L’ASCESA DEL SOL LEVANTE E L’INIZIO DEL DECLINO DELLA RUSSIA DEI ROMANOV
Fino alla metà dell’Ottocento la società giapponese presentava ancora dei tratti tipicamente feudali. Al vertice dello stato vi era l’Imperatore (Mikado), il quale però era essenzialmente un capo religioso il cui potere era puramente simbolico. Il governo del paese era infatti nelle mani dello shogun, ossia il supremo capo militare. Da circa due secoli la carica di shogun era divenuta di fatto ereditaria, appannaggio esclusivo della potente famiglia dei Tokugawa. Lo shogun governava lo stato attraverso una fitta rete di rapporti con i grandi feudatari, i daimyo. Al di sotto di loro si trovavano i samurai, ossia i rappresentanti della piccola nobiltà un tempo dedita al mestiere delle armi. La stragrande maggioranza della popolazione era infinecomposta da contadini dediti principalmente alla coltivazione del riso. Costoro a causa dei pesanti tributi a cui erano soggetti versavano in condizioni di estrema povertà.

Il sostanziale immobilismo della società giapponese era dovuto alla politica di rigido isolamento rispetto al mondo esterno perseguita dai governanti nipponici negli ultimi secoli. Lo stato delle cose iniziò a mutare a partire dal 1853, quando gli Stati Uniti inviarono una squadra navale nelle acque giapponesi, chiedendo l’apertura dei porti e l’instaurazione di relazioni commerciali. In seguito Francia, Gran Bretagna e Russia imitarono l’esempio americano e presentarono allo shogun richieste analoghe. Nel 1858 il Giappone fu costretto a firmare una serie di accordi commerciali che spalancarono le porte del Paese alla penetrazione economica occidentale. La firma dei trattati ineguali generò in tutto il Giappone un’ondata di risentimento nazionalistico che innescò una rivolta contro lo shogun guidata dai grandi feudatari e da una parte dei samurai. Nel gennaio del 1868 gli insorti occuparono Kyoto, dichiararono la fine dello shogunato e la restaurazione dell’autorità dell’Imperatore, un ragazzino di appena quindici anni da poco asceso al trono, Mutsuhito, il quale fu in seguito ricordato con l’appellativo di “Meiji Tenno” (sovrano illuminato). A partire dalla cosiddetta “restaurazione Meiji” l’élite dirigente nipponica, perfettamente conscia dell’inferiorità economica e militare del proprio Paese rispetto alle potenze occidentali , avviò una serie di riforme radicali allo scopo di colmare questo divario il più rapidamente possibile senza paura di ricalcare i modelli degli stati europei più avanzati.

A partire dagli Anni Settanta del XIX secolo fu proclamata l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, aboliti i diritti feudali e i feudi trasformati in circoscrizioni amministrative. Fu inoltre introdotto l’obbligo dell’istruzione elementare, fu creato un sistema fiscale moderno e organizzato un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria. In campo economico si procedette massicciamente all’industrializzazione partendo praticamente da zero grazie al massiccio impiego di capitali statali. La modernizzazione fu realizzata senza alcuna partecipazione delle classi inferiori, a differenza di quanto accaduto in Europa e senza che vi fosse un parallelo sviluppo di istituzioni democratiche: solo nel 1889 il Giappone si doterà di un parlamento (eletto a suffragio ristretto) e di una costituzione dai tratti decisamente autoritari. La classe dirigente nipponica gestì l’intero processo di trasformazione spogliandosi volontariamente dei suoi antichi privilegi e trasformandosi da oligarchia feudale ad élite industriale e finanziaria.
Deciso a confrontarsi da pari a pari con le potenze europee, a partire dagli Anni ’90 dell’Ottocento il Giappone iniziò ad affacciarsi prepotentemente sulla scena della competizione imperialistica nel continente asiatico. Alla base di questa politica estera aggressiva vi era la necessità per il governo di Tokyo di assicurarsi il controllo di quelle materie prime (carbone, materiali ferrosi) di cui necessitavano le sue industrie in travolgente espansione ma di cui nello stesso tempo l’arcipelago giapponese era sprovvisto.

Interessato ad acquisire il controllo della Corea, regno vassallo della Cina, nel 1894 il Giappone dichiarò guerra al Celeste Impero sconfiggendo rapidamente i rivali cinesi tanto per terra quanto per mare. Al termine del conflitto, nel 1895, la Cina si vide costretta a rinunciare alla penisola di Liaodong (in Manciuria), a Taiwan e alle Isole Pescadores oltre che alla Corea, che divenne un protettorato giapponese.
I piani giapponesi prevedevano a quel punto una ulteriore espansione verso nord-est, nel cuore della regione cinese della Manciuria. Questi ambiziosi progetti finirono per portare il Giappone in rotta di collisione con la Russia, la quale, dopo avere strappato il porto di Vladivostok alla Cina nel 1860, in quegli anni stava portando a compimento la conquista della Siberia. L’Impero zarista intendeva a quel punto consolidare ulteriormente la sua presenza nella regione attraverso il completamento della ferrovia transiberiana che sarebbe stata prolungata sino all’Oceano Pacifico. Preoccupato dall’espansionismo nipponico, subito dopo la fine della guerra sino-giapponese il governo zarista, appoggiato da Francia e Germania, intimò al Giappone di restituire alla Cina la penisola di Liaodong.

L’impero del Sol Levante si vide costretto a cedere di fronte alle pressioni delle potenze europee ottenendo tuttavia un risarcimento di cinque milioni di sterline che il governo giapponese investì nella costruzione di moderne navi da guerra. Successivamente, nel giugno 1896, la Russia costrinse la Cina a firmare un trattato in base al quale, in cambio della protezione contro il Giappone, il Celeste Impero accordava ai russi la concessione per realizzare una linea ferroviaria in Manciuria, il che avrebbe notevolmente accorciato il tracciato della transiberiana. Poi, nel 1898, l’Impero zarista ottenne dalla Cina una nuova concessione che riguardava la cessione “in affitto” della strategica base di Port Arthur (l’odierna Lüshunkou) situata nella penisola di Liaodong. Pochi anni dopo, nel 1903, dopo essersi assicurato l’appoggio della Gran Bretagna (interessata a contenere l’espansione zarista in Estremo Oriente anche allo scopo di ridurne la pressione in Asia Centrale), il Giappone propose alla Russia un piano per la spartizione comune della Manciuria, che però fu respinto dai russi, i quali sottovalutarono la potenza nipponica.

Il Giappone a quel punto ruppe gli indugi e attaccò improvvisamente la Russia l’8 febbraio 1904. Quel giorno una flotta nipponica si presentò improvvisamente davanti a Port Arthur e aprì il fuoco sulle postazioni zariste senza che alcuna formale dichiarazione di guerra fosse stata presentata. Port Arthur comunque resistette per quasi un anno agli assalti giapponesi, arrendendosi soltanto il 2 gennaio 1905. Mentre era in corso l’assedio a Port Arthur, tra il 30 aprile e il 1° maggio 1904 l’esercito giapponese inflisse a quello zarista una dura batosta nella battaglia del fiume Yalu mentre il 10 agosto la flotta zarista del Pacifico venne distrutta dai giapponesi nella battaglia navale del Mar Giallo.
Le difficoltà delle forze zariste si spiegano in parte con il fatto che, trovandosi a combattere a migliaia di chilometri dalle proprie basi, i russi ebbero enormi difficoltà a far affluire i rifornimenti necessari alle loro truppe. Per dare un’idea delle distanze basti pensare al giro del mondo a cui fu costretta la flotta russa del Baltico, inviata dal comando zarista in estremo oriente nella speranza di risollevare il fin lì pessimo andamento della guerra.
Salpata alla fine di agosto 1904 dalla base di Kronstadt, la flotta baltica (forte di cinquanta navi) giunse a Vladivostok dopo dieci mesi di navigazione. Il sopraggiungere dei rinforzi navali non valse a mutare l’esito del conflitto che si chiuse con altre due durissime sconfitte per le forze russe. Nel marzo 1905 350 mila russi affrontarono a Mukden 315 mila giapponesi. I primi lasciarono sul campo 90 mila uomini contro le 70 mila perdite nipponiche. Il 28 maggio successivo invece la flotta russa del Baltico dovette soccombere di fronte alla marina imperiale giapponese al termine della battaglia combattuta al largo dell’isola di Tsushima, nello Stretto di Corea. I russi persero due corazzate a causa dei siluri nipponici mentre varie altre navi furono affondate dal fuoco dei cannoni nemici. 5 mila marinai russi morirono mentre altri 6 mila vennero catturati. Le perdite giapponesi ammontarono invece a due navi e 700 uomini. Di fronte al duplice disastro subito sia per terra che per mare lo Zar Nicola II si convinse a intavolare trattative di pace.

Dal punto di vista militare la guerra russo-giapponese costituì una sorta di tragica anticipazione di quella che sarebbe stata la prima guerra mondiale. Quello combattuto nel 1904-05 fu un conflitto tra due grandi potenze, dotate di eserciti ben armati e organizzati: quello zarista era uno degli eserciti più potenti d’Europa, mentre quello giapponese era stato addestrato da istruttori militari tedeschi così come la marina nipponica lo era stata da consulenti britannici. Nel corso di quella campagna, seguita con estremo interesse dagli specialisti militari europei e americani, vennero impiegati armi moderne come fucili a ripetizione, artiglieria da campagna a tiro rapido e mitragliatrici. I russi inoltre fortificarono le loro posizioni a Port Arthur e a Mukden con linee di trincee difese da filo spinato e campi minati a detonazione elettrica impiegando riflettori per illuminarli nelle ore notturne. Entrambi gli schieramenti fecero uso di telegrafi e telefoni da campo per le comunicazioni. Le uniche armi di cui i belligeranti del 1905 non poterono disporre e che invece avrebbero avuto nel 1914 furono gli aeroplani che a partire da qualche anno più tardi avrebbero iniziato a sostituire la cavalleria nelle missioni di ricognizione.

Un’altra anticipazione di come sarebbero state le guerre future venne dal fronte della propaganda. I russi chiamavano i giapponesi “piccole scimmie gialle” mentre i giapponesi definivano i russi “barbari subumani”. L’ostilità contro il nemico non era certamente una novità ma questa volta essa fu amplificata dalla propaganda che fece leva sull’odio razziale sino a giungere ad una raffigurazione “bestiale” dell’avversario e alla sua disumanizzazione.
Il trattato che pose fine alle ostilità fra Russia e Giappone fu firmato il 5 settembre 1905 al termine di una conferenza appositamente convocata tra il 6 e il 30 agosto di quell’anno. I negoziati si tennero a Portsmouth, nello stato americano del New Hampshire grazie ai buoni uffici del padrone di casa, il presidente statunitense Theodore Roosevelt, che proprio in virtù della sua attività di mediatore venne insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1906.

Il trattato di Portsmouth assicurò al Giappone il possesso di Port Arthur e della metà meridionale dell’isola di Sachalin, confermando inoltre il protettorato sulla Corea, che sarebbe infine stata annessa all’impero nipponico pochi anni dopo, nel 1910. Sempre in base alle clausole dell’accordo la Manciuria sarebbe stata evacuata dai russi e restituita alla piena sovranità della CIna. Con la vittoria nella guerra russo-giapponese l’Impero del Sol Levante veniva ammesso a pieno titolo nella ristretta cerchia delle grandi potenze, unico fra le nazioni non occidentali.
La sconfitta innescò in Russia un gigantesco sommovimento rivoluzionario, il più ampio e sanguinoso a cui l’Europa avesse assistito dai tempi della Comune parigina, proclamata nel 1871 a seguito della sconfitta francese nella guerra contro la Prussia e del conseguente collasso del regime di Napoleone III. La guerra con il Giappone, che provocò fra l’altro un brusco aumento dei prezzi, non fece che esacerbare il clima di tensione da tempo latente in Russia.
La rivoluzione del 1905, nel corso della quale si verificò il famoso ammutinamento della Corazzata Potëmkin (portato sul grande schermo nel 1925 dal cineasta sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn), ebbe inizio domenica 22 gennaio 1905 nella capitale San Pietroburgo, dove un corteo di di 150 mila persone guidate dal pope ortodosso Georgij Gapon si diresse verso il Palazzo d’Inverno, residenza dello Zar per presentare al sovrano una petizione.

I partecipanti alla manifestazione vennero accolti a fucilate dall’esercito. La repressione della “Domenica di sangue” suscitò indignazione in tutto il Paese provocando agitazioni e proteste in tutto l’impero, acuite dalle notizie riguardanti il pessimo andamento del conflitto in Estremo Oriente.Tra la primavera e l’autunno del 1905 la Russia visse in uno stato di anarchia nella quale in moltissime città si costituirono spontaneamente consigli di lavoratori (soviet) ispirati ai principi socialisti di democrazia diretta già sperimentati nel corso dell’esperienza della Comune di Parigi. La controffensiva governativa si dispiegò con estrema durezza tra novembre e dicembre grazie alle truppe fatte rientrare nel frattempo dal fronte. Nonostante la brutale repressione la rivoluzione del 1905 aveva messo chiaramente in luce tutti i limiti e le debolezze del regime autocratico dei Romanov, che infatti sarebbe stato abbattuto agli inizi del 1917 travolto dal peso delle disfatte subite nel corso della Grande Guerra.
Bibliografia:
- G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi
- Aurelio lepre, Guerra e pace nel XX secolo
- (a cura di) Peter Paret, Guerra e strategia nell’età contemporanea (edizione italiana a cura di Nicola Labanca)