Così recita uno dei versi della strofa finale della celeberrima canzone di Giovanni Gaeta, meglio noto con lo pseudonimo di E.A. Mario, intitolata “La leggenda del Piave. Nella stessa strofa si immagina indietreggiare il nemico “fino a Trieste, fino a Trento”, mentre in una visione quasi mistica tra le schiere dei combattenti italiani “furon visti risorger Oberdan, Sauro e Battisti”, martiri dell’irredentismo italiano, giustiziati per impiccagione dagli austriaci, le cui forche, secondo il testo della canzone, sono infrante “dall’italico valore”.

Al netto della retorica la Leggenda del Piave, col suo ritmo orecchiabile, ci aiuta a tornare a quei primi giorni del novembre 1918, quando l’entusiasmo per la vittoria, definita come “romana” dal Presidente del Consiglio Orlando, si diffuse nel Paese. Tuttavia, una volta spentasi l’esultanza generale la Nazione si trovò presto a fare un bilancio della sanguinosa avventura appena terminata dopo ben quarantuno lunghissimi mesi.
A raffreddare gli entusiasmi c’erano, tanto per cominciare, le immani perdite umane provocate dalla guerra. Nel corso del conflitto vennero arruolati tutti gli uomini validi, dalle più anziane classi di leva del 1874 e del 1875, sino ai giovanissimi nati nel 1898 e nel 1899, mandati a combattere a soli diciotto anni. Furono così mobilitati complessivamente oltre cinque milioni e mezzo di combattenti tra i quali i caduti furono circa 650 mila mentre i feriti ammontarono alla cifra spaventosa di due milioni e mezzo dei quali 463 mila rimasero invalidi per il resto della vita. Migliaia furono poi coloro che rimasero lesi nell’animo, resi folli dagli orrori di un conflitto brutale.
La Grande Guerra inoltre aprì una voragine nei conti dello Stato. Per finanziare il conflitto era infatti stata spesa l’astronomica cifra di 45 miliardi di lire, pari a 64 miliari di euro attuali. Ad un debito pubblico ormai fuori controllo si doveva aggiungere un’inflazione galoppante: alla fine della guerra la lira valeva un quinto di quanto valeva nel 1914. La svalutazione incenerì i risparmi dei ceti medi distruggendo inoltre il potere d’acquisto di vaste categorie sociali che vivevano di un solo reddito fisso, come gli operai dell’industria.
Appare naturale, alla luce degli enormi sacrifici sopportati dal Paese per sostenere lo sforzo bellico, che l’opinione pubblica chiedesse ora la conclusione di un trattato di pace che desse piena soddisfazione agli interessi italiani. La conferenza di Pace aprì i suoi lavori il 18 gennaio 1919 nella magnifica reggia di Versailles. Si trattava della più grande assise diplomatica a cui il Vecchio Continente avesse mai assistito dai tempi del Congresso di Vienna tenutosi cento anni prima. L’Italia aveva la grande occasione di partecipare alla conferenza da protagonista sedendo allo stesso tavolo degli altri tre grandi vincitori, Gran Bretagna, Francia e soprattutto Stati Uniti, il che costituiva un trionfo per il nostro Paese, almeno da un punto di vista dell’immagine internazionale.
L’onore e l’onere di rappresentare l’Italia a questo importante appuntamento toccò al ministro degli esteri Sonnino e al Presidente del Consiglio Orlando. Tuttavia i due capi della delegazione italiana erano destinati a deludere le attese.

In questo senso fu profetico l’anziano ex Premier Luigi Luzzatti, il quale, quando la strana coppia Sonnino – Orlando prese la via di Parigi, si lasciò sfuggire un tagliente commento “Sonnino tacerà in tutte le lingue che sa. Orlando parlerà in tutte le lingue che non sa” e in effetti parlava a mala pena un po’ di francese.
Ma al di là delle carenze in campo linguistico, i nostri rappresentanti si trovarono isolati al tavolo della pace principalmente a causa della poca lungimiranza e dell’ambiguità dimostrate dalla nostra diplomazia durante gli anni di guerra oltre per colpa delle spigolosità del carattere sia di Orlando che, in modo particolare, di Sonnino, fattore che complicò i rapporti con gli altri leader. Uomo dalla personalità difficile per non dire intrattabile, il ministro degli esteri insistette fin da subito sull’applicazione alla lettera del Patto di Londra, scontrandosi frontalmente con il presidente americano Thomas Woodrow Wilson, il quale non solo non si sentiva vincolato da quel trattato, che il suo Paese non aveva sottoscritto, ma anzi lo rigettava, avverso com’era alla diplomazia segreta di cui auspicava la totale messa al bando, come già affermato nel primo dei suoi famosi “Quattordici Punti” presentati di fronte al Senato statunitense l’8 gennaio 1918. Wilson, che nel dicembre del 1918 era stato il primo presidente americano a varcare l’Atlantico, fu accolto da entusiastiche manifestazioni popolari tributategli dagli europei, che vedevano in lui l’uomo che avrebbe restituito la pace ad un Vecchio Continente devastato da quattro anni di guerra infernale. Nel corso del suo tour il presidente visitò anche l’Italia tra il 9 e il 10 gennaio del 1919, dove la calorosa accoglienza ricevuta tanto dalla popolazione quanto dai politici nostrani lo indusse a credere che che il popolo italiano fosse d’accordo con il suo programma.
I rappresentanti italiani, già isolati diplomaticamente, dovettero dunque fare i conti con il “fattore Wilson”, di cui non avevano tenuto conto all’inizio dei lavori. Il presidente americano era fermamente deciso, nel caso dell’Italia, a far rispettare il nono dei suoi quattordici punti, secondo il quale le nostre frontiere sarebbero state fissate rispettando “clearly recognizable lines of nationality”, ovvero “elementi chiaramente riconoscibili di nazionalità”.

Quindi se da un lato Wilson non fece obiezioni alle nostre pretese sull’Alto Adige, dall’altro si intestardì su quelle avanzate dall’Italia a proposito del confine orientale. Wilson prese le parti della delegazione jugoslava guidata dal croato Ante Trumbic, il quale giunse persino a reclamare Gorizia e Trieste per il proprio Paese. Il presidente americano si erse allora ad arbitro del dissidio italo – jugoslavo, proponendo, in un memorandum del 14 aprile 1919, una linea di confine fra i due Paesi subito rispedita al mittente da Orlando e Sonnino in quanto, anche se riconosceva Trieste all’Italia, la lasciava alla portata delle artiglierie jugoslave assegnando la maggior parte dell’Istria alla Jugoslavia.
A sollevare ulteriori discussioni fu il problema di Fiume (l’odierna Rijeka, in Croazia). La popolazione della città era in maggioranza di lingua italiana pur essendo circondata da una campagna prevalentemente slava. Essa non rientrava nell’originale “pacchetto” di rivendicazioni presentato da Sonnino a Londra nel 1915 in quanto, secondo i piani del ministro, essa sarebbe dovuta restare l’unico grande porto sull’Adriatico dell’Austria-Ungheria, di cui nessuno allora avrebbe mai immaginato la dissoluzione. Nel suo memorandum Wilson sottolineava l’indispensabilità della città per l’economia jugoslava, dimostrandosi irremovibile anche di fronte alla possibilità di una cessione di Fiume all’Italia in cambio della rinuncia da parte nostra di qualunque pretesa sulla Dalmazia. Per uscire dall’impasse creatosi, Wilson prese allora la malaccorta decisione di rivolgere un appello direttamente al popolo italiano, una mossa che andava contro tutte le regole della diplomazia e che venne letto come un invito alla sconfessione della delegazione italiana.

Orlando e Sonnino scelsero allora di abbandonare il consesso di Parigi venendo accolti come trionfatori dall’opinione pubblica al loro rientro in Italia, il 29 aprile 1919, mentre l’atteggiamento del presidente americano nei confronti dell’Italia suscitava lo sdegno dei nazionalisti nostrani, esacerbandone gli animi. In questa atmosfera da “maggio radioso” il solito D’Annunzio pronunciò un’infiammata concione contro Wilson, il quale, con la sua bocca “piena di falsi denti e di false parole”, osava impartire lezioni “a una Nazione vittoriosa, anzi alla più vittoriosa di tutte le Nazioni, anzi alla salvatrice di tutte le Nazioni”. Fu il Vate il primo a parlare di “Vittoria mutilata”, in riferimento ad un’Italia tradita dai propri alleati e defraudata dei giusti compensi territoriali dovuti per il contributo dato alla vittoria finale. Come osservò Gaetano Salvemini, quello della vittoria mutilata divenne un vero e proprio mito cavalcato dagli ambienti nazionalisti e reducisti, e più tardi dal nascente movimento fascista.
Nel frattempo, una volta rientrata la crisi, Orlando e Sonnino risalirono sul treno per Parigi, anche perché gli anglo-franco-americani avevano già minacciato l’Italia che qualora la nostra assenza si fosse prolungata avrebbero dichiarato decaduto il Patto di Londra. I nostri delegati giunsero nella capitale francese il 7 maggio, proprio il giorno in cui francesi e inglesi si spartirono tra loro le colonie tedesche lasciando l’Italia a bocca asciutta. Alla fine del mese, il 29 maggio, dopo laboriose trattative, si giunse alla definizione delle frontiere orientali italiane con un risultato in larga parte favorevole all’Italia: ci furono assegnati il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia-Giulia con Trieste e Gorizia e la penisola istriana, cioè la maggior parte dei compensi promessi nel 1915. La Dalmazia fu assegnata alla Jugoslavia mentre per Fiume fu proposto lo statuto di “città libera”, ponendola temporaneamente sotto la tutela di un contingente multinazionale alleato. L’esito del negoziato tutto sommato premiava la linea di intransigenza adottata da Sonnino ma il governo era destinato a vita breve: bersagliato dalle bordate dei nazionalisti e messo sotto accusa da un’opinione pubblica che dopo averlo acclamato ora gli rinfacciava l’abbandono della conferenza, Vittorio Emanuele Orlando fu costretto il 19 giugno alle dimissioni dopo una mozione di sfiducia della Camera. Gli succedette il suo ministro del Tesoro Francesco Saverio Nitti, mentre la responsabilità del ministero degli esteri tocco al liberale Tommaso Tittoni, uomo decisamente più trattabile di Sonnino e per questo maggiormente gradito agli alleati.

A Fiume intanto la situazione diventava sempre più incontrollabile fra continui tumulti della popolazione a favore dell’annessione all’Italia, oltre a scontri fra i contingenti nazionali della forza anglo-franco-italo-americana inviata a presidio della città. Nello stesso periodo, su iniziativa di un gruppo di ufficiali italiani nazionalisti favorevoli all’annessione, si costituì una “legione fiumana” composta da volontari per “difendere” Fiume, in particolare dal contingente francese, ritenuto filo-jugoslavo.
La tensione toccò il suo apice quando, a metà luglio del 1919, a seguito di tafferugli fra soldati italiani e francesi, nove militari transalpini rimasero sul selciato mentre altri undici vennero feriti. Il presidente francese Georges Clemenceau, indignato, tuonò contro gli italiani, da lui definiti “popolo di assassini”, causando il gelo nelle relazioni fra Roma e Parigi. Per indagare sulle cause dell’accaduto fu istituita un’apposita commissione internazionale d’inchiesta ma fu proprio in quei mesi di caos che la situazione precipitò con l’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio, il quale il 12 settembre marciò sulla città alla testa di 2.500 “legionari”, in gran parte veterani smobilitati del Regio Esercito, il tutto con il benevolo non intervento, per non dire l’avallo, di ufficiali come l’Ammiraglio Enrico Millo, il Generale Francesco Grazioli e l’ex Capitano degli Arditi Giovanni Host-Venturi, l’ideatore della legione fiumana. D’Annunzio si insediò in Fiume dando vita alla cosiddetta “Reggenza del Carnaro”, di cui esercitò in tutto e per tutto le funzioni di Capo dello Stato.
Nel corso dei quindici mesi dell’avventura dannunziana fecero per la prima volta la loro comparsa tutta una serie di rituali e gestualità che diverranno in seguito tipiche del regime fascista: l’uso della camicia nera, dei fregi con il teschio e del saluto “romano” a braccio destro alzato, oltre al grido “eja eja alalà”, già usato dal Vate durante le sue imprese nella Grande Guerra e destinato a rintronare per vent’anni le orecchie degli italiani.

In quei mesi Fiume divenne teatro di imponenti adunate durante le quali D’Annunzio dal balcone dialogava letteralmente nei suoi discorsi con la folla sottostante, incendiando i cuori dei presenti domandando loro “A chi Fiume?” e la massa delirante rispondeva “A noi!”. Questo rapporto diretto fra il capo e il popolo sarà tipico dei totalitarismo che sorgeranno negli anni successivi, a cominciare proprio da quello fascista.
Mentre D’annunzio occupava Fiume, il governo presieduto da Nitti aveva ben altre gatte da pelare: ovunque in Italia scoppiavano scioperi e rivolte contadine causati da un’inflazione galoppante e dalla generale penuria di generi alimentari. Nitti fu costretto a passare il testimone a Giolitti il 15 giugno 1920, dopo che le elezioni del novembre 1919 ebbero bocciato la linea del governo, decretando il trionfo dei due grandi partiti di massa, socialista e popolare. Il vecchio statista piemontese varò un esecutivo “di grande coalizione” con l’appoggio dei popolari di don Luigi Sturzo, prefiggendosi l’obbiettivo di affrontare le agitazioni operaie che sfociavano in continui scioperi e occupazioni di fabbriche, che caratterizzeranno il biennio 1919-1920, non a caso passato alla Storia come “biennio rosso”.

Sul fronte diplomatico il governo si adopererà per la risoluzione della questione del confine orientale ancora sul tappeto, stipulando con la Jugoslavia un trattato che fu firmato a Rapallo il 12 novembre 1920. L’accordo fissava definitivamente il confine italo-jugoslavo stabilendo inoltre la creazione dello “Stato libero di Fiume”. A questo punto Giolitti ordinò alla Regia Marina di far sloggiare con le buone o con le cattive D’Annunzio da Fiume, il che avvenne a suon di cannonate tra il 24 e il 29 dicembre del 1920 (episodio ricordato come “Natale di sangue”).
A conti fatti l’Italia aveva ottenuto dalla guerra quasi tutti i territori promessi dal Patto di Londra (Fiume diverrà italiana nel 1924 a seguito del Trattato di Roma). Inoltre, come notò il conte Carlo Sforza, ministro degli esteri, la guerra aveva provocato la disintegrazione del nostro nemico secolare, l’Austria – Ungheria, liberandoci per sempre di quell’ingombrante vicino sul confine orientale e di un serio concorrente per la penetrazione nell’area balcanica. Tuttavia lo sforzo bellico prostrò duramente il Paese acuendo i conflitti sociali come testimoniato dalle agitazioni del biennio rosso. La risposta del padronato industriale e agrario arriverà con il sostegno dato alle squadre fasciste. I Fasci italiani di combattimento, nati a Milano il 23 marzo 1919 su iniziativa di Benito Mussolini, cominceranno allora la loro ascesa con l’elezione, nel maggio 1921, di 35 deputati fascisti appartenenti ai “Blocchi Nazionali” voluti da Giolitti per arrestare l’avanzata dei socialisti. Riunitisi in partito nel novembre 1921, l’anno successivo i fascisti tenteranno il colpaccio marciando su Roma. Fu così che tra le vittime della Grande Guerra l’Italia dovette annoverare, quattro anni dopo, anche la Democrazia.