Il ricordo di Lepanto vive ancora oggi, a quasi quattro secoli e mezzo dai fatti. Lepanto ha assunto i contorni di un mito storiografico e come tutti i miti storiografici è duro a morire. Tutt’ora, con molta superficialità, si considera la battaglia come una tappa dell’eterno scontro di civiltà tra l’Occidente cristiano e l’Impero Ottomano musulmano, posti sempre in contrapposizione manichea e descritti come due blocchi monolitici quando in realtà non lo erano per niente.

Un’altra leggenda molto diffusa descrive Lepanto come l’argine all’espansione della potenza turca, in quel momento in grande ascesa in tutto il Mediterraneo Orientale. In realtà gli alleati cristiani nonostante la vittoria conseguita, non mutarono con essa l’esito della guerra, già deciso con la caduta della piazzaforte veneziana di Famagosta, a Cipro, che infatti divenne un possedimento turco.
La guerra che portò allo scontro di Lepanto ebbe inizio come un conflitto limitato tra Venezia e i turchi per la sovranità su Cipro, possedimento veneziano dal 1489. L’isola era l’estremo limite del Dominio da Mar, l’impero marittimo veneziano, situata a circa duemila chilometri da Venezia e solamente a una settantina dalla costa turca. In caso di guerra sarebbe stato effettivamente molto difficile per i veneziani difendere questo remoto avamposto senza contare che per fare ciò la Repubblica avrebbe dovuto mobilitare una quantità enorme di risorse in termini di uomini, navi e denaro.

In quel fatidico 1569 cominciarono a giungere a Venezia rapporti preoccupanti da parte del bailo, ossia l’ambasciatore della Serenissima a Costantinopoli, Marcantonio Barbaro, il quale comunicava di avere notato un incremento sospetto dell’attività dell’Arsenale di Istanbul. Egli tuttavia riferì alla Signoria che nei colloqui avuti con gli esponenti del Divano (Governo) ottomano, costoro gli avevano assicurato che la pace stipulata tra Solimano il Magnifico e Venezia, risalente al 1540, non era in discussione, tanto più che il nuovo sultano, Selim II, sul trono paterno dal 1566, l’aveva a sua volta rinnovata. Nonostante ciò, Marcantonio Barbaro ritenne opportuno avvertire il suo governo di fare attenzione e di non abbassare la guardia.

Si trattò di una scelta saggia perché in effetti i turchi avevano una rivendicazione da presentare ossia Cipro. La volontà di impadronirsi dell’isola nasceva dalla necessità per Selim II di espandere ulteriormente i possedimenti dell’impero, accreditandosi come degno successore di suo padre Solimano e del suo omonimo nonno Selim I, che erano stati grandi conquistatori. Selim inoltre non godeva di buona reputazione a causa delle sue abitudini: tutti a corte sapevano infatti della passione del sultano per il vino, il che era causa di grande scandalo presso i musulmani essendo il consumo di alcool vietato dalla religione islamica.
I turchi gettarono finalmente la maschera il 29 gennaio 1570, quando pervenne a Marcantonio Barbaro la formale richiesta cessione di Cipro da parte del Gran Visir Mehmet Pascià. Nel suo messaggio Mehmet assicurava che qualora i veneziani avessero ceduto l’isola senza combattere la faccenda si sarebbe risolta e i loro due Paesi sarebbero rimasti amici come prima. Il Gran Visir motivava le sue rivendicazioni asserendo che Cipro era stata un tempo sotto il dominio musulmano e che fosse quindi giusto secondo lui che essa ritornasse sotto il dominio dell’Islam, oltre che, più realisticamente, facendo presente come l’isola fosse divenuta un covo per le ciurme di pirati cristiani che creavano molti fastidi alle navi ottomane che percorrevano la rotta tra l’Egitto e Costantinopoli trasportando i tributi dell’Egitto destinati al sultano e i pellegrini diretti alla Mecca.

Di fronte alla richiesta turca, a Venezia si iniziò a discutere sul da farsi. Il partito della pace sosteneva la necessità di cedere Cipro senza combattere: per quanto l’isola costituisse un avamposto di grande importanza per il controllo delle rotte mediterranee, una guerra sarebbe stata un salasso finanziario per le casse della Repubblica. Tuttavia in un sussulto d’orgoglio prevalse all’interno della Signoria il partito della guerra. I veneziani, nonostante tutto, si ritenevano ancora la massima potenza navale del Mediterraneo e ritenevano di poter resistere alla nuova minaccia che si profilava all’orizzonte, anche se ciò sarebbe costato enormi sacrifici. Si diede quindi immediatamente l’ordine di mettere pieno regime i cantieri navali dell’Arsenale, mobilitati per costruire nel più breve tempo possibile una flotta che sarebbe stata inviata a Cipro per impedire lo sbarco turco. Naturalmente, accanto alla costruzione delle galere, si procedette a reclutarne la “forza motrice”, cioè i rematori.

Tutti i sudditi della Repubblica erano tenuti a servire se necessario come rematori nella flotta. Si trattava, naturalmente, di un’incombenza assai poco gradita dalle popolazioni dei possedimenti di terraferma, al punto che dai rapporti dei governatori locali alla Signoria che ci sono pervenuti emerge come i contadini si dessero in massa alla macchia all’arrivo dei reclutatori “per tema de andar in galia”, cioè per paura di essere mandati a remare sulle galere. Accanto ai coscritti, Venezia faceva ricorso anche ai volontari, i cosiddetti “buonavoglia”, oltre che ai forzati, condannati a scontare la pena incatenati al remo. A differenza di quanto accadeva in altre flotte, come quella spagnola, i veneziani facevano poco ricorso agli schiavi musulmani, per evitare di guastare i rapporti con il Sultano. Oltre che i rematori, furono ingaggiate compagnie di fanti che sarebbero state imbarcate sulle galere con il compito di lanciarsi all’arrembaggio sulle navi avversarie, una volta speronate.

La flotta uscita dai cantieri dell’Arsenale, forte di circa centocinquanta galere, partì quindi nell’aprile del 1570 alla volta di Cipro, sotto il comando del “Capitano generale da Mar” Girolamo Zane. Per la spedizione, però, nonostante la nomea di uomo fortunato dello Zane, cominciarono presto i guai: durante uno scalo a Zara, in Dalmazia, scoppiò a bordo un’epidemia di tifo che falciò rematori e soldati. Con molta fatica i veneziani arrivarono a Creta all’inizio di agosto ma, una volta arrivati, Girolamo Zane preferì non andare oltre intendendo reclutare sul posto nuovi rematori per rimpiazzare i morti. In questo clima di sconforto, giunse ad affossare definitivamente il morale la notizia che i turchi avevano espugnato Nicosia, la capitale cipriota. A questo punto lo Zane, anche a causa dell’imminente arrivo dell’autunno e delle burrasche, diede ordine di mollare gli ormeggi e rivolgere le prue verso Occidente: la flotta veneziana tornava così in Italia. In dicembre, lo sfortunato Girolamo Zane veniva esonerato dal comando, messo sotto processo, e sostituito con il settantaquattrenne Sebastiano Venier. Girolamo Zane, invece, sarebbe morto in prigionia.
Come si può capire, i ritardi accumulatati dai veneziani avevano nel frattempo permesso ai turchi di sbarcare a Cipro all’inizio di luglio pressoché indisturbati con una forza di 35-40 mila uomini sotto il comando di Lala Mustafà Pascià. Gli invasori furono ben accolti dalla popolazione cipriota, cristiana ortodossa, che mal sopportava il pesante dominio coloniale dei padroni cattolici italiani. I veneziani rinunciarono ad affrontare in campo aperto gli invasori, chiudendosi invece nelle due principali fortezze dell’isola, Nicosia e Famagosta. I turchi attaccarono subito la prima, che cadde sorprendentemente dopo poche settimane, nonostante il governo veneziano l’avesse da poco tempo munita di ottime fortificazioni. A resistere restò solo la guarnigione di Famagosta, al comando del valoroso governatore veneziano Marcantonio Bragadin.

Nel frattempo, a Roma, la notizia dello scoppio della guerra per Cipro tra veneziani e turchi riaccese le speranze di Papa Pio V, il quale da tempo coltivava il sogno di unire gli stati cattolici in una Lega Santa in grado finalmente di neutralizzare la minaccia turca. Fu così che i nunzi apostolici in Spagna e a Venezia intavolarono trattative con il Re di Spagna, Filippo II, e il Doge. I negoziati durarono mesi, con un fitto scambio di messaggi tra Roma, Venezia e Madrid, riguardanti quante galere ciascuno dei partner avrebbe dovuto armare e quanti soldati sarebbero stati imbarcati su ogni nave. Altro motivo di rissa fu la scelta del comandante. Alla fine, nella primavera del 1571, si giunse alla firma del trattato costitutivo della Lega Santa cristiana, i cui membri avrebbero messo in mare complessivamente 212 galere il cui comando supremo sarebbe stato affidato all’ammiraglio spagnolo Don Giovanni d’Austria, fratellastro di Re Filippo.
Accanto ai tre alleati principali, Venezia, Spagna e Papato, si aggregarono potenze minori anch’esse interessate a contenere il pericolo rappresentato dalla marina ottomana: i Cavalieri di Malta, il Ducato di Savoia, Genova e il Granducato di Toscana. Mentre la flotta degli alleati si apprestava a radunarsi a Messina quella turca si mosse verso occidente per colpire i possedimenti veneziani. Il Kapudan Pascià, cioè il comandante della flotta del Sultano, Alì Pascià, mosse su Creta per poi risalire lo Ionio puntando verso l’imbocco dell’Adriatico.

Sebastiano Venier, in quei giorni aveva fatto scalo a Corfù, intanto, decise di navigare verso Messina per riunirsi alle altre forze della Lega Santa, compiendo l’azzardo di lasciare che i turchi risalissero l’Adriatico. Gli ottomani attaccarono e saccheggiarono così le basi veneziane sulle coste dell’Albania, del Montenegro e della Dalmazia, mentre a Venezia il popolino già iniziava a temere che di lì a poco gli ottomani sarebbero sbarcati al Lido.
Venuto a conoscenza del ricongiungimento della flotta cristiana Alì Pascià, per evitare di restare imbottigliato nell’Adriatico, fece dietrofront, andandosi a chiudere entro un porto riparato dove avrebbe potuto far riposare i suoi uomini e riparare i danni che le imbarcazioni avevano subito dopo un’intera stagione di navigazione: Lepanto, nel golfo di Corinto. In effetti i turchi avevano subito gli effetti devastanti di un’epidemia che era scoppiata a bordo delle navi e, consci della loro inferiorità, contavano di svernare nel munitissimo porto di Lepanto, sul quale facevano buona guardia all’ingresso i cannoni delle fortezze costiere.

I cristiani arrivarono davanti a Lepanto il 6 ottobre 1571 e a quel punto, obbedendo all’ordine del sultano che imponeva di “affrontare e sconfiggere gli infedeli per la salvezza dell’impero e della religione”, i turchi uscirono dal loro rifugio disponendosi a battaglia, con Alì Pascià, comandante supremo, al centro, mentre sull’ala destra il comando fu affidato a Mehmet Suluk, detto Scirocco, bey di Alessandria e famigerato corsaro, mentre a sinistra fu posto Uluç Alì, un rinnegato di origine calabrese divenuto uno dei più temuti ammiragli turchi. Dal canto loro i cristiani si disposero con Don Giovanni, Sebastiano Venier, e Marcantonio Colonna, al centro, mentre a sinistra, contrapposto a Mehmet Suluk stava il veneziano Agostino Barbarigo e a destra, a vedersela con Uluç Alì c’era il genovese Gian Andrea Doria.
La battaglia, combattuta il 7 ottobre, fu feroce e vide, come noto, la vittoria dei cristiani, i quali, nonostante disponessero di un minor numero di galere, potevano però fare affidamento su di un maggior numero di cannoni, in particolare quelli imbarcati sulle galeazze veneziane. I cristiani le rimorchiarono davanti allo schieramento, e da quella posizione i nove cannoni pesanti di ciascuna delle sei navi poterono sfoderare tutta la loro formidabile potenza. Anche negli arrembaggi la fanteria europea, armata di archibugio e difesa da corazza ed elmetto metallico, si rivelò superiore a quella ottomana, armata alla leggera e tra le cui file solo i giannizzeri erano dotati di armi da fuoco. Il trionfo cristiano fu totale, con l’affondamento pressoché completo della flotta ottomana, la liberazione di circa quindicimila schiavi cristiani incatenati ai remi delle galere musulmane, e l’uccisione circa trentamila nemici e di quasi tutti i comandanti turchi, tra i quali solo Uluç Alì, vecchio lupo di mare, riuscì a sganciarsi e fuggire.

Nonostante il successo netto conseguito la guerra per Venezia era già da considerarsi persa il 4 agosto quando Famagosta fu costretta ad arrendersi. Non sappiamo bene cosa accadde al momento della firma della resa, fatto sta che il comandante turco Lala Mustafà Pascià ebbe un diverbio con quello veneziano, Marcantonio Bragadin, che accusò di averlo insultato. Lala Mustafà fece decapitare Astorre Baglioni e Alvise Martinengo, gli altri capitani veneziani mentre Bragadin fu lungamente torturato e infine scorticato vivo in modo atroce e con la sua pelle fu realizzato un fantoccio, appeso poi all’albero maestro della galera di Lala Mustafà. Bragadin venne così celebrato dalla propaganda cristiana come un martire e come un esempio della ferocia dei turchi sui prigionieri.
Il successo di Lepanto fu fin da subito estremamente esaltato, pur trattandosi di un trionfo effimero, anche perché la stagione autunnale ormai iniziata impedì la prosecuzione delle operazioni militari. Venezia riconobbe la sconfitta subita a Cipro e nel 1573 firmò la pace con il Sultano.

La Serenissima, finanziariamente dissanguata dalla guerra del 1569-1571, imboccò la strada di un progressivo declino, aggravato anche dalla perdita di importanza delle rotte mediterranee a favore di quelle atlantiche. Gli ottomani si ripresero in fretta dalla sconfitta e nel 1574 riconquistarono Tunisi, che la Lega Santa aveva preso l’anno prima, sanzionando il fallimento della coalizione cristiana. Lepanto però era già entrata nella memoria collettiva, restando nell’immaginario popolare come l’epico di due mondi, quello cristiano e quello musulmano, così diversi ma in fondo anche così simili.
Bibliografia
- Alessandro Barbero, Lepanto – La battaglia dei tre imperi, ed. Laterza