L’AVVENTURA COLONIALE ITALIANA DAGLI ESORDI ALLA BATTAGLIA DI ADUA
Adua. Un nome che oggi in Italia risulta essere pressoché sconosciuto, specie tra le generazioni più giovani. Eppure per decenni quel nome ha avuto un sapore amaro, sinonimo di disfatta e di vergogna, sino a costituire una vera e propria ossessione nazionale al punto che quando Mussolini nel 1935 diede il via alle operazioni militari contro l’Etiopia dichiarò esplicitamente che le nostre truppe muovevano contro quelle del Negus per vendicare l’onta subita dalle nostre armi nel lontano 1896. Ma come si era arrivati a quel disastro, costato all’Italia tanti caduti quanti quelli provocati da tutte le guerre del Risorgimento messe assieme?
La nostra avventura coloniale in Africa cominciò circa quindici anni prima di Adua, all’inizio degli anni ’80 del XIX secolo. Fu in quel periodo che l’Italia, unificata da appena una ventina d’anni, povera, agitata da scioperi e repressioni poliziesche si gettò a capofitto nella corsa alla conquista di un “posto al sole” nel Continente Nero, divenuto in quegli anni oggetto di spartizione da parte delle grandi potenze europee. Tuttavia il nostro Paese, a differenza di nazioni più progredite come Francia e Gran Bretagna, non aveva la necessità di trovare nuovi mercati di sbocco per i prodotti dell’industria nazionale (ancora agli esordi) e nemmeno quella collocare capitali da investire, pertanto il governo fu spinto a giocare la carta coloniale essenzialmente per motivi di prestigio internazionale, nel tentativo di fare dell’Italia una grande potenza.

Il primo passo verso la costruzione di un impero coloniale italiano in terra africana fu compiuto nel 1882, anno di scelte decisive per la politica estera italiana. Fu infatti proprio il 20 maggio del 1882 che il nostro Paese firmò il trattato della Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania, un patto destinato a diventare il principale pilastro della nostra politica estera per i successivi trent’anni. Questa scelta era maturata in seguito all’occupazione francese della Tunisia, sulla quale l’Italia vantava ambizioni coloniali essendo presente con forti interessi commerciali e una nutrita colonia di emigranti. La crisi italo-francese, giornalisticamente nota come “Schiaffo di Tunisi” provocò la caduta del Governo Cairoli oltre che un brusco raffreddamento delle relazioni tra Roma e Parigi.
Due mesi prima della stipulazione della Triplice, nel marzo 1882, l’esecutivo guidato da Agostino Depretis stipulava un contratto con la Società di navigazione genovese Rubattino per l’acquisto della Baia di Assab, situata lungo la costa eritrea, procedendo poi all’effettiva occupazione della località attraverso l’invio di un corpo di Carabinieri Reali nel maggio del 1883. La base di Assab sarebbe dovuta restare una “stazione commerciale” ma in seguito divenne per volontà del governo la base per ulteriori espansioni nella regione. Nel dicembre 1884 l’Italia giunse ad un accordo con la Gran Bretagna che gettava le basi per la nostra occupazione del territorio costiero tra Assab e la città di Massaua, poi occupata nel febbraio 1885 da un contingente di ottocento bersaglieri.

Intanto però la politica coloniale dei governi della Sinistra Storica incontrava da subito le prime opposizioni in Parlamento sia da parte della Destra Storica, che ne lamentava i costi eccessivi, sia da parte dell’Estrema Sinistra per motivi ideologici. Divenne celebre lo slogan “Né un uomo, né un soldo” per le imprese coloniali lanciato dal romagnolo Andrea Costa, primo e per qualche anno ancora unico deputato socialista alla Camera. Da parte sua il Governo giustificava la nostra presenza nel Corno d’Africa affermando che la nostra mancata partecipazione alla spartizione dell’Africa avrebbe “pregiudicato le sorti dell’Italia come grande potenza”.

Tuttavia, al netto dei proclami e degli slogan propagandistici, in Italia ben presto ci si rese conto della povertà dell’area occupata, motivo per cui ebbe inizio il tentativo di espansione verso l’interno in direzione del più fertile altopiano etiopico. Questa scelta portò l’Italia a scontrarsi con il più forte, popoloso e vasto fra gli Stati africani, ossia l’Impero d’Etiopia, o Abissinia. Sì trattava di una compagine statuale caratterizzata da una struttura politica ancora di tipo feudale, in cui l’autorità del Negus (l’Imperatore) era limitata e talvolta persino contestata dai signori locali (i Ras), i quali disponevano di propri eserciti.
Assieme alla Liberia l’Etiopia costituiva la sola nazione africana che fosse riuscita a preservare la propria indipendenza di fronte all’assalto delle potenze europee. Tuttavia, a differenza della Liberia, sorta agli inizi del XIX secolo dall’opera colonizzatrice di ex schiavi afroamericani, l’Abissinia vantare una storia secolare. Pilastri dell’unità nazionale erano l’adesione della stragrande maggioranza della popolazione alla Chiesa ortodossa copta locale, fondata nel IV secolo, oltre che la fedeltà alla dinastia regnante, la quale vantava di discendere nientemeno che dall’unione del biblico sovrano d’Israele, Salomone, con la leggendaria regina di Saba.
Inizialmente gli italiani avevano cercato di stabilire buoni rapporti con il sovrano Yohannes IV allo scopo di avviare una penetrazione di tipo commerciale all’interno del suo impero. Tuttavia ben presto gli italiani ruppero le trattative e avanzarono verso l’interno occupando alcuni villaggi di frontiera, provocando la prevedibile reazione del Negus e dei suoi Ras. Il Governo mostrò di non dare troppo peso alle manovre abissine e anzi, rispondendo ad un’interrogazione alla Camera il ministro degli esteri Carlo Nicolis di Robilant dichiarò che non era il caso di preoccuparsi di quei “quattro predoni” che avremmo potuto “avere tra i piedi in Africa”.

Una settimana dopo le dichiarazioni sprezzanti del ministro giunse la notizia del massacro di una colonna italiana nelle vicinanze di una località chiamata Dogali. Il 25 gennaio 1887 Ras Alula, i cui territori confinavano con quelli italiani, attaccò con 10 mila guerrieri il forte italiano di Saati, difeso da appena 700 soldati (di cui 300 ascari, gli indigeni inquadrati nelle nostre truppe) e 2 cannoni, venendo respinto al termine di dieci ore di combattimenti furibondi. Il giorno successivo partì un convoglio di generi alimentari e di munizioni diretto a Saati, scortato da una colonna di 548 militari italiani al comando del tenente Tommaso De Cristoforis. Tuttavia, giunto nelle vicinanze di Dogali, il convoglio fu avvistato dai guerrieri di Alula, che a quel punto invece di attaccare nuovamente il forte si lanciò contro la colonna di rinforzo. Gli italiani, attaccati da circa 7 mila guerrieri, ripiegarono su una collinetta poco distante e resistettero finché, una volta esaurite le munizioni, non vennero definitivamente sopraffatti. Lo stesso De Cristoforis perì trafitto dalle lance abissine. I “quattro predoni” avevano dimostrato di cosa fossero capaci.

La tragedia di Dogali fu accolta in Italia da grandi proteste fomentate in modo particolare da elementi dell’estrema sinistra, da sempre ostili alle iniziative coloniali. Tuttavia prevalse l’esigenza di tutelare il prestigio nazionale motivo per cui il Parlamento accordò al governo i finanziamenti richiesti e approvò l’invio di un nuovo corpo di spedizione in Africa, che consolidasse la nostra presenza sulla fascia costiera.
L’iniziativa in campo coloniale riprese slancio in modo particolare a partire dall’estate del 1887, con l’approdo alla presidenza del consiglio dei ministri del siciliano Francesco Crispi, esponente di punta della Sinistra Storica, che prese il posto del defunto Agostino Depretis. Da sempre ammiratore di Bismarck, Crispi si adoperò per rafforzare i legami che univano il nostro Paese alla Triplice, che comportò un ulteriore peggioramento dei rapporti con la Francia, destinati a sfociare in una vera e propria “guerra doganale” fra i due Paesi. Contemporaneamente, sullo scacchiere africano l’Italia rafforzò il proprio controllo sui possedimenti occupati che nel 1890 organizzati nella Colonia Italiana d’Eritrea mentre venivano gettate le basi per una nostra penetrazione nell’area somala con l’instaurazione del protettorato sul Benadir e sui due sultanati di Obbia e Migiurtina.
A quel punto Crispi si adoperò per tessere un’intricata rete diplomatica on l’obbiettivo di disgregare l’impero etiope dall’interno. Come abbiamo accennato infatti, il Negus era un sovrano feudale che pertanto doveva vedersela con infidi vassalli, tra i quali il più potente di tutti era senz’altro il sovrano della regione dello Scioa, Menelik. Il governo italiano avrebbe potuto a quel punto attuare una cauta politica basata sul principio del dividi et impera, soffiando sul fuoco delle rivalità tra i ras abissini, tutti più o meno ribelli al potere centrale, per erodere il territorio etiopico, secondo quanto suggerito dal generale Antonio Baldissera, comandante delle nostre forze in Eritrea.

Fu tuttavia preferita la strategia elaborata dal nostro ambasciatore presso Menelik, il conte romano Pietro Antonelli. Questi proponeva di appoggiare la candidatura al trono di Menelik, il quale si sarebbe senza dubbio mostrato disposto per gratitudine ad accettare il nostro protettorato.
Menelik ascese effettivamente al trono nel 1889 dopo la morte di Yohannes alla battaglia di Metemma, il 9 marzo di quell’anno. Il Negus era sceso in guerra per contrastare l’aggressione dei dervisci sudanesi guidati dal Khalifa Abd Allah al-Ta’aysh, seguace di di Muhammad Ahmad, un religioso musulmano estremista che si era proclamato Mahdi (figura messianica islamica) instaurando nel vicino Sudan uno stato basato su una rigida interpretazione della Sharia, la Legge coranica. Menelik riuscì ad avere la meglio sul figlio naturale di Yohannes, Ras Mangascià, occupandone il trono. Gli avvenimenti successivi parvero dare ragione ad Antonelli, il quale fu accolto con tutti gli onori alla corte del nuovo imperatore, che nel maggio del 1889 stipulò con l’Italia il controverso Trattato di Uccialli, attraverso il quale Menelik riconosceva le conquiste italiane in Eritrea. A suggello dell’accordo una delegazione abissina giunse a Roma guidata dal cugino del Negus, Ras Makonnen. Al termine degli incontri con Crispi e Re Umberto I, Makonnen ottenne dall’Italia la concessione di un prestito di quattro milioni di lire.

Il testo del Trattato di Uccialli era stato redatto in due lingue, italiano e amarico (la lingua parlata in Etiopia) ma le due versioni non coincidevano. Il pomo della discordia era costituito in modo particolare dall’articolo 17. La versione italiana infatti recitava “Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o governi”, il che significava che l’Etiopia accettava di delegare al nostro Paese la propria politica estera, riconoscendo il così protettorato italiano. Tuttavia il testo in amarico a sua volta recitava “Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con altre potenze o governi mediante l’aiuto del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia” suggerendo quindi che Menelik avesse la facoltà, ma non l’obbligo, di servirsi della mediazione italiana nei suoi rapporti con terze potenze.
Nè Antonelli né il ministero degli esteri si preoccuparono di effettuare un rigoroso raffronto dei due testi. Le grandi potenze, informate della firma del trattato di Uccialli riconobbero, con la considerevole eccezione della Russia, la versione italiana. Tuttavia le discrepanze riguardanti l’interpretazione da dare all’articolo 17 si palesarono ben presto nell’agosto del 1890, quando il negus allacciò relazioni diplomatiche con l’Impero russo e con la Francia in maniera autonoma e senza darne preavviso al governo italiano, suscitando la furiosa reazione di Crispi.

Apparve evidente come Menelik non intendesse sentir parlare in alcun modo di protettorato. Questo significava per l’Italia la fine delle sue ambizioni di potenza coloniale, a meno che essa non avesse cercato di imporre al Negus la propria volontà usando la forza.
Di fronte al montare delle tensioni tra l’Italia e il suo Paese, Menelik scelse di investire il prestito ottenuto da Roma nell’acquisto di forniture militari che gli vennero assicurate principalmente dalla Francia (con la quale i nostri rapporti erano pessimi a causa della politica crispina) e dalla Russia, unica tra le potenze europee a parteggiare apertamente per l’Etiopia. Non mancarono tuttavia alcuni armaioli italiani senza scrupoli che non esitarono a vendere a Menelik alcune migliaia di moderni fucili Carcano Mod. 91, assieme alla fornitura di quattro milioni di cartucce, che si rivelarono di importanza cruciale per l’Etiopia in quanto il Paese non disponeva di fabbriche d’armi o di polvere da sparo.
L’Italia dal canto suo avrebbe potuto cercare di dividere dall’Imperatore i Ras più influenti, primo fra tutti Mangascià, il quale in qualità di signore della regione del Tigrè era il nostro immediato dirimpettaio. Tuttavia quest’ultimo, preoccupato dalla continua avanzata delle nostre truppe, che avevano occupato i centri di Axum, Adigrat, Macallè e Adua, finì per allontanarsi dall’Italia per fare nuovamente causa comune con Menelik, il quale, radunato un imponente esercito di circa 100 mila uomini (di cui a quel punto la metà dotati di armi da fuoco), nel dicembre del 1895 passò all’offensiva circondando e massacrando il presidio italiano sull’Amba Alagi, difeso da appena 2.500 soldati (in gran parte ascari) al comando del maggiore Pietro Toselli.

Successivamente le forze abissine strinsero d’assedio il forte di Enda Jesus a Macallè, nel quale si trovavano .1350 militari italiani agli ordini del maggiore Giuseppe Galliano, che il 22 gennaio 1896, ormai privo di riserve idriche, si arrese a Ras Makonnen, il quale cavallerescamente concesse agli italiani di ripiegare sani e salvi. A quel punto Menelik scrisse una lettera a Re Umberto manifestandogli il proprio desiderio di pace ma le condizioni poste dal Negus, che chiedeva l’annullamento del Trattato di Uccialli, furono respinte. Anzi, sollecitato in tal senso dallo stesso Crispi, il comandante delle forze coloniali italiane Oreste Baratieri avanzò contro le linee abissine, scontrandosi con il nemico nella zona di Adua il 1° marzo 1896. La battaglia si rivelò un autentico disastro. In schiacciante inferiorità numerica e peggio ancora divisi in tre colonne, i circa 18 mila soldati italiani mossero comandati da ufficiali che avevano in possesso mappe approssimative del terreno che fecero perdere loro la strada. Al termine di quella sanguinosa giornata rimasero sul campo circa 7 mila morti mentre i superstiti erano in fuga verso l’Eritrea, tallonati da vicino dalla cavalleria etiopica.

Particolarmente dura fu la condizione dei prigionieri, che sarebbero stati “ricomprati” a peso d’oro da Re Umberto per l’astronomica somma di 4 milioni di lire, sborsata dal Governo per la loro liberazione. Ma la sorte peggiore toccò agli ascari originari della regione etiopica del Tigrè, mutilati della mano destra e del piede sinistro, si dice per ordine dell’imperatrice Taitù, consorte di Menelik. Essi vennero infatti considerati traditori per aver combattuto a fianco degli italiani. Quando la notizia del disastro arrivò in patria scoppiò il finimondo: furono organizzate manifestazioni di protesta contro la politica coloniale al grido di”Via dall’Africa!” e “Viva Menelik!”. Per Crispi Adua rappresentò il capolinea della carriera politica. Più in generale un’intera classe politica venne spazzata via dalla disfatta africana, quella stessa classe politica che aveva costruito l’Italia unita. Dopo Crispi infatti approdò al governo Giovanni Giolitti, il primo Presidente del Consiglio che non vantasse la partecipazione a battaglie risorgimentali. A livello internazionale le altre potenze europee ebbero conferma delle loro già pessime impressioni circa le qualità militari dell’Italia, incapace di imporsi su un Paese africano, allora giudicato naturalmente inferiore ad una potenza bianca. In conseguenza della sconfitta l’Italia dovette firmare un nuovo trattato con l’Etiopia ad Addis Abeba, con il quale riconosceva la piena indipendenza dell’impero negussita e rinunciando definitivamente a qualunque ipotesi di protettorato su di esso.
Per il nostro giovane Paese Adua fu a tutti gli effetti un vero trauma: la battaglia entrò nei libri di scuola come un’onta che il popolo italiano era chiamato a vendicare. Non a caso questo mito, come si è detto in apertura, fu cavalcato dalla propaganda fascista che presentò la campagna militare in Etiopia anche come una riscossa per Adua, quarant’anni dopo.
Bibliografia:
- G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi
- G. Mammarella & P. Cacace, La politica estera dell’Italia – Dallo Stato unitario ai giorni nostri
- I. Montanelli, L’Italia dei notabili 1861-1900
Un pensiero riguardo “Mal d’Africa”