevano possibili guadagni in campo coloniale e la generica promessa di una nostra partecipazione all’eventuale spartizione dell’Impero ottomano. In cambio l’Italia si impegnava ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa entro un mese dalla stipulazione del patto segreto. Gli alleati dell’Intesa furono larghi nelle loro promesse il che è spiegabile con la ragione che dopotutto ci avevano promesso territori non in loro possesso. A decidere la guerra furono dunque tre uomini: Salandra, Sonnino e il Re Vittorio Emanuele III.

Dopo la firma si presentò al Governo il problema di ottenere dal Parlamento, completamente all’oscuro di tutto, la ratifica del patto. All’inizio del mese di maggio le camere erano sciolte, tuttavia in previsione della prossima ripresa delle sedute, prevista per il 20 maggio, la maggior parte dei deputati si trovava già nella capitale. I membri del Governo effettuarono allora una serie di colloqui informali per sondare l’opinione dei parlamentari potendo constatare così che la maggioranza era schierata per la neutralità. Stando così le cose, il 12 maggio Salandra, al termine di un delicato Consiglio dei Ministri, dichiarò la sua volontà di rimettere il proprio mandato nelle mani del Re.
Negli stessi giorni l’intera Italia era agitata dalle violente manifestazioni di piazza che chiedevano a gran voce l’intervento in guerra. Animatore del movimento interventista era Gabriele d’Annunzio, che dopo anni di esilio volontario in Francia, il 5 maggio era rientrato in patria pronunciando un infiammato discorso a Quarto dei Mille (Genova) per poi spostarsi a Roma, dove la sera di quello stesso 12 maggio arringò la folla dal balcone del Campidoglio, attaccando con parole di fuoco Giolitti, reo di essere il leader della maggioranza neutralista in Parlamento.

Questo è un estratto del violento discorso del Vate: “Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia labbrone [Giolitti], le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino… Col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manutengoli, i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell’ex cancelliere tedesco [von Bülow]. Codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve li raccomando, vorrei poter dire: io ve li consegno. I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica benemerentissimi”. La casa di Giolitti in via Cavour fu così presa d’assalto dalla folla esaltata da d’Annunzio tanto da richiedere l’intervento in forze della polizia per disperdere i facinorosi. L’indomani lo statista piemontese ricevette la visita di 320 deputati che in segno di solidarietà lasciarono il loro biglietto da visita.
In un’atmosfera arroventata dalle sempre più veementi manifestazioni interventiste nessun esponente politico neutralista, e nemmeno lo stesso Giolitti, fu disposto ad assumersi la responsabilità di formare un nuovo esecutivo che sconfessasse il patto di Londra, perché era chiaro che ciò avrebbe aperto una gravissima crisi istituzionale costringendo il sovrano all’abdicazione in quanto Vittorio Emanuele si era compromesso personalmente con gli alleati dell’Intesa, garantendo con la propria parola il rispetto degli accordi. Fu così che il 16 maggio Vittorio Emanuele III compì quello che potremmo definire un colpo di stato: andando contro la volontà della Camera neutralista, il re respinse le dimissioni di Salandra, che infatti il 20 poté ripresentarsi al parlamento chiedendo i pieni poteri.

Messi all’angolo dall’atto di forza del monarca e dalla violenza sempre più accesa che andava imperversando nelle piazze, i trecento deputati giolittiani non si opposero alla volontà del Governo. Fu così che la Camera conferì al Governo i pieni poteri con una maggioranza schiacciante di 407 voti contro 74. Solamente i socialisti di Turati votarono contro coerentemente alle loro posizioni pacifiste e neutraliste. Ormai rassegnato Giolitti non partecipò nemmeno alla discussione in aula e negli stessi giorni lasciò Roma per rientrare in Piemonte.
Il 22 fu decretata la mobilitazione generale, il 23 fu trasmesso a Vienna l’ultimatum e infine il 24 maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria. Tuttavia gli eventi che portarono all’intervento mostrarono la crisi in cui si dibattevano le istituzioni liberali che avevano retto l’Italia a partire dall’Unità. L’affermarsi della violenza, non solo verbale, come strumento di lotta politica, e il disprezzo del ruolo e della volontà del Parlamento furono solamente i primi sintomi del declino dello stato liberale, destinato a crollare pochi anni dopo la fine della guerra sotto le manganellate dello squadrismo fascista.