IL “CELESTE IMPERO” CINESE TRA IL XIX E IL XX SECOLO: DALLE GUERRE DELL’OPPIO (1839-1860) ALLA PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA (1912)
Oggi la Cina è ormai definibile a tutti gli effetti come una grande potenza, al punto da apparire in grado di contendere agli Stati Uniti il loro ruolo di egemone globale. Per certi aspetti il Dragone asiatico si sta prendendo la sua rivincita per tutte le umiliazioni subite ad opera dell’Occidente, che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo aveva ridotto il Celeste Impero allo stato di semi colonia.
All’inizio dell’Ottocento il millenario impero cinese era pressoché inaccessibile per i mercanti e i viaggiatori occidentali.

La Cina inoltre non aveva relazioni diplomatiche con l’estero in ossequio al principio secondo cui per i cinesi l’imperatore era la sola fonte di potere sulla Terra e che quindi i governi stranieri potessero avere con il sovrano cinese soltanto rapporti di subordinazione e vassallaggio. Agli stranieri era negato l’ingresso nel Paese con la sola eccezione del porto di Canton, nella Cina meridionale. La chiusura al mondo esterno aveva fatto sì che la società cinese si irrigidisse chiudendosi in sé stessa, perdendo quell’indiscusso primato scientifico e tecnologico di cui l’impero aveva goduto fino al Cinquecento. Tale stato di cose era favorito dall’atteggiamento profondamente conservatore della classe dirigente degli alti funzionari imperiali, i mandarini, i quali ostacolavano qualsiasi mutamento e innovazione. Nella prima metà del XIX secolo la Cina era già allora come oggi il Paese più popoloso del mondo con i suoi 400 milioni di abitanti. Era quindi ovvio che i mercanti europei avrebbero prima o poi cercato di conquistare questo vastissimo mercato.

La penetrazione occidentale ebbe inizio alla fine degli Anni ’30 del XIX secolo, quando gli amministratori della Compagnia delle Indie, che governava il subcontinente indiano per conto della Corona britannica, diedero inizio ad un lucroso traffico di oppio, prodotto nelle piantagioni del Bengala ed esportato clandestinamente in Cina, dove il consumo di questa sostanza stupefacente era largamente diffuso ancorché proibito. La vendita di questa terribile droga, dagli effetti devastanti per l’organismo, se da un lato permise agli inglesi di sistemare i conti della loro dissestata bilancia commerciale, dall’altro ebbe in Cina effetti devastanti, distruggendo la proverbiale laboriosità degli abitanti.
Nel tentativo di arginare il narcotraffico, nel 1839 un funzionario portuale cinese ordinò il sequestro ogni singolo carico di oppio trasportato da tutte le navi straniere ancorate nel porto di Canton. Londra rispose a quella che il governo britannico ritenne una palese violazione della libertà di commercio inviando una flotta in estremo oriente. Dopo due anni di guerra gli inglesi ebbero partita vinta su tutta la linea. La Cina venne quindi costretta a firmare il trattato di Nanchino del 1842 con il quale cedeva alla Gran Bretagna l’isola di Hong Kong, situata di fronte al porto di Canton, garantendo nello stesso tempo l’apertura al commercio straniero di altri quattro porti, tra cui Shanghai.
La “prima guerra dell’oppio” evidenziò la netta inferiorità militare cinese nei confronti dell’occidente, il che non fece che attirare sul Celeste Impero le mire espansionistiche di altre potenze.

La rottura dell’isolamento ad opera degli occidentali ebbe effetti profondamente destabilizzanti per un mondo come quello cinese, che da secoli viveva ripiegato su sé stesso. Fu così che a partire dagli anni Cinquanta l’impero fu attraversato da una profonda crisi economica dovuta alla concorrenza delle merci occidentali che iniziarono a inondare il mercato cinese. Accanto alla formazione di un ceto borghese benestante, formato da commercianti legati a doppio filo agli interessi occidentali, un numero sempre crescente di persone, soprattutto contadini, vide peggiorare ulteriormente il suo già miserevole livello di vita. Nello stesso tempo la figura dell’imperatore perse parte del suo prestigio e della sua autorevolezza a causa delle umiliazioni inflitte dalle potenze occidentali. Fu così che in una Cina allo sbando le tensioni sociali condussero allo scoppio di violente ribellioni in grado di degenerare in vere e proprie guerre civili. La peggiore di queste, che agitò il Paese tra il 1850 e il 1864 provocando milioni di vittime, fu senza dubbio la “Rivolta dei Taiping”, nel corso della quale i rivoltosi proclamarono un loro governo con sede a Nanchino dando vita al “Grande regno della pace celeste” (Taiping tianguo).

Intanto, nel 1856, nel tentativo di recuperare parte del prestigio perduto, il governo imperiale cercò di rialzare la testa attaccando una nave inglese ancorata nel porto di Canton. Il risultato fu lo scoppio della “seconda guerra dell’oppio” (1856-1860) nella quale la Cina dovette nuovamente vedersela con la Gran Bretagna, sostenuta militarmente dalla Francia e diplomaticamente da Russia e Stati Uniti. Come si può facilmente immaginare la Cina andò incontro ad una nuova disfatta, resa ancor più umiliante dall’occupazione di Pechino da parte degli anglo-francesi, che saccheggiarono e incendiarono il sacro e inviolabile palazzo imperiale. A seguito della sconfitta la Cina fu costretta a firmare la Convenzione di Pechino, con la quale il gigante asiatico si impegnava a spalancare le proprie porte al commercio occidentale, a garantire libertà di azione alle missioni cristiane oltre che a instaurare normali rapporti diplomatici con le altre potenze.
Quello di Pechino fu il primo di una serie di “trattati ineguali”, secondo una definizione coniata dai nazionalisti cinesi negli Anni ’20 del XX secolo.

L’aggettivo utilizzato esprime la totale mancanza di reciprocità tra le parti che caratterizzava questi patti: infatti, se da una parte il governo cinese garantiva privilegi commerciali, economici e giuridici ai Paesi occidentali, questi ultimi non ricompensarono la Cina con analoghe concessioni. Tra i privilegi crescenti concessi a Inghilterra, Francia, Russia, Stati Uniti, e successivamente anche a Germania e Giappone, rientravano il diritto per i cittadini stranieri di circolare liberamente in Cina, di acquistarvi proprietà immobiliari, oltre alla totale esenzione dalle imposte. Le potenze straniere ottennero inoltre la cessione di territori “in affitto” e il riconoscimento di “zone di influenza” in territorio cinese.
Alla fine del XIX secolo la Cina, sottoposta da decenni alla crescente pressione commerciale e militare delle potenze straniere, era ormai ridotta allo allo stato di semi colonia. L’aggressione subita nel 1894 ad opera del Giappone, che strappò al Celeste Impero la Corea e Taiwan, provocò per reazione la nascita

di un movimento ultraconservatore e xenofobo che si proponeva di restaurare integralmente le antiche tradizioni imperiali e che traeva linfa dal malcontento generato dall’invadenza degli occidentali, definiti “barbari” dai cinesi. Questo movimento ebbe il suo braccio armato in una società segreta di stampo paramilitare i cui aderenti furono chiamati in occidente “Boxers”, ossia “pugili” (dal nome di un’antica società ginnica denominata “Pugni della giustizia e dell’armonia”). La ribellione, iniziata nel 1899, investì le principali città tra cui Pechino e poté contare fin dall’inizio sul tacito appoggio della dinastia Manciù, e in particolare sul sostegno della reggente al trono, l’imperatrice-vedova Cixi.
Oggetto della furia dei Boxers furono i simboli dell’occupazione occidentale, come ad esempio le sedi delle rappresentanze diplomatiche o anche gli stessi stranieri residenti sul suolo cinese. L’odio xenofobo dei Boxers non era comunque dettato da motivazioni razziali in quanto anche i giapponesi rimasero vittime degli attacchi. Animati inoltre da un profondo odio anti-cristiano, i ribelli si resero protagonisti di numerosi episodi di violenza contro i missionari occidentali e gli stessi cinesi convertiti al cristianesimo e pertanto considerati traditori. La religione cristiana era infatti ritenuta uno strumento di penetrazione all’interno della società cinese da parte di culture estranee. A Pechino, in un clima sempre più teso, tra incidenti e sparatorie, il 20 giugno 1900 l’ambasciatore tedesco, il barone Clemens von Ketteler, venne assassinato mentre si recava sotto scorta al ministero degli esteri.

Il giorno successivo l’imperatrice Cixi dichiarò guerra alle potenze straniere e a partire dal 21 giugno fino al 14 agosto 1900 i Boxers, appoggiati da reparti dell’esercito regolare cinese, assediarono il Quartiere delle Legazioni a sud della Città Proibita, all’interno del quale trovarono rifugio 473 civili stranieri (di cui 149 donne e 79 bambini), 451 soldati di otto Paesi diversi oltre a circa 3 mila cristiani cinesi con le proprie famiglie ed i servitori.
Allo scopo di domare l’insurrezione si costituì l’Alleanza delle Otto Nazioni a cui participarono Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia, Austria-Ungheria, Giappone, Stati Uniti e Italia. Le potenze coalizzate inviarono in Cina un contingente multinazionale forte di 45 mila soldati e 54 navi da guerra. Secondo le parole del messaggio che Guglielmo II di Germania rivolse il 2 luglio 1900 alle sue truppe in partenza per la Cina, i soldati si sarebbero battuti «Per una sola causa, per la civiltà». Tuttavia il Kaiser pronunciò anche un esplicito invito a vendicare il barone Von Ketteler e a infliggere ai cinesi una lezione che non avrebbero dimenticato tanto facilmente, utilizzando parole durissime:
«Quando vi troverete faccia a faccia con il nemico, sappiate batterlo. Nessuna grazia! Nessun prigioniero! Tenete in pugno chi vi capita sotto le mani. Mille anni fa, gli Unni di Attila si sono fatti un nome che con potenza è entrato nella storia e nella leggenda. Allo stesso modo voi dovete imporre in Cina, per mille anni, il nome «tedesco», di modo che mai più in avvenire un cinese osi anche solo guardare di traverso un tedesco.»

L’intervento straniero stroncò la rivolta in capo a due settimane con la conquista di Tientsin e di Pechino, che fu liberata alla metà di agosto 1900. In seguito alla vittoria le truppe straniere si abbandonarono a numerosi atti di violenza contro la popolazione cinese, incendiando edifici e saccheggiando numerose opere d’arte. Lo scrittorie francese Pierre Loti, inviato del quotidiano parigino Le Figaro, descrisse così la smania distruttiva e la furia omicida delle forze occupanti:
«Sono venuti i giapponesi, eroici piccoli soldati di cui non vorrei parlar male, ma che distruggono e uccidono come in altri tempi le orde barbare. Ancora meno vorrei sparlare dei nostri amici russi, ma hanno spedito qui cosacchi provenienti dalla vicina regione tartara, siberiani mezzo mongoli, tutta gente abilissima a sparare, ma che concepisce ancora la battaglia alla maniera asiatica. Poi sono arrivati qui gli spietati cavalieri d’India, delegati dalla Gran Bretagna. L’America ha inviato i suoi mercenari. Non c’era più nulla di intatto quando sono arrivati, nella prima eccitazione della vendetta contro le atrocità cinesi, gli italiani, i tedeschi, gli austriaci, i francesi.»
La ribellione dei Boxer venne quindi sedata ma non rimase senza effetto. Da un lato essa evidenziò la persistenza di un nazionalismo cinese che rendeva impraticabile una ipotetica spartizione politica dell’Impero.

Dall’altro la sconfitta delle correnti tradizionaliste e il discredito della dinastia Manciù che le aveva appoggiate costituirono la premessa indispensabile allo sviluppo di un movimento democratico e occidentalizzante in grado di coniugare nazionalismo e modernizzazione similmente a quanto accaduto in Giappone. Nel 1905 un medico di Canton, Sun Yat-sen, il quale aveva viaggiato a lungo in Europa e negli Stati Uniti, fondò un’associazione segreta denominata “Tung meng hui” (Lega dell’alleanza giurata) con un programma basato sui “tre principi del popolo” riassumibili in “nazionalismo, democrazia, benessere del popolo”. L’organizzazione mirava infatti a ottenere la piena indipendenza della Cina nella grande famiglia delle nazioni, trasformandola in una moderna democrazia rappresentativa basata sul principio della divisione dei poteri e promuovendo un sistema economico che garantisse la equa redistribuzione dei mezzi di sussistenza.

La Lega di Sun Yat-sen fece rapidamente proseliti fra gli intellettuali, gli ufficiali dell’esercito e i primi nuclei operai formatisi in alcune città come Shanghai. Il movimento raccolse inoltre le simpatie di una parte della ancora esigua borghesia commerciale e imprenditoriale. Contemporaneamente la corte imperiale tentò invano di mettere in atto un limitato e tardivo programma di modernizzazione. Nell’ottobre del 1911 la decisione presa dal governo di affidare a imprese straniere la gestione delle ferrovie innescò una serie di sommosse alimentate dall’ammutinamento di una parte dei reparti dell’esercito. Nel gennaio 1912 i rivoluzionari proclamarono la decadenza della dinastia Manciù e la nascita della Repubblica, di cui Sun Yat-sen venne eletto presidente. A febbraio il generale Yuan Shikai si unì ai ribelli costringendo all’abdicazione l’Imperatore Pu Yi, un bimbetto di appena sei anni sul trono dal 1908. In cambio del suo appoggio ai repubblicani Yuan Shikai ottenne la nomina a presidente dopo avere costretto Sun Yat-sen alle dimissioni.
L’Impero cinese crollava dopo quasi tremila anni. La nuova Repubblica tuttavia visse fin da subito un’esistenza quanto mai travagliata. Essa si basava infatti su di un fragile compromesso tra le forze democratiche facenti capo a Sun Yat-sen, riunite nel nuovo “Partito Nazionale del popolo” (il “Kuomintang”), e i conservatori di Yuan Shikai, ostili a qualsiasi riforma. Gli equilibri di potere si infransero dopo pochi mesi e nel 1913 Yuan Shikai mise fuori legge il Kuomintang dando vita ad una dittatura appoggiata dalle potenze straniere che si videro confermati i loro privilegi. Fu soltanto l’inizio di una lunga stagione di guerre civili che avrebbero afflitto la Cina sino alla definitva presa del potere da parte dei comunisti nel 1949.
Bibliografia:
- G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi
- Aurelio Lepre, Guerra e pace nel XX secolo