Nell’ottobre del 1962 il mondo rimase con il fiato sospeso, con la consapevolezza di essere ad un passo dal precipitare nel baratro di una terza guerra mondiale, la quale con ogni probabilità avrebbe cancellato per sempre l’umanità dalla faccia della Terra. Protagonisti di quei giorni al cardiopalmo furono le due superpotenze della Guerra Fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica, oltre a Cuba. Collocata al centro del Golfo del Messico, la grande isola caraibica era stata fino al 1898 un possedimento spagnolo. Nel 1898 gli Stati Uniti sostennero una rivolta dei cubani contro la dominazione iberica dichiarando guerra alla Spagna.

La guerra ispano-americana durò dall’aprile all’agosto del 1898 e si chiuse con una disastrosa disfatta per la monarchia iberica che si trovò costretta a riconoscere l’indipendenza di Cuba e a cedere agli USA Portorico, Guam e l’arcipelago delle Filippine.
L’intervento a Cuba fu la prima manifestazione della nuova politica di potenza perseguita dal governo di Washington. Pur essendo essi stessi nati da una rivoluzione anti colonialista contro la Gran Bretagna, a cavallo tra Otto e Novecento gli Stati Uniti, ormai esaurita la conquista dell’Ovest (il leggendario “Far West”), iniziarono a praticare una sorta di “imperialismo informale”, mediante l’acquisizione diretta o indiretta di territori nell’area del Pacifico e in America Latina. La vocazione imperiale della nuova potenza statunitense si espresse appieno nel corso della presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909), il quale mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani, mostrando grande disinvoltura nell’alternare la pressione economica (la “diplomazia del dollaro”) con la minaccia dell’intervento armato (la “politica del grosso bastone”). Da quel momento l’America Latina si avviò a diventare il “cortile di casa” degli Usa, i quali esercitarono un potere di polizia informale, intervenendo per soffocare l’instabilità politica e l’agitazione sociale dei Paesi latinoamericani e tutelare gli interessi delle compagnie statunitensi operanti nella regione.
La politica statunitense mutò con l’avvento alla Casa Bianca di Franklin Roosevelt, il quale a partire dal 1933 promosse una “politica del buon vicinato” verso l’America Latina. Il risultato dell’azione conciliante di Roosevelt fu un sensibile miglioramento delle relazioni tra Washington e i propri vicini meridionali, testimoniato dal livello di cooperazione politica, militare ed economica senza precedenti, in particolare dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. La collaborazione fra Stati Uniti e Paesi latinoamericani sfociò nel 1948 nella costituzione dell’Organizzazione degli Stati americani, creata su impulso statunitense per favorire la cooperazione economica fra le nazioni della regione ma avente anche lo scopo di impedire l’aggravarsi dell’instabilità politica e il riacutizzarsi delle tensioni sociali che avrebbero favorito la penetrazione del comunismo nell’emisfero occidentale.

Al termine della seconda guerra mondiale tuttavia il nuovo clima politico della Guerra Fredda condusse ad un risveglio dell’interventismo statunitense. Nel 1954 infatti, l’amministrazione Eisenhower sospese ogni aiuto alla piccola repubblica del Guatemala, il cui Presidente, Jacobo Árbenz Guzmán aveva promulgato un vasto piano di redistribuzione delle terre ai contadini. Ciò ledeva fortemente gli interessi della United Fruit Company, potentissima compagnia statunitense proprietaria di migliaia di acri di terreno. La presenza di comunisti nell’entourage di Árbenz non faceva che peggiorare le preoccupazioni di Washington, dove si temeva il possibile slittamento del Guatemala nell’orbita sovietica.
La dirigenza sovietica post-staliniana da parte sua in un primo tempo si limitò al ruolo di spettatrice ma ben presto mutò parere, solleticata dalla possibilità di sfidare l’egemonia degli Stati Uniti nel loro stesso emisfero. Mosca procedette quindi alla consegna, per tramite della Cecoslovacchia, di un carico di vecchie armi tedesche al governo guatemalteco. Tale operazione offrì agli Usa il pretesto di intervenire: nella primavera del 1954 un colpo di stato orchestrato dalla CIA portò alle dimissioni di Árbenz, costretto alla fuga in Messico. Al vertice dello stato si insediò una giunta militare al comando del colonnello Carlos Castillo Armas che procedette alla revoca di tutte le riforme messe in atto dal precedente governo.

Nel 1959, a Cuba, il regime del generale Fulgencio Batista, al potere dal 1933, fu rovesciato dalla guerriglia iniziata tre anni prima sulle montagne della Sierra Maestra dal movimento rivoluzionario “26 luglio” guidato da Fidel Castro. Schierato inizialmente su posizioni democratico-riformiste, Castro mise in atto una riforma agraria che colpiva il monopolio della United Fruit Company sulla coltivazione di canna da zucchero, principale risorsa dell’isola. Gli Stati Uniti, che non avevano ostacolato la rivoluzione ed avevano riconosciuto il nuovo regime, a quel punto iniziarono a mostrarsi ostili al leader cubano. Castro dal canto suo ruppe le relazioni diplomatiche con gli USA e iniziò a rivolgersi all’Unione Sovietica, che si mostrò disposta ad acquistare lo zucchero cubano ad un prezzo superiore a quello di mercato. Nel giro di pochi anni Cuba assunse le caratteristiche di un sistema socialista: l’economia venne statalizzata mentre fu imposto un regime a partito unico.
Cuba divenne così una spina nel fianco per Washington: per la prima volta nel cuore del “cortile di casa” statunitense si affermava un regime di stampo marxista-leninista il quale mirava a esportare il proprio modello rivoluzionario in altri Paesi dell’America Latina e del Terzo Mondo come dimostrato dalle azioni intraprese dal guerrigliero argentino Ernesto Che Guevara, stretto collaboratore di Castro, che fu catturato e ucciso dalle forze boliviane nel 1967 mentre tentava di suscitare un “fuoco” rivoluzionario nel Paese andino.

Alla sfida cubana gli USA risposero, nel 1961, lanciando la cosiddetta “Alleanza per il Progresso”, un vasto programma di aiuti ai Paesi latino-americani volti a estirpare analfabetismo, fame e malattie dalla regione, annunciato nel suo discorso d’insediamento dal nuovo presidente americano, il democratico John Fitzgerald Kennedy.
Il nuovo inquilino della Casa Bianca era ad ogni modo persuaso ad agire nei confronti del leader cubano. Già nel corso della campagna elettorale per le presidenziali del 1960, Kennedy aveva criticato fortemente Eisenhower (e con lui il vicepresidente, Richard Nixon, suo avversario alle elezioni) per avere permesso l’installazione a Cuba di un regime filo-sovietico. Poco dopo l’inizio del suo mandato, il presidente approvò un piano, predisposto alla fine della precedente amministrazione. Esso prevedeva lo sbarco a Cuba di 1.600 esuli cubani anti-castristi che nei piani degli organizzatori avrebbero dovuto indurre alla diserzione le milizie cubane e suscitare una sollevazione da parte della popolazione civile.

Il ricordo della facilità con cui poche centinaia di ribelli guatemaltechi avevano rovesciato il governo di Arbenz nel 1954 era ancora fresco nelle menti dei dirigenti della CIA. L’operazione scattò all’alba del 17 aprile 1961, quando le forze d’invasione furono fatte sbarcare a Giron Beach, nella Bahia de los Cochinos (la Baia dei Porci). Contrariamente a quanto previsto dagli statunitensi la popolazione cubana non si sollevò mentre le forze di sicurezza cubane rimasero fedeli a Casto. Dopo tre giorni la totalità degli invasori erano stati arrestati o uccisi.
Preso atto del fallimento Kennedy rifiutò un ulteriore coinvolgimento delle forze regolari americane nell’operazione, abbandonando i golpisti al loro destino. Da parte sua Castro ebbe da quel momento buone ragioni per temere un’invasione statunitense, motivo per cui si rivolse all’Unione Sovietica in cerca di protezione dalle minacce del potente vicino settentrionale. Il segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e Primo Ministro Nikita Chruščëv colse immediatamente la palla al balzo. Cuba rappresentava l’unico alfiere del socialismo nell’emisfero occidentale pertanto la difesa della rivoluzione castrista divenne un obbiettivo preminente della politica estera dell’Unione Sovietica, la quale intendeva presentarsi come la protettrice dei popoli oppressi dall’imperialismo capitalista.
Nell’aprile del 1962 il Presidium sovietico approvò infine la richiesta di assistenza militare a Cuba. Alla repubblica caraibica vennero destinati 180 missili terra-aria per la difesa aerea e una brigata di fanteria sovietica. Il mese successivo Chruščëv si spinse ancora più in là ottenendo l’approvazione di un piano molto più ambizioso che prevedeva la costruzione di una base per sottomarini che trasportavano missili dotati di testate atomiche, oltre che di trentasei lanciamissili SS-4 e ventiquattro SS-5, entrambe categorie missilistiche a gittata intermedia (1.100 e 2.200 miglia nautiche, rispettivamente).

Queste armi non facevano parte degli aiuti richiesti da Castro, ma la dirigenza sovietica ebbe gioco facile a convincere il “Comandante” ad accettarle per la difesa della sua isola. Chruščëv contava, attraverso la consegna e l’installazione dei missili, prevista tra agosto e novembre 1962, di mettere Kennedy davanti al fatto compiuto. Gli USA avrebbero così dovuto abituarsi a convivere con la presenza dei missili cubani proprio come l’URSS doveva fare i conti con i missili a gittata intermedia (Intermediate-range Ballistic Missiles IRBM) “Jupiter” installati dagli americani in Italia e in Turchia.
Gli americani vennero a conoscenza delle trame sovietiche il 16 ottobre 1962, quando la CIA mostrò al presidente Kennedy le foto ottenute dagli aerei spia U-2. Le immagini mostravano un’area nei pressi di San Cristobal nella quale era in corso la costruzione di una base missilistica. Rapporti trasmessi dalle spie statunitensi riferivano inoltre del via vai di autocarri che trasportavano cilindri di ottanta piedi coperti da teloni all’interno delle foreste cubane. A quel punto si riunì alla Casa Bianca un team di alti funzionari allo scopo di elaborare la risposta adeguata al problema cubano, ufficialmente conosciuto con il nome di Comitato Esecutivo del National Security Council.

Tutti i membri del gruppo di lavoro concordavano sul fatto che il risultato prioritario dovesse essere ottenere la rimozione dei missili da Cuba. Vennero presentate al presidente tre diverse opzioni. La prima prevedeva una campagna di attacchi aerei miranti a distruggere i siti missilistici prima che la loro costruzione fosse completata. La seconda proposta prevedeva una vera e propria campagna di invasione anfibia di Cuba condotta da truppe regolari americane con pieno supporto aereo. Entrambe le ipotesi furono tuttavia rigettate in quanto in ambedue i casi vi era il forte rischio di provocare vittime tra i tecnici russi che lavoravano ai siti missilistici con il rischio di provocare una rappresaglia nucleare sovietica. La terza ipotesi, infine, prevedeva una campagna puramente diplomatica in seno alle Nazioni Unite per costringere i sovietici a smantellare i missili. Tale opzione tuttavia si rivelò ugualmente inaccettabile in quanto i ritardi causati dalle trattative diplomatiche avrebbero consentito ai sovietici di ultimare la costruzione dei siti di lancio.

Kennedy non poteva permettersi errori. Si approssimavano le elezioni di medio termine motivo per cui egli intendeva mostrare all’opinione pubblica statunitense tutta la sua decisione nel controbattere alla minaccia comunista e nel contempo non offrire all’opposizione repubblicana il destro per nuove critiche al suo operato dopo il polverone sollevato l’anno precedente dal fallimento dello sbarco alla Baia dei Porci. Il presidente quindi si mosse in base ad una strategia a doppio binario mirante da un lato a ottenere lo smantellamento delle basi missilistiche e dall’altro a minimizzare il rischio di un confronto militare diretto con l’Unione Sovietica. Innanzitutto ordinò innanzitutto un concentramento massiccio di forze militari convenzionali in Florida in vista di una possibile invasione di Cuba. Poi ricorse al sistema dall’allarme dello stato della difesa (DEFCON), istituito nel 1959 da Eisenhower dopo che il territorio americano era entrato nel raggio delle armi atomiche sovietiche.

Il 22 ottobre 1962 Kennedy innalzò lo stato d’allerta da DEFCON 3 a DEFCON 2, il più elevato prima dello scoppio della guerra. Furono quindi quintuplicati i bombardieri B-47 e B-52 del Comando Aereo Strategico tenuti in volo, mentre 182 missili intercontinentali (InterContinental Balistic Missiles ICBM) Minutemen vennero preparati per essere lanciati.
Quella sera stessa il presidente parlò alla Nazione, informando i suoi concittadini della situazione in corso. Durante il suo discorso televisivo il capo della Casa Bianca accennò alle fotografie raccolte dagli aerei U-2 annunciando l’istituzione di una “quarantena” navale contro Cuba per prevenire l’arrivo di navi sovietiche trasportanti ulteriori componenti per i missili in costruzione. Kennedy evitò volutamente di utilizzare la parola “blocco” in quanto altrimenti si sarebbe trattato di un atto di guerra in base al diritto internazionale. In ogni caso il presidente ammonì i sovietici che il blocco rappresentava soltanto il primo passo e che un missile cubano scagliato contro un qualsiasi Paese dell’emisfero occidentale sarebbe stato considerato da Washington come un atto di guerra contro gli Stati Uniti.

La quarantena divenne operativa a partire dal 24 ottobre quando 180 navi furono schierate nel Mar dei Caraibi. La sera di quello stesso giorno giunse la notizia che quattro navi sovietiche avevano invertito la rotta, dirigendosi nuovamente verso i porti di partenza. Il 26 ottobre con il passare delle ore la situazione parve precipitare verso un punto di non ritorno. Quel venerdì mattina Kennedy ordinò al dipartimento di stato di approntare la creazione di un governo civile per Cuba quando l’isola sarebbe stata invasa e occupata. Come riferì il ministro della difesa Robert McNamara, secondo il parere dei militari le forze statunitensi avrebbero dovuto aspettarsi gravissime perdite nel corso delle operazioni di sbarco e invasione.
Mentre erano in corso i preparativi per l’attacco contro Cuba il governo americano aspettava una risposta da Chruščëv, che giunse intorno alle ore sei di quella sera. Nel suo messaggio il Primo Ministro sovietico spiegò come fosse inutile tentare di intercettare le navi sovietiche dirette verso Cuba in quanto i missili erano già presenti sull’isola. Tuttavia Chruščëv si dichiarava pronto a procedere alla rimozione delle basi missilistiche qualora gli americani si fossero impegnati a non invadere Cuba. Mentre Kennedy e il suo staff meditavano su come rispondere al messaggio, giunse una seconda lettera del segretario del PCUS, contenente una condizione aggiuntiva: oltre all’impegno a non attaccare Castro, l’Unione Sovietica esigeva la rimozione dei 15 missili balistici intercontinentali installati dagli americani in Turchia tra la fine del 1961 e l’inizio del 1962.
Già nell’estate del 1961 Kennedy era stato sul punto di cancellare l’installazione di quei missili, giudicati ormai obsoleti. Al momento della crisi di Cuba i vertici militari statunitensi avevano già previsto la loro rimozione una volta che fossero stati dispiegati nel Mediterraneo i sottomarini Polaris, armati di missili SLBM (Submarine-Launched Ballistic Missiles). Fu quindi facile per Kennedy assecondare la nuova richiesta di Chruščëv.

La risposta americana partì il giorno successivo, sabato 27 ottobre. Con questa missiva Kennedy si impegnava a non invadere Cuba in cambio della rimozione di tutti i missili sovietici dall’isola. Contemporaneamente il ministro della giustizia Robert Kennedy, fratello del presidente, assicurò l’ambasciatore sovietico Anatolij Dobrinin che i missili Jupiter sarebbero stati ritirati non appena la crisi fosse terminata, pur non potendo concedere impegni scritti in tal senso per motivi di ordine tanto interno quanto internazionale. L’amministrazione Kennedy intendeva infatti lanciare un segnale di fermezza nei confronti del comunismo in vista delle elezioni di metà mandato e nel contempo era intenzionata a tranquillizzare gli alleati europei della NATO, i quali avrebbero potuto temere simili “baratti” sopra le loro teste in futuro.
Chruščëv poté a quel punto ritenersi soddisfatto dell’esito della crisi. Aveva infatti ottenuto l’instaurazione di un regime amico a poche centinaia di miglia dalle coste statunitensi oltre alla promessa di smantellamento dei sistemi missilistici installati da Washington ai propri confini. Perciò il leader del Cremlino non era disposto a trascinare il proprio Paese in una terza guerra mondiale in nome del proprio alleato cubano.

Il 28 ottobre il segretario del PCUS spedì a Washington una terza e ultima lettera in cui accettava l’assicurazione americana nei confronti di Cuba e nel contempo si impegnava a rimuovere i missili. Fidel Castro venne informato dell’esito della crisi con un cablogramma pervenutogli il 30 ottobre. Il Lider Maximo percepì l’atteggiamento di Chruščëv come un tradimento nei confronti della rivoluzione cubana ed un cedimento nei confronti degli “imperialisti yankee”. Tuttavia fu costretto a tornare nei ranghi dopo che Mosca lo minacciò di tagliare i rifornimenti di petrolio russo dai quali Cuba era disperatamente dipendente. Kennedy e i suoi successori si mantennero fedeli alla promessa di non invadere l’isola caraibica, un impegno che peraltro nell’agosto 1970 fu formalizzato con un accordo ufficiale tra il presidente Richard Nixon e il segretario del PCUS Leonìd Brèžnev, successore di Chruščëv. Fidel Castro rimase così al potere sino al 2008, quando a causa di problemi di salute lasciò la presidenza al fratello Raul.
Il carismatico condottiero della rivoluzione cubana è scomparso il 25 novembre 2016 alla veneranda età di novant’anni dopo essere sopravvissuto a tutti gli altri protagonisti della crisi dei missili e avere avuto modo di assistere personalmente al crollo dello stesso sistema sovietico. Nel momento più acuto della crisi missilistica il mondo parve essere ad un passo dal precipitare nell’abisso dell’Armageddon. Il pericolo di sprofondare “per errore” in un conflitto nucleare globale indusse le superpotenze a migliorare il sistema di comunicazione, decisamente rudimentale, che collegava Washington e Mosca.

Fu così che il 20 giugno 1963 Stati Uniti e Unione Sovietica firmarono un accordo che istituiva il cosiddetto “telefono rosso”: da quel momento il Cremlino e la Casa Bianca avrebbero potuto comunicare direttamente via telescrivente, minimizzando i margini di fraintendimento ed evitando così azioni non volute da ambo le parti.
Un’altra conseguenza dell’affaire cubano si poté osservare nella rinnovata energia con cui Stati Uniti e Unione Sovietica si impegnarono per trovare una soluzione per il controllo degli armamenti nucleari, un problema rimasto insoluto sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Dopo il fallimento, nel corso degli anni Cinquanta, delle proposte sovietiche di disarmo, nel corso degli anni Sessanta le superpotenze iniziarono a focalizzarsi su due obbiettivi più concreti seppur meno ambiziosi: il primo consisteva nella proibizione, per le potenze in possesso di armi nucleari, di testarle in maniera che potesse arrecare danno all’ambiente o alla salute umana, mentre il secondo prevedeva il divieto a quei Paesi che non disponevano di armi atomiche di dotarsene in futuro.
Bibliografia:
- William R. Keylor, Un mondo di nazioni, L’ordine internazionale dopo il 1945
- Robert F. Kennedy, I tredici giorni della crisi di Cuba
- G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi
- Aurelio lepre, Guerra e pace nel XX secolo
Interessante articolo. Mi chiedevo proprio stamani, guardando una trasmissione su Rai Storia, perché Kennedy sia così celebrato. A me pare che abbia fatto dei gran pasticci.
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