Vespro fatale!

Quando nella prima metà dell’Ottocento cominciò a emergere in Italia l’idea che il nostro Paese dovesse essere libero e indipendente dalla dominazione straniera, i patrioti rilessero vari avvenimenti avvenuti nel passato interpretandoli come episodi di riscatto nazionale. Naturalmente come tutte le visioni propagandistiche anche questa presenta numerose incoerenze e grossolani errori.

La bandiera con la Trinacria, usata durante la ribellione del vespro. Attualmente è il vessillo ufficiale della Regione Siciliana.

Uno degli episodi a cui facciamo riferimento è senz’altro quello della ribellione chiamata “guerra del vespro” o “Vespri Siciliani” del 1282. Si trattò senz’altro di un momento di riscossa popolare dopo anni di soprusi e malgoverno ma la cause scatenanti furono soprattutto l’eccessivo carico fiscale e la repressione del governo angioino francese.  Questo perché in quel momento la Sicilia si trovava sotto il dominio di un re d’Oltralpe, Carlo d’Angiò. Ma come ci era arrivato un principe francese sul trono del più grande stato italiano?

Per capirlo occorre tornare indietro nel tempo a circa trent’anni prima dei fatali Vespri, nel 1250, anno della morte del grande Federico II di Svevia. Quest’ultimo per tutta la vita aveva dovuto confrontarsi con una Chiesa a lui ostile al punto che nel 1239 Papa Gregorio IX lo scomunicò definendolo addirittura come l’Anticristo.

Federico II di Hohenstaufen (1196-1250) Imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia.

Il dissidio tra Federico e la Chiesa risaliva ai tempi della sua giovinezza. Rimasto orfano in tenera età di entrambi i genitori, l’Imperatore Enrico VI e la regina Costanza d’Altavilla, il principino era passato sotto la tutela di Papa Innocenzo III, il quale ne appoggiò la candidatura al trono imperiale contro Ottone IV di Brunswick a patto che l’Hohenstaufen rinunciasse a riunire la corona siciliana, della quale era erede per parte di madre, con quella imperiale. Morto Innocenzo nel 1216 però, l’ormai ventenne Federico II, un ragazzo dalla viva e brillante intelligenza, si svincolò dalla tutela pontificia per intraprendere una politica autonoma.

La fragile intesa col Papato si ruppe nel 1227 dopo l’ennesimo rinvio di Federico a intraprendere la crociata promessa. Gregorio IX lo scomunicò una prima volta ma questo non impedì all’Imperatore di entrare a Gerusalemme dopo essersi accordato con il sultano Al-Malik Al-Kamil e di cingere la corona dei Re crociati nella chiesa del Santo Sepolcro.

La Chiesa di Roma fu ugualmente ostile all’Imperatore quando questi, già padrone del Regno di Sicilia, tentò anche di imporre la propria autorità ai comuni italiani del centro-nord così come aveva cercato di fare suo nonno, Federico Barbarossa. Inizialmente vittorioso, l’Imperatore, fu colpito dalla terza scomunica mentre contro di lui Innocenzo IV bandì una vera e propria crociata nel 1245. Sconfitto definitivamente all’assedio di Parma (1247-48) Federico morì due anni dopo a soli cinquantaquattro anni.

Villani Benevento.jpg
La battaglia di Benevento, miniatura della Nuova Cronica di Giovanni Villani.

Per impedire il riproporsi di un una situazione analoga a quella appena verificatasi con Federico, la Chiesa decise di farla finita una volta per tutte con gli Hohenstaufen e di assicurarsi che il trono del regno siculo andasse a un re amico. Per questo il Papa, Urbano IV, francese, dichiarò decaduto dal suo status regale Manfredi, figlio naturale di Federico, offrendo la corona a Carlo, fratello del re di Francia Luigi IX il Santo. Carlo nel 1266 era risultato vittorioso alla battaglia di Benevento nel corso della quale Manfredi rimase sul campo. Clemente IV, successore di Urbano e francese anche lui, a quel punto incoronò Carlo Re di Sicilia. Il primo atto del nuovo sovrano fu tutt’altro che cavalleresco: si trattò della decapitazione del nipote sedicenne di Manfredi, Corradino di Svevia, ultimo erede degli Hohenstaufen, che, dopo essere stato catturato a Tagliacozzo in Abruzzo fu giustiziato sulla pubblica piazza a Napoli il 29 ottobre 1268.

Clemente IV incorona re Carlo, affresco nella Tour Ferrande.

Liquidato anche l’ultimo rampollo della dinastia sveva e rafforzata in questo modo la propria posizione sul trono, Carlo si trovò ad avere ai suoi piedi il più esteso degli stati italiani, vasto metà della Penisola. Il nuovo Re poteva inoltre contare sul pieno appoggio della Chiesa guidata in quel momento guidata come detto da un pontefice francese, Clemente IV.  Il sovrano angioino fin da subito non si fece scrupolo a caricare i suoi nuovi sudditi di tasse. Carlo d’Angiò infatti aveva un disperato bisogno di denaro, necessario tanto per mantenere un esercito numeroso e bene armato che gli consentisse di realizzare i grandi progetti di conquista in Grecia e in Nord Africa che aveva in mente quanto soprattutto per rimborsare i banchieri toscani con i quali si era indebitato fino al collo per finanziare la spedizione di conquista del trono di Napoli. Già perché Carlo spostò anche la capitale da Palermo a Napoli scontentando così ulteriormente non solo il popolo ma anche, e soprattutto la nobiltà siciliana, che si trovò così privata dei benefici derivanti dalla presenza della corte reale. In effetti la Sicilia a seguito del trasferimento voluto da Carlo si trovò declassata da centro a periferia. Perciò, anche se poteva contare sul rinnovato appoggiò della Chiesa con l’elezione, nel 1276, di un suo sostenitore, il francese Martino IV, la posizione di Carlo si faceva sempre più fragile.

La scintilla che fece scoppiare l’insurrezione si racconta avvenne il 30 marzo 1282 a Palermo mentre i fedeli si recavano in processione alla chiesa del Santo Spirito, all’ora del vespro, cioè delle preghiere serali (dettaglio questo aggiunto solo un paio di secoli dopo, nel ‘400). Un gruppo di soldati francesi iniziò a molestare le donne presenti e uno in particolare, un certo Drouet (ma questo nome compare in una cronaca solo nel ‘600) prendendo a pretesto un editto che proibiva ai siciliani di portare armi, decise di perquisire una donna in un modo che al marito di lei non piacque affatto. In breve costui prese la spada al francese e lo stese morto. La folla esplose e al grido “Moranu li franchiski” (cioè “muoiano i francesi” in siciliano), massacrò gli occupanti transalpini a centinaia.

Lo scoppio della ribellione del vespro in un quadro ottocentesco di Francesco Hayez.

L’insurrezione non restò confinata a Palermo ma si estese a macchia d’olio in tutta la Sicilia. Solo la cittadina di Sperlinga, in provincia di Enna, non si sollevò e in essa trovarono asilo tutti i francesi scampati a quello che fu un vero e proprio macello. Si racconta che per scoprire chi fosse francese gli insorti facevano pronunciare a tutti i sospetti la parola “ciciri”, ceci in siciliano, pressoché impronunciabile per un francese. Si formò allora la communitas Siciliae, una lega di città pervase da un rinnovato fervore di vita comunale. La communitas richiese l’intervento del Re d’Aragona Pietro III, la cui moglie, Costanza, era figlia del defunto Manfredi. L’aver fatto cadere su Pietro III la scelta quale nuovo re di Sicilia significava per gli isolani la volontà di ritornare, in certo qual modo, alla dinastia sveva, incarnata da Costanza. La flotta di re Pietro, comandata dall’ammiraglio Ruggero di Lauria sbarcò il 30 agosto 1282 a Trapani. Intanto Papa Martino si schierava con il re Carlo e scomunicava Pietro III oltre che i ribelli, apostrofati dal Pontefice con l’epiteto di “perfidi giudei”.

Pietro III d’Aragona sbarca a Trapani, manoscritto della Biblioteca Vaticana.

Si giunse quindi a una vera e propria guerra tra angioini e aragonesi ognuno con i rispettivi sostenitori nell’isola e che era destinata a durare vent’anni. La fine del conflitto arrivò infatti solo nel 1302 con la pace di Caltabellotta (in provincia di Agrigento). Intanto erano calati nella tomba sia Carlo che Pietro, morti entrambi nel 1285. L’accordo di pace segnava la divisione del Meridione in due regni, Sicilia e Trinacria.

Il regno di Sicilia (che in realtà comprendeva solo il Meridione peninsulare) restava in mano agli Angiò con Carlo II lo Zoppo figlio di Carlo I. Il regno di Trinacria, comprendente l’isola di Sicilia era invece assegnato a Federico, figlio di Pietro e Costanza oltre che fratello minore del Re d’Aragona Giacomo II. In base agli accordi, alla sua morte Federico avrebbe dovuto lasciare nuovamente la Sicilia agli Angiò.

Uno scontro tra truppe angioine e aragonesi.

Questo però non avvenne mai segnando la definita separazione delle due corone di Sicilia e Napoli e sanzionando la fine dell’unità del regno creato dai Normanni oltre che il definitivo tramonto del sogno angioino di dar vita ad un impero nel Mediterraneo.

La riunificazione delle due corone sarebbe avvenuta nuovamente soltanto con la proclamazione del Regno delle due Sicilie da parte di Ferdinando di Borbone nel 1816. Ne derivò quindi una duratura rottura istituzionale nel sud Italia. Per i siciliani, comunque, il cambio di regime significò il passaggio sotto una monarchia moderna, aperta ai ceti mercantili.

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L’Italia meridionale in seguito alla pace di Caltabellotta (1302).

Inglobando la ricca Sicilia e allargando i propri possedimenti nel mediterraneo occidentale la monarchia aragonese iniziò infatti a competere seriamente con la potenza genovese, che nello stesso periodo era uscita vittoriosa dal lungo confronto con Pisa, sconfitta nella battaglia della Meloria del 1284.

Per i patrioti italiani invece, la rivolta del vespro insieme al carroccio dei comuni lombardi, fu un (falso) sussulto di patriottismo ben rappresentato nel 1855 da Giuseppe Verdi (già autore de “La battaglia di Legnano”) con l’opera “I Vespri Siciliani” e da Mameli che nel Canto degli Italiani declamava “Dall’Alpi a Sicilia, Ovunque è Legnano” aggiungendo alla fine della strofa “Il suon d’ogni squilla i Vespri suonò!”.

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