DAL BOSTON TEA PARTY ALLA NASCITA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA (1773-1783)
Giovedì 16 dicembre 1773 un gruppo di individui, all’apparenza identificabili come indiani Mohawk, irruppe nel porto di Boston, salì a bordo delle navi della East India Company e riversò in mare il tè conservato nella stiva delle imbarcazioni.

Quegli uomini però non erano nativi americani, bensì coloni bianchi affiliati a una società segreta denominata “Sons of Liberty”, ossia “Figli della Libertà”. L’episodio, ricordato in seguito come “Boston Tea Party”, nell’intenzione dei suoi autori voleva essere un segnale della crescente insofferenza dei coloni americani contro l’approvazione da parte del Parlamento inglese di una nuova legge sul tè, il cosiddetto Tea Act, varata per venire incontro alle difficoltà della compagnia delle Indie, che in questo modo si vedeva riconosciuto il sostanziale monopolio del commercio di tè nelle colonie nordamericane, a discapito dei commercianti locali. Il varo del Tea Act era solo l’ultimo di una serie di provvedimenti messi in atto dal governo britannico che da un decennio non avevano fatto altro che far crescere le tensioni fra i coloni e la madrepatria. Fino a quel momento, infatti, la Gran Bretagna aveva portato avanti una politica di sostanziale non intervento negli affari interni delle proprie colonie.

La situazione era tuttavia mutata dopo la fine della Guerra dei Sette Anni (1756-1763), a seguito della quale la Gran Bretagna, dopo avere sconfitto ed espulso le forze francesi dal Nord America, si era trovata a controllare non più un insieme di colonie poste lungo la costa atlantica ma un vero e proprio territorio imperiale esteso dall’Oceano al fiume Mississipi. A quel punto per la Corona britannica, finanziariamente stremata dallo sforzo bellico, assumeva vitale importanza ripartire i costi di gestione del nascente impero con i sudditi delle colonie.
Fu così che nel corso del biennio 1763-1765, il governo whig presieduto da Lord Grenville decise di mutare atteggiamento nei confronti delle colonie con una serie di misure che apparvero subito come inaccettabili agli occhi degli americani. Innanzitutto i territori strappati alla Francia furono divisi in quattro nuove province nelle quali fu vietato ai coloni di fondare nuovi insediamenti mentre per risolvere i problemi di bilancio furono approvate le cosiddette “Leggi Townshend” che prevedevano una serie di dazi di importazione su tutta una serie di merci. Per meglio riscuotere i balzelli dovuti e far rispettare i monopoli commerciali britannici, fu poi incrementata la presenza militare nelle colonie sulle quali gravava interamente il mantenimento dei soldati di Sua Maestà. Le proteste iniziarono a divampare in seguito all’introduzione nel 1765 dello Stamp Act, una legge che introduceva un’imposta di bollo su giornali, manifesti, atti notarili e ogni altro tipo di documento.

Alle proteste seguì la risposta delle autorità: il 1° ottobre 1768 a Boston i soldati di due reggimenti britannici, provocati e aggrediti dalla folla, aprirono il fuoco uccidendo cinque persone. La propaganda anti inglese non mancò di cavalcare questo episodio che divenne noto come il “massacro di Boston”. Nonostante la repressione l’agitazione anti fiscale non si placò ma anzi si diffuse in tutta l’America. Fu lanciato in proposito lo slogan “No taxation without representation” (niente tasse senza rappresentanza) che riscosse subito grande consenso popolare. La ragione di tanta ostilità nei confronti dell’operato del governo della madrepatria da parte dei coloni risiedeva nella tradizione inglese secondo la quale l’introduzione di tasse senza il consenso popolare costituisce un deliberato attacco alle proprietà dei sudditi da parte dei governanti, il massimo esempio di dispotismo. Per gli americani poco importava che le tasse fossero state votate dal Parlamento di Londra in quanto essi non avevano la possibilità di eleggervi propri rappresentanti.

La goccia che fece traboccare il vaso arrivò infine nel 1773 con l’introduzione del già citato “Tea Act” a cui seguì la “rappresaglia” del Boston Tea Party di cui si è parlato in apertura. La reazione del Governo britannico presieduto da Frederick North all’azione dei Sons of Liberty fu durissima: il porto di Boston venne chiuso mentre il consiglio provinciale del Massachusetts fu trasformato in un organismo di nomina regia. Oltre a ciò venivano attributi ampi poteri alle autorità coloniali per fronteggiare la situazione di emergenza.
Come risposta i delegati delle Tredici Colonie si riunirono per la prima volta a Philadelphia nel 1774 intenzionati ad inviare una petizione al sovrano Giorgio III a cui chiedevano l’abrogazione di queste “Intolerable Acts” (leggi intollerabili). Tuttavia Re Giorgio non solo ignorò le richieste pervenutegli ma anzi, giudicando il comportamento dei propri sudditi americani come un’aperta ribellione alla sua autorità, ordinò alle truppe presenti in loco di riportare l’ordine usando la forza!

Si arrivò così nella primavera del 1775 allo scontro aperto: il 19 aprile le milizie del Massachusetts attaccarono le truppe britanniche in quella che viene ricordata come la battaglia di Lexington-Concord. La guerra per l’indipendenza delle Tredici Colonie era cominciata. Inizialmente le bande dei coloni americani, poco addestrate e male armate, ebbero la peggio contro le giubbe rosse inglesi, soldati di mestiere duri ed esperti, come accadde ad esempio alla battaglia di Bunker Hill. Le forze inglesi nel teatro nord americano ammontavano a circa 30 mila soldati regolari appoggiati da circa 55 miliziani americani lealisti oltre a 20 mila mercenari tedeschi. Le forze americane erano invece costituite da volontari, i famosi “minutemen”, uomini che, come dice la parola stessa, erano pronti ad entrare in azione in un minuto.

Certamente costoro non possedevano la disciplina dei soldati inglesi loro avversari ma si trattava ugualmente di uomini duri, abituati alle difficili condizioni della vita di frontiera e pieni di entusiasmo per la causa. Inoltre le carabine da caccia a canna rigata in dotazione ai coloni americani, seppur più lente da ricaricare, si rivelarono molto più efficaci e precise dei fucili ad anima liscia dei soldati inglesi. Ciò che veramente mancava agli americani era un comandante risoluto che sapesse condurli alla vittoria. I coloni individuarono questa guida nella persona di George Washington. Nato nel 1732, Washington era esponente di un’agiata famiglia di proprietari terrieri della Virginia. Il futuro presidente poteva vantare una certa esperienza in campo militare avendo servito come ufficiale nella milizia coloniale durante la guerra dei sette anni fino a raggiungere il grado di colonnello. Una volta tornato a casa aveva ripreso la gestione della piantagione di famiglia a Mount Vernon. Adesso però i suoi compatrioti gli chiedevano di lasciare di nuovo la tranquilla vita di piantatore per tornare a indossare l’uniforme e guidarli alla conquista dell’indipendenza!

A metà del secondo anno di guerra, nel 1776, mentre ancora si combatteva, gli insorti mettevano nero su bianco la loro decisione di staccarsi definitivamente dall’impero britannico: Il 4 luglio a Philadelphia i rappresentanti delle colonie ribelli votavano la Dichiarazione di indipendenza nella quale i rappresentanti delle Tredici Colonie affermavano, appellandosi “al Supremo Giudice del mondo”, che le colonie avevano dunque il “diritto di essere, Stati Liberi e Indipendenti; che sono sciolti da ogni fedeltà alla Corona britannica, e che ogni legame politico fra loro e lo Stato della Gran Bretagna”.
Nello stesso testo si dichiarava come tutti gli uomini fossero stati creati da Dio uguali e dotati di diritti inalienabili quali la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità. A tal proposito è sorprendentemente per noi uomini di oggi notare come l’autore di questa Dichiarazione, Thomas Jefferson, fosse un piantatore proprietario di schiavi afroamericani ai quali, come pure agli indiani, tali diritti “inalienabili” erano clamorosamente negati!
Alcuni mesi dopo la dichiarazione di Philadelphia arrivò finalmente il primo successo militare per le truppe americane: Più che mai deciso a chiudere l’anno con un successo che risollevasse il morale dei suoi uomini, Washington attraversò il fiume Delaware nella notte tra il 24 e il 25 dicembre per poi cogliere di sorpresa i mercenari tedeschi che presidiavano Trenton il 26, sbaragliandoli e prendendone prigionieri diverse centinaia.

Galvanizzati dal successo e di nuovo fiduciosi nella vittoria, i coloni affrontarono ancora le giubbe rosse cogliendo un’altra importante vittoria a Saratoga nell’aprile del 1777. La lotta degli insorti americani intanto attirava le simpatie di varie potenze europee rivali della Gran Bretagna. La Francia in particolare si rese fin da subito disponibile all’invio di aiuti agli americani finché nel febbraio 1778 non strinse con loro una formale alleanza militare che divenne operativa il mese successivo, quando il governo di Luigi XVI dichiarò guerra alla Gran Bretagna. Militari francesi furono allora inviati a combattere a fianco dell’Esercito Continentale americano. Tra costoro si distinse in particolare Gilbert du Mortier, Marchese di La Fayette, che una volta tornato in patria avrà un ruolo importante anche nella prima fase Rivoluzione Francese.

Forte dell’appoggio degli alleati francesi, George Washington poté chiudere in trappola le truppe britanniche a Yorktown (Virginia). Il 19 ottobre 1781 il comandante inglese Lord Charles Cornwallis si arrese con tutti i suoi 8 mila soldati ai 17 mila assedianti franco-americani. La notizia causò un terremoto politico in Gran Bretagna tale da comportare le dimissioni di Frederick North dalla carica di primo ministro. Anche se in teoria la situazione militare era tale da consentire un possibile ribaltamento delle sorti del conflitto il nuovo governo presieduto da Charles Watson-Wentworth valutò che si fosse speso troppo denaro per questa guerra e preferì intavolare trattative di pace.

Il trattato che poneva fine alla guerra fu firmato a Parigi il 3 settembre 1783. La Gran Bretagna riconosceva l’indipendenza della nascente nazione degli Stati Uniti d’America, a cui cedeva inoltre il vastissimo territorio compreso fra la catena degli Appalachi, i Grandi Laghi, il Golfo del Messico e il fiume Mississipi. Una volta concluso il conflitto e ottenuto il riconoscimento dell’indipendenza, per i Padri Fondatori si trattava ora di affrontare tutti i problemi legati alla costruzione del nuovo organismo statale: ai danni provocati dal conflitto si sommavano le difficoltà dovute alla mancanza di un forte potere centrale che frenasse gli interessi particolaristici presenti nelle varie colonie, ciascuna delle quali gelosa delle sue prerogative e della sua autonomia.

La necessità di un governo centrale appariva tanto più necessaria per definire un indirizzo politico coerente e unitario a livello nazionale su problemi che riguardano tutte le colonie come per esempio in materia doganale o per quanto riguardava la politica estera. Si fece quindi strada un movimento d’opinione denominato federalista o nazionalista che proponeva una revisione dei cosiddetti “Articoli di Confederazione”, approvati dal Congresso Continentale nel marzo 1781 a guerra ancora in corso e che di fatto costituivano la costituzione della nazione all’atto della sua nascita.
Una volta affermatasi l’idea di dare al Paese una vera e propria Costituzione scritta che definisse i diritti e i doveri dei cittadini e l’assetto istituzionale dello stato venne convocata un’apposita convenzione che si riunì a Philadelphia a partire dal maggio 1787. Il testo della Costituzione, composto da sette articoli, dopo mesi di aspri dibattiti, fu approvato a settembre dello stesso anno. Esso entrò in vigore il 4 marzo 1789 e seppur integrata e modificata essa è tuttora in vigore negli Stati Uniti. Nel 1791 fu approvato la Dichiarazione dei Diritti (Bill of Rights), diritti da cui però continueranno ancora per decenni ad essere esclusi i nativi americani e gli schiavi afroamericani per i quali la strada verso

il riconoscimento di pari diritti e dignità sarà ancora lunga e difficile.
La soluzione adottata dai membri della convenzione costituzionale fu di tipo repubblicano e federale. Essi diedero vita ad un forte governo centrale la cui sovranità era parallela a quella degli stati membri dell’Unione.
Il disegno costituzione prevedeva un sistema basato sulla separazione dei tre poteri, legislativo, giudiziario ed esecutivo, oltre che su di un sistema di “pesi e contrappesi (check and balances). Il potere legislativo era affidato ad un Congresso bicamerale composto da un Senato e da una Camera dei Rappresentanti. I senatori sarebbero stati due per ciascuno stato e sarebbero stati nominati dai rispettivi governi con un mandato di sei anni mentre i deputati sarebbero stati eletti dal popolo con un mandato biennale. Ciascuno stato avrebbe avuto una quota di rappresentanti alla Camera proporzionale al proprio peso demografico. Detentrice del potere giudiziario erano la Corte Suprema che tra i suoi compiti avrebbe avuto anche quelli di interpretare il testo costituzionale e di dirimere le controversie fra governo centrale e stati federati. Titolare del potere esecutivo era invece il Presidente della Repubblica, eletto dal popolo con metodo indiretto per la durata di quattro anni. Dotato di ampi poteri, tanto da poter essere considerato quasi una sorta di “monarca repubblicano”, il Presidente nominava i segretari (ministri) titolari dei dipartimenti che componevano il Gabinetto di Governo. Altri poteri spettanti al presidente erano la nomina dei giudici della Corte Suprema (d’accordo con il Senato), il comando supremo delle forze armate e la possibilità di bloccare le leggi varate dal Congresso (potere di veto).

Primo Presidente degli Stati Uniti d’America fu George Washington eletto all’unanimità nel 1789 e poi ancora nel 1793 (caso unico nella storia americana). Cessato il secondo mandato nel 1797 Washington rifiutò il terzo sostenendo che la concentrazione di così tanto potere per così lungo tempo nelle mani di un solo uomo fosse un pericolo per la democrazia. Come un moderno Cincinnato, tornò allora nella tenuta di famiglia a Mount Vernon, nella natia Virginia, dove morì due anni dopo, il 14 dicembre 1799. A testimonianza dell’affetto dei suoi compatrioti fu deciso di battezzare con il suo nome la nuova capitale federale fondata il 16 luglio 1790 sulle rive del fiume Potomac.
Bibliografia:
- Storia degli Stati Uniti: La democrazia americana dalla fondazione all’era globale, Mario Borgognone
- L’Età Moderna: Dalla scoperta dell’America alla Restaurazione, Francesco Benigno