“Questa è l’esposizione della ricerca che Erodoto di Alicarnasso condusse affinché gli eventi passati non vengano col tempo dimenticati dagli uomini, né manchi fama alle grandi e meravigliose imprese sia dei Greci che dei Barbari, né s’ignori per quali ragioni essi guerreggiarono gli uni contro gli altri.”
Con queste parole cominciano le Storie, opera redatta da Erodoto di Alicarnasso probabilmente tra il 440 e il 430 a.C., nella quale il padre della Storia narra dell’epico scontro che all’inizio del V secolo a.C. vide contrapposte le poleis greche contro il grande impero persiano, la superpotenza dell’epoca.

La scintilla destinata a incendiare l’intero mondo greco si accese a centinaia di chilometri dalle coste della penisola ellenica, lungo le coste egee dell’attuale Anatolia. Qui nei secoli precedenti, in seguito a ripetute ondate colonizzatrici provenienti dalla Grecia, erano sorte numerose città tra cui Smirne, Alicarnasso e Mileto. L’intera regione, nota con il nome di Ionia, nel 540 a.C. era stata annessa da Ciro il Grande all’impero persiano, che alla vigilia del confronto con le popolazioni greche si estendeva dal deserto libico a ovest alle montagne del Paropamiso (l’attuale Hindu Kush) ad est. Dal 522 a.C. su questo dominio sterminato regnava dispoticamente il Re dei Re Dario (dal persiano “Dārayavauš“, “colui che possiede il bene”, in greco “Darèios“) lontano parente di Ciro e come lui appartenente alla dinastia achemenide.

I persiani ritenevano i greci – da loro chiamati “yaunai” – gente assai strana, litigiosi e ingovernabili. Probabilmente questo giudizio è dovuto alla difficoltà da parte persiana di comprendere il sistema di governo democratico e partecipativo vigente all’interno delle poleis greche, agli antipodi rispetto all’assolutismo monarchico dei persiani, per i quali il sovrano era considerato alla stregua di una divinità.
Ad ogni modo, per evitare possibili sommosse in questa provincia così lontana, i persiani avevano saggiamente deciso di concedere una certa autonomia alle città greche d’Asia, lasciando che fossero governate da personaggi di stirpe ellenica ma, ovviamente, fedeli al Gran Re. È il caso per esempio del tiranno di Mileto Aristagora, primo protagonista di questa storia. Costui, volendo accrescere il proprio prestigio agli occhi del Gran Re Dario, chiese ed ottenne nel 502 a.C. dal satrapo (governatore) della Lidia Artafarne uomini e navi per muovere una spedizione di conquista contro l’isola greca di Naxos, nel mare Egeo. Aristagora però non aveva tenuto conto della resistenza degli isolani che lo respinsero con gravi perdite. A questo punto, intuendo di essersi giocato il posto con quell’azzardo, Aristagora, politico cinico ed opportunista, pensò bene di mettersi alla testa di una rivolta dei greci d’Asia contro i persiani. Per poter resistere alla repressione era però necessario che i greci della madrepatria sostenessero i compatrioti. A tale scopo Aristagora si recò personalmente in Grecia visitando sia Sparta che Atene. A Sparta ottenne il cortese ma deciso rifiuto di re Cleomene mentre gli ateniesi furono più generosi e armarono una flotta di venti navi, a cui si aggiunsero le cinque inviate dalla piccola polis di Eretria.
Nonostante gli iniziali successi dei ribelli, che presero e bruciarono la città di Sardi, ben presto i persiani reagirono e nel 493 a.C. Mileto fu presa e rasa al suolo. Deciso a punire anche coloro i quali avevano sostenuto i rivoltosi, Dario ordinò l’allestimento di una spedizione contro Atene ed Eretria. Fu così che all’inizio della primavera del 490 a.C. partì dalla Cilicia (sud-est dell’attuale Turchia) un’imponente flotta di 600 navi al comando del generale Dati. Alla spedizione era aggregato anche Ippia, figlio del vecchio tiranno ateniese Pisistrato, costretto alla fuga dopo la morte del padre e l’uccisione del fratello Ipparco.
La flotta persiana giunse nell’isola di Eubea, sorprendendo i difensori di Eretria, che venne saccheggiata e rasa al suolo. A questo punto i persiani fecero vela verso sud decisi a colpire Atene, prendendo terra lungo la costa dell’Attica in una località conosciuta allora come “il campo del finocchio selvatico”, e a noi noto come Maratona. Oggi qui sorge una cittadina balneare abbastanza frequentata ma allora quel luogo doveva essere una spiaggia quasi disabitata, fatta eccezione per poche famiglie di pescatori.
Una volta sbarcati gli uomini di Dati tirarono in secca le navi e montarono il campo ma preferirono non addentrarsi nell’interno dell’Attica. Da Atene intanto partirono frettolosamente messaggeri recanti disperate richieste di aiuto a tutte le città, vicine e lontane. Gli ateniesi inviarono a Sparta il loro più forte corridore, Filippide, che in due giorni soltanto, senza mai fermarsi, giunse nella città lacedemone con la disperata richiesta di rinforzi da parte della sua città. Gli spartani però risposero negativamente, spiegando che essendo quello il periodo in cui cadeva la solenne festività in onore della dea Artemide, essi non potevano scendere in guerra prima della fine delle celebrazioni. Solo la piccola città di Platea inviò in aiuto di Atene un contingente di mille uomini.

Ad Atene si riunì il consiglio degli strateghi per decidere il da farsi. Tra i componenti dello stato maggiore vi era l’aristocratico Milziade, l’unico fra di essi che conoscesse un pochino i persiani e il loro modo di combattere. Proprio per questo fu ascoltato da tutti con grande attenzione. Milziade espose dunque il suo piano in modo chiaro e deciso tanto che i colleghi gli conferirono senza esitazione il comando supremo delle truppe. Egli intendeva uscire dalla città e puntare dritto su Maratona, schierandosi davanti ai persiani per impedire loro qualsiasi possibile scorreria all’interno dell’Attica.
Così, in un giorno a noi ignoto di quel settembre del 490 a.C. i due eserciti si trovarono finalmente di fronte, schierati a solamente mezzo miglio di distanza l’uno dall’altro. Entrambe le armate erano espressione di due mondi completamente diversi: quello greco era un esercito di cittadini-soldato, il cui nerbo era costituito dalla fanteria pesante armata di lancia e spada, protetta da elmo, corazza e dal grande scudo rotondo, l’hoplon, da cui il nome “opliti” usato per indicare i fanti. Gli opliti combattevano spalla a spalla, sporgendo le lance contro il nemico, in una formazione che era detta falange. Ogni maschio residente ad Atene che fosse di condizione libera era tenuto a combattere per la città quando fosse stato necessario, dall’età di 18 anni fino ai 60, con l’obbligo di armarsi a proprie spese. A supporto della falange la città schierava anche piccoli contingenti di cavalleria aristocratica e nuclei di arcieri e frombolieri composti dagli abitanti più poveri e dunque non in grado di procurarsi armi e corazze. I persiani erano invece un’armata composta principalmente da arcieri e in generale da combattenti armati alla leggera. Ottimi tiratori, gli arcieri persiani erano dotati di un micidiale arco a doppia curvatura. L’esercito persiano schierava inoltre contingenti di cavalleria estremamente manovrabile, sia leggera che pesante.

A Maratona gli ateniesi, uniti ai platesi loro alleati, erano circa 11 mila in tutto mentre i persiani schieravano un’armata valutabile tra i 25 e i 40 mila guerrieri. Nonostante il forte svantaggio numerico Milziade, che come abbiamo detto conosceva bene il modo di combattere dei persiani, sapeva che costoro, essendo in massima parte armati alla leggera, non avrebbero retto alla carica della fanteria ateniese.
Il comandante ateniese ordinò allora ai suoi di lanciarsi a passo di carica contro le linee nemiche, mentre i persiani tenevano i greci sotto il tiro delle loro micidiali frecce, che piovevano come grandine. Gli opliti si gettarono in avanti, lanciando il grido di guerra per darsi coraggio, in uno sforzo sovrumano di tenere il passo gravati da trentacinque-quaranta chili di corazza e preoccupati di non aprire pericolosi vuoti nella falange. L’urto tra le masse deve essere stato qualcosa di pazzesco: i persiani si videro piombare addosso un uragano di muscoli e bronzo mentre gli opliti, abbandonate le lance ormai inutili a distanza ravvicinata, sfoderarono le spade cominciando un corpo a corpo all’ultimo sangue, resi ancora più feroci dalla volontà di difendere la propria libertà, le famiglie e la città che li aveva visti nascere.

I persiani, colti dal panico, iniziarono allora a rinculare finché la ritirata non divenne una fuga disperata verso le navi. Gli ateniesi inseguirono gli invasori facendo una strage: caddero oltre 7 mila persiani contro i soli 192 morti greci, che oltretutto catturarono anche sette navi nemiche rimaste sulla spiaggia. Consapevole che i nemici avrebbero potuto ancora tentare un attacco contro Atene mentre l’esercito si trovava fuori città, Milziade spedì Filippide ad Atene per annunciare la vittoria e avvertire le riserve rimaste in città di tenere gli occhi ben aperti. Filippide, pur avendo combattuto non si risparmiò e partì come un fulmine percorrendo tutto d’un fiato i 42 km che separavano Maratona da Atene. Lo sforzo gli fu però fatale: lo sfortunato corridore fece appena in tempo a entrare in città e a gridare “Nike! Nike!” (“Vittoria! Vittoria!), che stramazzò morto al suolo.
Maratona ebbe un eco enorme in tutto il mondo ellenico e non solo: una piccola città di appena 70-80 mila abitanti aveva sconfitto l’esercito di un impero abitato da 30-40 milioni di sudditi. Davide aveva sconfitto Golia. Dal canto suo Dario pensò subito alla rivincita ma fu costretto a concentrare le forze per sedare una rivolta in Egitto, finché non morì, nel 486 a.C., lasciando i piani di invasioni al figlio e successore Serse.

Milziade l’anno successivo al brillante successo di Maratona andò incontro a un clamoroso fiasco nella spedizione contro l’isola di Paro. I suoi concittadini, con somma ingratitudine, lo condannarono al pagamento di una multa esorbitante che egli non poté pagare nonostante la sua grande ricchezza. Fu quindi gettato in prigione, dove morì a causa delle conseguenze di una brutta ferita riportata durante la sfortunata spedizione nelle Cicladi.
Tra i soldati ateniesi militava anche il drammaturgo Eschilo, che a Maratona perse il fratello Cinegiro. Eschilo morì a Gela, in Sicilia, nel 456 a.C. e tanto doveva essere il suo orgoglio per avere partecipato a quell’epica battaglia che sulla sua pietra tombale non volle incisa una sola parola a memoria della sua fama in ambito teatrale: l’epitaffio recita semplicemente “Qui giace Eschilo/ figlio di Euforione, ateniese/ morto a Gela, ricca di messi/ il suo valore possono testimoniarlo/ la sacra terra di Maratona/ e il Persiano dalla folta chioma”.
Bibliografia:
- Erodoto di Alicarnasso, Storie
- Valerio Massimo Manfredi, Akropolis – La grande epopea di Atene