Germania nord-occidentale, primi giorni di settembre dell’anno 9 d.C., ab Urbe condita 762. Proprio qui, non lontano dalle moderne città tedesche di Osnabruck e Paderborn, venti secoli fa si estendeva rigogliosa una grande foresta e se ci fossimo potuto addentrare al suo interno, nella tarda estate di duemiladieci anni fa avremmo visto avanzare, sia pure a fatica, una colonna romana.
Si trattava di un contingente forte di circa 20 mila soldati tra legionari e ausiliari, i quali, al comando del legato imperiale Publio Quintilio Vario, erano in marcia per raggiungere i campi trincerati posti sul fiume Reno dove avrebbero trascorso la stagione invernale. L’estate stava infatti volgendo al termine e con essa il periodo dedicato alle operazioni militari che andava da marzo a ottobre.

Cosa ci facevano tre legioni romane a ranghi completi appoggiate da sei coorti ausiliarie così lontane dalle proprie basi, a centinaia di chilometri dalla frontiera renana? E perché proprio su un terreno tanto impraticabile come quello delle cupe foreste germaniche? Si trattava infatti di un ambiente inospitale, che Tacito, nella sua opera Germania (De origine et situ Germanorum), descrisse come “Silvis horrida aut paludibus infida”. Se volessimo fare un paragone con la modernità, per i legionari romani le selve della Germania rappresentarono un inferno verde, simile a quello costituito dalle giungle del Vietnam per i militari americani cinquant’anni fa.
Per cercare di rispondere alle domande appena poste occorre fare un ulteriore salto indietro nel tempo di qualche decennio. Dopo la conquista della Gallia operata da Giulio Cesare (58-52 a.C.) ed il conseguente spostamento del limes al fiume Reno, si pose per Roma il problema si salvaguardare i nuovi possedimenti dalle incursioni delle popolazioni che abitavano al di là del grande fiume, i Germani. Con questo nome si è soliti indicare l’insieme dei gruppi tribali stanziati nel vastissimo territorio compreso tra il Mar Baltico ed i fiumi Reno, Danubio e Vistola. Le genti germaniche erano per lo più seminomadi, dedite alla caccia, alla pastorizia ed a una rudimentale forma di agricoltura di sussistenza. Non avevano città ma vivevano in villaggi di capanne. Guerrieri valorosi e temibili, non disdegnavano di compiere razzie verso i territori romani con l’obbiettivo di procurarsi viveri, oggetti di valore o schiavi.

In un primo tempo Roma adottò una politica di contenimento di questi turbolenti dirimpettai, attraverso la fondazione, lungo la frontiera renana, di accampamenti fortificati (castra) permanenti che nel corso dei secoli si svilupparono sino a trasformarsi in città vere e proprie come Mogontiacum (l’odierna Magonza), Colonia Agrippina (Colonia), Augusta Treverorum (Treviri) oppure Castra Vetera (l’attuale Xanten). Questi insediamenti rappresentavano da una parte dei baluardi difensivi e dall’altro delle punte avanzate della romanità agli estremi confini dell’impero.
Nonostante la costruzione di forti e lo spiegamento di unità militari il, confine romano, il limes, non fu mai una barriera invalicabile per le popolazioni germaniche che infatti tentarono di varcarlo a più riprese, nel 38, nel 29 e nel 17 a.C. L’Imperatore Ottaviano Augusto, preoccupato per la minaccia barbara, a seguito di una visita in Gallia compiuta nel 16 a.C. decise di porvi fine annettendo ai domini romani il vastissimo e selvaggio territorio che si estendeva tra i fiumi Reno ed Elba. Il fiume Elba avrebbe rappresentato un confine migliore, riducendo notevolmente le frontiere esterne dell’impero, permettendo una migliore distribuzione delle forze lungo il suo tracciato. Il movente della conquista fu dunque prettamente di carattere strategico non rappresentando la Germania una regione molto appetibile dal punto di vista economico-commerciale, trattandosi di una terra povera di materie prime (almeno per le conoscenze dell’epoca), coperta in gran parte da foreste inaccessibili e da paludi malsane oltre che del tutto priva di vie di comunicazione.

Le operazioni militari contro i Germani ebbero inizio a partire dal 12 a.C. al comando di Nerone Claudio Druso, conosciuto anche come Druso Maggiore, figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla, il che lo rendeva uno dei candidati più validi alla successione di Ottaviano, essendo quest’ultimo privo di eredi maschi. Veterano delle campagne di conquista della Rezia (corrispondente alla moderna Austria), Druso, nonostante la giovane età, era un militare valoroso ed esperto. Partendo dalle cittadelle fortificate lungo il Reno egli penetrò in territorio germanico giungendo con le legioni fino al fiume Weser. Il figliastro di Augusto fece inoltre scavare un canale navigabile che mettesse in comunicazione il Reno con il Mare del Nord (Oceanus Germanicus) consentendo alla flotta romana di minacciare da vicino le tribù germaniche stanziate sulla costa. La brillante carriera militare di Druso fu tuttavia stroncata precocemente nel 9 a.C. quando il ventinovenne generale, all’apice della gloria, morì a seguito di una caduta di cavallo.

Con lo scopo di consolidare la conquista furono condotte due successive spedizioni militari guidate questa volta dal fratello maggiore di Druso, Tiberio, futuro successore di Augusto. Intanto, a coronamento dello sforzo bellico, già nel 7 a.C. le regioni sottomesse in seguito alle campagne di Druso vennero organizzate nella nuova provincia di Germania. Accanto all’uso della forza, al fine di rendere più saldo il controllo sulla provincia e sui nuovi riottosi sudditi, i romani costrinsero i capitribù germanici a consegnare loro i propri figli come ostaggi. La richiesta era dettata certamente dalla volontà di evitare ribellioni ma consentiva nello stesso tempo a Roma di allevare ed educare i rampolli dell’aristocrazia germanica in modo da farne dei docili alleati una volta tornati fra i loro connazionali. A questo punto dunque entra in scena il protagonista della nostra storia, Irmin, principe della tribù dei Cherusci, meglio conosciuto con il nome di Arminio.
Consegnato dal padre ai romani in gioventù assieme al fratello, di cui ci è noto solamente il nomignolo, Flavus, ovvero “il Biondo”, Irmin entrò nelle fila dell’esercito romano, distinguendosi nel corso della repressione delle rivolte in Illiria e Pannonia. Per i suoi meriti, intorno al 7 d.C. gli furono concesse la cittadinanza romana e a dignità di cavaliere. Fu allora che, come consuetudine per coloro che diventavano cittadini romani, Irmin assunse un nuovo nome latino che evidenziasse il suo nuovo status, Caio Giulio Arminio.

Nello stesso periodo Arminio venne mandato di guarnigione nella natia Germania dove si conquistò la fiducia del neo governatore provinciale Publio Quintilio Varo. Quest’ultimo era stato governatore della Siria e per le sue qualità di burocrate era stato scelto da Augusto, ormai convinto della necessità di introdurre le leggi e le usanze romane tra i Germani. Varo tuttavia non si dimostrò all’altezza del compito: le fonti antiche ci rivelano come il governatore non avesse colto l’insofferenza e l’ostilità dei Germani, i quali aspettavano solo l’occasione buona per ribellarsi e scrollarsi di dosso il giogo degli odiati invasori. Cassio Dione, storico romano vissuto tra il II e il III secolo, così descrisse la totale incapacità del governatore nel comprendere appieno la mentalità dei Germani:
«Quando Varo assunse il comando dell’esercito che si trovava in Germania forzò i Germani ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l’antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero.»
Varo passò la primavera e l’estate del 9 d.C. esigendo tasse ed amministrando la giustizia. Egli credeva che la sua opera stesse riscuotendo risultati positivi mentre i Germani finsero solo apparentemente di adeguarsi alle leggi romane mentre preparavano la ribellione. Velleio Patercolo, contemporaneo dei fatti, così scrisse qualche decennio dopo:
«Varo credeva che i Germani potessero essere civilizzati con il diritto, questo popolo che non si era potuto domare con le armi. Con questa convinzione egli si inoltrò in Germania come se si trovasse tra sudditi e trascorreva il periodo estivo esercitando la giustizia davanti al suo tribunale ma i Germani, molto astuti nella loro estrema ferocia, finsero di essersi adeguati alla legge romana inducendo Varo ad una tale disattenzione ai problemi reali, che egli immaginava di amministrare la giustizia quasi fosse un Pretore urbano nel Foro, non il comandante di un esercito in Germania»
Varo quindi non presagiva minimamente che i Germani fossero sul punto di ribellarsi e tanto meno sospettava che la mente di tutto questo potesse essere Arminio, il quale era riuscito a federare diverse tribù come i suoi Cherusci, oltre ai Bructeri, ai Catti e i Marsi, radunando un esercito forte di 25 mila guerrieri. . L’opinione del governatore a proposito del giovane ufficiale germanico non mutò nemmeno in seguito agli avvertimenti lanciatigli dai capi tribù rimasti fedeli a Roma. Segeste, principe cherusco e futuro suocero di Arminio tentò invano di convincere Varo a farlo arrestare ma il governatore non volle ascoltarlo, come riferitoci da Velleio Patercolo:
«Segeste, un uomo di quel popolo [i Cherusci] rimasto fedele ai Romani, insisteva che i congiurati venissero incatenati. Ma il fato aveva preso il sopravvento ed aveva offuscato l’intelligenza di Varo […] egli riteneva che tale manifestazione di fedeltà nei suoi riguardi [da parte di Arminio] fosse una prova delle sue qualità»
Anzi, Varo non solo non ascoltò i suoi interlocutori ma li rimproverò seccamente accusandoli di calunnia nei confronti di Arminio e di voler soltanto creare dell’inutile allarmismo. In proposito Cassio Dione riferisce come il governatore della Germania
«Pose la sua fiducia su entrambi [Arminio suo padre Sigimero], e poiché non si aspettava nessuna aggressione, non solo non credette a tutti quelli che sospettavano del tradimento e che lo invitavano a guardarsi alle spalle, anzi li rimproverò per aver creato un inutile clima di tensione e di aver calunniato i Germani»

Fu così che grazie alla stoltezza di Varo, Arminio ebbe tutto il tempo di preparare nei dettagli l’imboscata ai danni dell’esercito romano.La strategia del principe cherusco consisteva nell’attirare le forze romane su un percorso fino ad ora mai esplorato, all’interno di una folta foresta circondata da acquitrini, un terreno sul quale i reparti imperiali non avrebbero potuto manovrare, risultando quindi vulnerabili agli attacchi dei guerrieri barbari. Arminio infatti sapeva perfettamente, in virtù della sua esperienza nell’esercito romano, che per i suoi guerrieri sarebbe stato impossibile vincere le legioni in uno scontro in campo aperto, dove la superiore abilità di manovra e la maggiore disciplina dei legionari avrebbero annichilito i pur valorosi combattenti germanici.
Torniamo allora al principio della nostra storia: Varo si era messo in marcia al comando di tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX, affiancate come abbiamo detto da sei coorti di fanteria e tre ali di cavalleria composte da ausiliari.

Seguiva una numerosa folla di civili, composta addetti alle salmerie, mercanti senza contare donne e bambini, in buona parte familiari degli stessi soldati. Secondo i piani la colonna avrebbe marciato verso sud seguendo il corso del Weser per poi attraversare il passo di Doren (le cosiddette porte della Vestfalia), da cui poi le forze romane avrebbero marciato sino ad Anreppen per poi piegare verso ovest sino ad Haltern (la romana Aliso) e di qui raggiungere il Reno seguendo la Lippe, un affluente del grande fiume.
Poco dopo l’inizio del viaggio verso gli accampamenti invernali giunse a Varo la falsa notizia di una rivolta scoppiata più ad ovest, nel territorio dei Bructeri. Arminio suggerì al suo comandante di compiere una piccola deviazione per reprimere quel tumulto affinché i germani sapessero cosa significasse sfidare Roma. Varo si disse d’accordo e lasciò che Arminio si staccasse dalla colonna con il pretesto di andare a radunare dei rinforzi mentre invece il traditore raggiunse i suoi uomini. Varo contemporaneamente deviò dal percorso programmato andandosi così a impantanare su un percorso mai esplorato prima che procedeva all’interno della selvaggia foresta di Teutoburgo. Là Arminio e i suoi guerrieri attendevano nell’ombra il passaggio della colonna romana per scatenare la loro furia sui romani.

Quando il convoglio al comando di Varo si era ormai spinto in profondità nel fitto della selva la trappola di Arminio scattò implacabilmente. Il 9 settembre si verificarono i primi attacchi dei barbari, che assaltarono i fianchi e la retroguardia della colonna. I Germani, uscendo dai loro nascondigli tra gli alberi, sbucavano urlando da ogni lato facendo strage per poi dileguarsi rapidamente come erano arrivati. I romani erano impossibilitati a reagire adeguatamente, ostacolati dalla presenza dei carri e dei civili e stretti in uno spazio troppo angusto per poter predisporre un’efficace linea di difesa. A complicare le cose ci si mise anche il maltempo: in quei giorni di fine estate scoppiarono di continuo violenti temporali che riversarono sugli sventurati legionari secchiate di acqua gelida rallentando la marcia, già resa difficile dai sentieri fangosi. Quando giunse la sera l’esercito romano si accampò in una radura dove i componenti della colonna passarono una notte da incubo, funestata da tuoni e lampi oltre che dal terrore di essere nuovamente assaliti dai barbari. Il mattino seguente, distrutti dall’insonnia, i soldati bruciarono i carri e distrussero o abbandonarono qualunque cosa potesse rallentare la marcia.
Nonostante le privazioni Varo e i suoi uomini erano comunque ancora fiduciosi di potersi salvare. Nel corso della giorno furono di nuovo attaccati più volte dai guerrieri di Arminio subendo perdite ancora più pesanti del giorno precedente ma il peggio doveva ancora arrivare: il giorno successivo, le ormai decimate forze romane vennero completamente circondate dai Germani e sterminate.Varo, ferito, si tolse la vita con la propria spada mentre migliaia dei suoi soldati vennero trucidati selvaggiamente dai barbari. Sorte ancora peggiore toccò a chi ebbe la sventura di cadere vivo in mano al nemico: i Germani torturarono i prigionieri nei modi più spaventosi per poi sacrificarne a centinaia alle loro truculente divinità. Velleio Patercolo ci racconta di un soldato, Caldo Celio, che si tolse la vita per sfuggire ai tormenti:
«Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella»
Un altro storico romano, Floro, ci narra alcune delle torture che i barbari inflissero ai vinti:
«Nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste […] ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua»

Teutoburgo fu un disastro militare di proporzioni immani: in quella foresta, tra il 9 e l’11 settembre del 9 d.C. Roma perse qualcosa come 15 mila soldati. Tre intere legioni di veterani, la XVII, la XVIII e la XIX vennero completamente spazzate vie. Non furono mai più ricostituite. Quando la notizia di Teutoburgo giunse a Roma essa suscitò uno shock paragonabile a quello causato dalla battaglia di Canne di duecentoventicinque anni prima. Augusto, allora settantaduenne, cadde in uno stato di profonda costernazione. Svetonio ci racconta la reazione dell’Imperatore quando apprese l’entità del disastro:
«Quando giunse la notizia dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: “Varo rendimi le mie legioni!». Dicono anche che considerò l’anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza.»
Dopo Teutoburgo Augusto si convinse che i Germani non avrebbero potuto essere romanizzati e ordinò alle legioni di ripiegare sul Reno che da quel momento sarebbe stato il confine dell’Impero.

Dopo la morte di Ottaviano vi furono altre spedizioni al di là del limes come quella condotta tra il 14 ed il 16 d.C. dal figlio di Druso, Germanico, organizzata per ordine di suo zio, il nuovo Imperatore Tiberio.
Germanico nel corso della campagna facendosi guidare dai pochi superstiti del massacro giunse nella selva di Teutoburgo dove i suoi uomini poterono finalmente dare degna sepoltura ai commilitoni caduti. Il figlio di Druso nel corso di quella guerra riuscì a recuperare due delle tre aquile delle legioni distrutte a Teutoburgo, insegne che per i romani avevano un valore sacrale inestimabile, anche non riuscì a sconfiggere in maniera definitiva Arminio. Anzi, i suoi soldati riuscirono a scampare per miracolo al mortale accerchiamento dei Germani alla battaglia di Idistaviso, dove Roma rischiò di subire una seconda Teutoburgo. Tiberio tenne fede alla promessa fatta al defunto padre adottivo e predecessore ponendo in maniera definitiva il confine sul Reno. Dal canto suo Arminio rimase alla testa dei popoli germanici da lui federati sino al 19 d.C. quando fu assassinato nel corso di una riunione tribale. Il sogno di unire le tribù germaniche in un unico popolo morì con lui.

Con Teutoburgo Roma perse la Germania ma nello stesso tempo la Germania perse Roma. Mentre al di qua del Reno la civiltà romana continuò a svilupparsi e prosperare per i successivi quattrocento anni, dall’altra parte le tribù germaniche restarono escluse dal processo di romanizzazione, vedendo inoltre ripetutamente frustrato il sogno di stabilirsi nei ricchi territori oltre il limes. Con il passare dei secoli il Reno divenne quindi la linea di demarcazione fra i due grandi gruppi linguistico-culturali dell’Europa Occidentale, quello neolatino e quello germanico. La battaglia di Teutoburgo, infine, divenne nel periodo a cavallo tra i secoli XIX e XX un mito per la propaganda nazionalista della Germania prima guglielmina e poi nazista, mentre Arminio fu elevato a eroe nazionale “tedesco”. Ancora oggi a a Detmold, nella parte meridionale della Foresta di Teutoburgo si erge l’Hermannsdenkmal, il grandioso monumento alto oltre 50 metri eretto tra il 1838 e il 1875 dedicato al principe cherusco assurto a simbolo imperituro dell’orgoglio nazionale teutonico.
Bibliografia:
- Velleio Patercolo, Storia Romana
- Cassio Dione, Storia Romana
- Gaio Svetonio Tranquillo, Vite dei Dodici Cesari
- Cornelio Tacito, Annales
- Publio Annio Floro, Bellorum omnium annorum o Epitome de Tito Livio