LA GENESI DELLA CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE A FIRENZE
“Structura si grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani” Leon Battista Alberti, De Pictura, a proposito della Cupola del Brunelleschi
Nell’anno che stiamo vivendo non si ricorda e celebra solo la vita di uomini importanti, ma si rivolge anche alla storia di edifici e opere significative, la cui realizzazione ha portato agli allori anche chi li ha progettati e compiuti. Il 2020 da questo punto di vista è estremamente ricco, specie per quanto riguarda l’architettura.

Tra questi ve ne è uno molto interessante, sia per coloro che la realizzarono, per le innovazioni che la sua costruzione portò, sia perché esso è diventato oggi il luogo simbolico per la città e per la regione in cui sorge, oltre che uno degli edifici iconici dell’epoca nella quale nacque. Tale edificio, la cui prima pietra venne posta nel 1420, compie quindi 600 anni ed è la cupola della cattedrale di Santa Maria del Fiore, opera di Filippo Brunelleschi.
La cupola rappresenta la grandiosa conclusione del progetto di riedificazione del duomo cittadino, iniziato alla fine del ‘200. Tale impresa nacque dall’originaria chiesa romanica di Santa Reparata, patrona della città, che sorgeva nella parte occidentale dell’odierna cattedrale, di fronte al battistero. L’idea della sua ricostruzione grandiosa in forme gotiche si legava a motivazioni differenti. Da una parte la necessità di ampliare la chiesa per l’aumento sia della popolazione sia della ricchezza cittadina, dall’altra la volontà di inserirla nel rinnovamento di Firenze, che avrebbe reso lustro ad essa ma soprattutto ai suoi abitanti. Tali progetti infatti, al pari di quelli compiuti nello stesso periodo a Siena, e successivamente a Milano e Como, vedono la cattedrale non solo come sede del vescovo, ma soprattutto come edificio identitario della comunità, cara al pari dei luoghi della politica, e verso i quali il Comune e tutte le sue componenti organizzano una fitta rete di sovvenzionamento, superando spesso la stessa curia vescovile e i principi.
Per realizzare i progetti di ricostruzione del duomo, verso la fine del XIII secolo il Comune di Firenze si affida a uno degli architetti più importanti attivi in città, Arnolfo di Cambio, già allievo di Nicola Pisano oltre che apprezzato scultore che aveva già dato prova del suo talento a Siena e a Roma. Arnolfo progetta una chiesa a croce latina, con tre navate coperte a crociera. A questo primo nucleo segue l’area presbiteriale, che viene sviluppata però in modo originale. Viene infatti dato grande risalto al grande spazio centrale ottagonale, da cui partono sia i bracci poligonali del transetto sia il presbiterio vero e proprio. Tali bracci vengono però resi delle medesime dimensioni e nei quali vengono aperte cinque cappelle ciascuna. La parte inferiore di ogni braccio, più ampia, è collegata a quella superiore da archi rampanti e il tutto è coperto da una semicalotta. Ai lati dei bracci sono poi collocati altri spazi, in particolare quelli destinati a sacrestia. Alla base di questo progetto di Arnolfo vi era forse la volontà di creare un edificio che unisse ad una pianta longitudinale un corpo a pianta centrale, creandovi così una tribuna, riprendendo modelli derivati dagli studi sull’architettura classica che la generazione dell’architetto stava allora compiendo.

La costruzione ebbe quindi inizio nel 1296, proseguendo in una prima fase fino al 1310, anno della probabile scomparsa dell’architetto. Dopo un periodo di rallentamento, il cantiere riprese sotto la direzione prima di Giotto (1334-1337), il quale proseguì la costruzione del Campanile che ancora oggi porta il suo nome, poi di Andrea Pisano (1337-1349) e di Francesco Talenti (1349-1366). Nella seconda metà del secolo furono poi completate le volte della navata centrale e di quelle laterali. Con l’arrivo del nuovo secolo si procedette alla copertura dei bracci del presbiterio mentre parallelamente ebbero inizio i primi lavori della cupola. Nonostante gli avvicendamenti nella direzione dei lavori, il progetto rimase fedele nella sostanza a quello originario tracciato da Arnolfo di Cambio. Santa Maria del Fiore infatti appare come una cattedrale gotica, ma organizzata secondo i modelli del gotico italiano. Non vi è infatti un grande sviluppo in altezza, rafforzato dall’effetto visivo che nel complesso fiorentino ha la cornice aggettante sulla navata centrale.
A questa si aggiunge un’attenzione alla classicità, sia materialmente sia concettuale. In particolare i grandi pilastri cruciformi tra le navate sono realizzati con fronti lisci, che proseguono come lesene al livello superiore, su cui troneggiano capitelli di ispirazione corinzia. La costruzione spaziale dell’ambiente inoltre ragiona su una logica di volumi geometrici, che rendono l’edificio caratterizzato da un armonico ritmo. Tali elementi, radicatisi in ambito fiorentino, saranno ripresi proprio da Brunelleschi, con una nuova concezione umanistica e più scientifica. Per quanto riguarda le modifiche al progetto iniziale, Francesco Talenti intervenne per ampliare in modo grandioso la crociera, aumentando tutte le proporzioni esistenti al suo interno provvedendo inoltre a coprire l’intera struttura con marmi policromi. Vennero usati marmi di colori diversi, riprendendo la tradizione del romanico locale, come nel Battistero o in San Miniato, che conferirono all’edificio la sua tradizionale tricromia, rimasta al cantiere fino alla costruzione della facciata nell’Ottocento. In particolare furono adoperati il marmo bianco di Carrara, quello verde di Prato e quello rosa di Siena.
Ma la caratteristica più spettacolare della cattedrale è sicuramente la cupola realizzata dal Brunelleschi a copertura del grande spazio vuoto situato tra i bracci della chiesa. Mentre ancora oggi gli studiosi si interrogano sulla possibilità che la cupola fosse o meno prevista nel progetto originale, già nel XIV secolo la soluzione riguardante la chiusura dell’enorme spazio ottagonale fu oggetto di un vivace dibattito. Tale problematica, presente già nel programma di Arnolfo, si complicò ulteriormente con l’allargamento delle dimensioni dell’edificio, sino al punto che la superficie da coprire aveva una diagonale di 45 m.

Il progetto di base, sia per la sua conformazione, sia per l’idea di puntellare il vano centrale con le semicupole absidali sembra confermare tale idea. A sostegno di ciò vi è poi un affresco molto importante, realizzato tra il 1365 e il 1367 da Andrea di Bonaiuto e inserito nel ciclo del Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella. Questo ambiente, nato come sala capitolare dei domenicani e così denominato poiché diventato oratorio del seguito ispanico della duchessa di Firenze, racchiude infatti un grande ciclo esaltatorio dell’Ordine. Tra le scene ve n’è una dedicata alla Chiesa militante e trionfante. In essa viene rappresentata da una parte l’azione militante dell’ordine di San Domenico nella predicazione e, sulla sinistra, l’esaltazione della Chiesa e dell’ordine garantito da essa nel mondo, cui partecipano anche i principi laici, come l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo. Alle loro spalle, a materializzare la Chiesa come istituzione, l’artista immagina una vera e propria cattedrale gotica, nelle cui forme si riconosce Santa Maria Del Fiore. Oltre ad un maggior decoro tardogotico, la chiesa riporta già a queste date la cupola, realizzata però senza il tamburo di base e forse con linee emisferiche. Un esempio questo che denota quindi la sua presenza progettuale ma che mostra anche le difficoltà realizzative della stessa, che nella realtà non potevano essere compiute con i caratteri proposti.

I problemi proposti dal cantiere della cupola furono diversi e si cercò di ovviarvi attraverso un concorso, vinto nel 1418 da Filippo Brunelleschi in collaborazione con Lorenzo Ghiberti. Un primo problema era la grandezza del vano della crociera. Legato ad esso vi era poi un problema con le dimensioni del cantiere, che avrebbe richiesto ponteggi e impalcature particolarmente alti, specie dopo la costruzione del tamburo, che portava l’edificio ad un’altezza di 57 m. Su di essi inoltre sarebbero dovute sorgere gigantesche centine, strutture in legno necessarie come ossatura costruttiva della cupola che, se anche fosse stato possibile realizzarle, avrebbero richiesto una quantità imponente di legname. Connesso a ciò fu richiesto quindi sia la riduzione al massimo dei costi dell’opera sia la costruzione di un edificio autoportante, che permettesse di limitare le strutture di cantiere e soprattutto preservasse il grande spazio previsto senza necessità di ulteriori strutture interne.
Filippo Brunelleschi riuscì a dimostrare proprio nel concorso del 1418 la fattibilità di queste richieste, nonostante la forte opposizione di molti architetti legati alla Fabbriceria. Il cantiere, avviato il 1° agosto 1420, a partire dal 1423 passò interamente sotto la sola supervisione del Brunelleschi, dopo i dissidi avuti con Ghiberti. La nuova impostazione di Filippo è segno del cambiamento dei tempi, che unisce alle capacità di lavoro da capocantiere, di origine medievale e gotica, un grande interesse per gli studi matematici e geometrici, necessari per i calcoli sia di statica della costruzione sia di armonia spaziale della struttura. L’architetto dimostrò la fattibilità sia attraverso un modello realizzato in scale sia con la copertura di una cappella presso la chiesa di San Jacopo Sopr’Arno.

L’idea costruttiva di Brunelleschi partiva innanzitutto dalla necessità di una cupola a volta ogivale, costruita su otto vele. Tale scelta fu dettata dall’impossibilità statica di una cupola emisferica, simile cioè a quella del Pantheon di Roma. Per la sua costruzione Filippo utilizzò, anche se non in modo preciso e senza che essa fosse stata ancora teorizzata, una forma particolare, ossia quella basata sull’arco catenario, ovvero creato da una catena lasciata cadere tenendone gli estremi. Ciò rende la struttura capace di redistribuire i carichi.
A ciò fece seguito la costruzione di una cupola a doppia calotta. Essa infatti si organizza in due strutture diverse,con un’intercapedine percorribile al proprio interno. Le due calotte non sono però indipendenti, ma collegate da grandi costoloni che scaricano il peso dell’edificio sulla parte più bassa. Otto di essi, di marmo, sono visibili anche all’esterno, creando un effetto cromaticamente gradevole con le coperture a tegole delle vele. Gli altri, due per ogni vela, vanno a costruire una vera e propria raggera.
La calotta interna è quella portante. Essa ha uno spessore di quattro metri e fu costruita “a sacco”, ossia con una tecnica che prevedeva l’innalzamento di due paramenti di mattoni paralleli e il successivo riempimento dello spazio così creatosi con pietrame e altri detriti. Sopra di questa si trova la cupola superiore, più sottile della prima e visibile dall’esterno. Essa è totalmente in laterizio e nasce con una doppia funzione, estetica e protettiva nei confronti delle intemperie e dell’umidità.

L’opera che rese immortale il nome di Filippo Brunelleschi fu concepita dall’architetto attraverso il confronto sia con i modelli classici sia con quelli medievali, come ad esempio il Battistero fiorentino di San Giovanni, ma anche con il contatto con la pratica costruttiva persiana rappresentata dalle cupole del mausoleo ilkhanide persiano di Soltaniyeh, caratterizzato anch’esso da una cupola portante interna e una esterna decorata a maioliche azzurre.
Sulla sommità della cupola si trova la lanterna, in pietra e con una modanatura classica. Essa fu realizzata tra gli anni’60 e ’70 del ‘400 su disegni di Brunelleschi, spentosi nel 1446. La lanterna si presenta come un piccolo tempietto di forma ottagonale con un tetto a cono che si ricollega con le colonne e gli archi alle linee dei costoloni bianchi della cupola attraverso un sistema di pilastri e semicolonne e trabeazione, terminato.
Tale elemento, uno dei più eleganti della cupola, ha due funzioni fondamentali. Oltre alla funzione di illuminazione della cupola, che in caso contrario sarebbe del tutto buia, essa chiude la parte superiore della stessa, alla cui conclusione non può concorrere la volta per motivi di statica analoghi a quelli del Pantheon. Dall’altra il suo peso, rivolto in parte verso il centro della cupola sia scaricato sui costoloni, in qualche modo contrasta le spinte centrifughe delle vele. Una funzione analoga hanno poi quattro corpi laterali, ideati e costruiti da Filippo, e denominate “tribune morte”. Esse si trovano al di sopra degli spazi intermedi tra i bracci della crociera e sono così denominati in quanto tribune cieche non comunicati con l’interno della chiesa. Esse si compongono come semicilindri ricoperti da catini semicircolari pieni all’interno e scavati volumetricamente da cinque grandi nicchie ricoperte da catini a conchiglia. Esse, che introducono il nuovo lessico neoantico all’interno del Duomo, hanno però anche una funzione più pratica: al pari delle calotte absidali, le tribune contribuiscono a controbilanciale le spinte verso l’esterno che le due cupole producono.

Accanto a tutte queste iniziative di statica, Brunelleschi risolve poi un altro problema fondamentale, ossia l’autoportanza dell’intera struttura. Per fare ciò recuperò una vecchia tecnica, ossia la costruzione a spinapesce, che consiste nel porre i mattoni proprio come su una lisca di pesce lungo determinate diagonali calcolate matematicamente tali da far procedere la costruzione secondo una spirale continua che si restringe salendo verso l’alto. La tecnica, già usata in età romana, era ancora conosciuta in Oriente, specie nell’architettura iranica, come nel già citato mausoleo di Oljeitu a Soltaniyeh. Soprattutto in questo processo Brunelleschi si dimostrò un architetto capace di mescolare la teoria con la pratica, richiedendo la collocazione di mattoni di foggia e dimensione diversa secondo il luogo nel quale si sarebbero dovuti collocare sia un rigido confronto tra il progetto su carta e il cantiere realizzativo, che lo spinse in alcune occasioni a dover rivedere i calcoli compiuti in precedenza. Tale interesse si manifesta anche nell’uso del rapporto aureo, sinonimo di bellezza, nelle proporzioni tra le parti.
Ultimo elemento di novità che porta ancora oggi fama a Filippo Brunelleschi è l’attenzione rivolta al cantiere. Egli infatti riuscì innanzitutto a risolverne, anche in modo ardito, i problemi costruttivi. Rispetto ai suoi concorrenti, che avrebbe impiantato la struttura a partire dal terreno, egli decise di creare una piattaforma lignea in cima al tamburo ancorata ad esso, su cui furono costruite le impalcature, poste su più livelli e organizzate di modo che il cantiere procedesse in parallelo su tutti i lati.

Ad esso fecero seguito anche una serie di argani, pulegge e montacarichi sia di tradizione gotica che di nuova invenzione che, attraverso il passaggio da moti rotatori verticali ad orizzontali, aiutavano nel trasporto dei materiali da costruzione anche alle altezze vertiginose del cantiere. Tali strutture, abbandonate sulla piazza anche dopo la conclusione dei lavori, impressionarono i cittadini fiorentini e gli artisti per tutto il ‘400, compreso il giovane Leonardo, per la loro grandezza e per la loro complessità e novità. Le fonti sembrano suggerire che questa struttura si mantenne fino a che la calotta non superò un certo grado di pendenza, per risolvere il quale si provvide ad impalcature esterne, direttamente sul vuoto. Esse tornarono a centralizzarsi nell’ultima fase, quella di chiusura superiore della costruzione. Le dinamiche di cantiere non riguardarono però solo la sua realizzazione. Brunelleschi infatti si impegnò per il sostegno del lavoro dei muratori coinvolti. Fece costruire taverne e luoghi di ritrovo all’interno delle impalcature, dove potesse essere venduto vino, per favorire il lavoro sul cantiere e impedire che il dover scendere a terra limitasse il cantiere durante la giornata. Oltre a ciò Filippo, in linea con quello che avveniva nei cantieri europei contemporanei, si impegno nella costituzione di alcuni elementi di “welfare”, garantendo il pagamento da parte dell’opera dei riti funebri di eventuali operai morti sul lavoro e indennizzandone le famiglie.

Il grande progetto brunelleschiano si concluse nel 1436. Proprio in quell’anno avvenne l’inaugurazione e la consacrazione del duomo e della cupola ad opera di Papa Eugenio IV, molto legato alla famiglia dei Medici, che in quel periodo si trovava a Firenze a causa di una sommossa scoppiata contro di lui a Roma. Nonostante la conclusione effettiva sia del novembre, tale evento avvenne il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, che nel calendario fiorentino di allora coincideva con il capodanno. Tre anni più tardi Santa Maria del Fiore avrebbe fatto da sfondo alla cerimonia che, a conclusione dei lavori del concilio ecumenico appositamente convocato, avrebbe dovuto sancire la ricucitura dello strappo fra la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa. Ancora nel 1478 la cattedrale fu teatro della fallimentare congiura dei Pazzi, ordita nel tentativo di eliminare Giuliano e Lorenzo de Medici.
Nonostante la consacrazione i lavori non erano tuttavia terminati ma anzi si sarebbero protratti per tutto il secolo successivo. Un primo intervento riguardò la conclusione della lanterna con il collocamento della grande sfera di bronzo realizzata dalla bottega del Verrocchio e posta in cima alla cupola nel 1472. Nel 1507 venne poi indetto un nuovo concorso per l’assegnazione dei lavori di decorazione del tamburo della cattedrale. Ad esso parteciparono alcuni tra i più eminenti architetti dell’epoca tra i quali i fratelli Giuliano e Antonio Da Sangallo, Baccio d’Agnolo, Simone del Pollaiolo detto il Cronaca e lo stesso Michelangelo Buonarroti. La tenzone venne vinta da Baccio d’Agnolo e da Giuliano da Sangallo, che immaginarono un ordine classico a lesene che accompagnava l’oculo con al di sopra una galleria ad archi aggettante.

I lavori furono tuttavia interrotti anzitempo a causa, pare, delle numerose critiche rivolte ai direttori del cantiere. Particolarmente dure furono quelle che giunsero da Michelangelo, che avrebbe definito la galleria una “gabbia per grilli”. In realtà l’interruzione del cantiere fu decisa per via di alcuni problemi di statica che il ballatoio stava causando alla struttura, che tutt’oggi risulta incompleto. L’ultimo intervento risale al periodo granducale con l’affrescatura interna della cupola per mano del Vasari e di Federico Zuccari, realizzata tra il 1572 e il 1579, e rappresentante il Giudizio Universale.
L’inaugurazione ebbe un’impressione fortissima su tutta la cittadinanza anche al di fuori da Firenze soprattutto per i significati ideologici che essa venne ad assumere. Oltre alla meraviglia per le sue dimensioni, che la resero la cupola più grande costruita dall’antichità, record mantenuto ancora oggi come struttura in laterizio, e all’armonia delle sue forme e delle sue cromie, essa rappresentò per la comunità fiorentina un elemento fondamentale, da punto di vista sacro e civico. Innanzitutto la cupola venne riconosciuta come immagine della corona della Vergine, con cui la città incoronava la sua patrona più importante. La struttura ricordava inoltre la protezione della Vergine verso la città, dato che le grandi vele facevano pensare alle pieghe della veste della Madonna della Misericordia.

Accanto a queste però il significato civico della cattedrale si estendeva anche alla cupola. Essa era vista come in dialogo perfetto con le colline che circondavano la città, come se fosse una di esse. A questo confronto voluto tra opera dell’uomo e opera della natura si univa direttamente il grande orgoglio di poter avere l’edificio più grande del mondo, capace di superare il Pantheon classico e la Basilica di Santa Sofia di Costantinopoli. Ciò permise inoltre di porre la cupola a vero e proprio ombelico della città, tanto da farne una sorta di sinonimo, specie grazie alla sua grandezza, che la presentava come un vero e proprio faro. Ancora nel secolo successivo il pittore Ridolfo del Ghirlandaio, figlio di Domenico e in stretti rapporti con Raffaello, invitato a lavorare a Roma, diede il proprio diniego dichiarando di non voler abbandonare la sua città e i suoi dintorni e “perdere la cupola di veduta”. Analogo legame con il monumento dimostrano diverse personalità fiorentine che, al momento di costruire le proprie dimore extraurbane, decidono di porle in modo da rendere da esse visibile proprio la cupola. Emblematica in tal caso fu la costruzione della villa di Pratolino da parte del granduca Francesco I, che in quella direzione era orientata.
Tale caratteristica porterà a riprodurre il modello brunelleschiano in più occasioni, sia come simbolo della tradizione fiorentina sia come emblema della città al di fuori di essa. Significativi sono in questo caso sia gli esempi cittadini, come la tribuna della Santissima Annunciata di Alberti o il Cappellone dei Principi a San Lorenzo, così come gli esempi forestieri legati sia alla presenza di maestranze fiorentine, come nel caso della cupola del Santuario di Loreto, ad opera di Benedetto da Maiano e Giuliano da Sangallo, o alla volontà di presenza fisica della città del giglio, come nel santuario di Santa Maria dell’Umiltà a Pistoia, costruita da Giorgio Vasari nel 1563 su incarico del Granduca o, nel contado, quella di San Michele a Semiforte, in comune di Barberino Val d’Elsa, voluta dal canonico della cattedrale Capponi e realizzata nel 1594 da Santi di Tito, in cui la cupola è riprodotta in tutte le sue caratteristiche seppur in scale di 1/8.
Il senso politico più profondo che tale creazione venne a sviluppare viene però espressa da un altro grande architetto, nonché umanista dell’Italia del primo Quattrocento, ossia Leon Battista Alberti. Egli infatti, all’interno del “De pictura”, traccia un vero e proprio elogio dell’opera di Brunelleschi lodandone la grandezza, le capacità tecniche e il fatto che fosse riuscito a eguagliare, se non a superare, gli antichi. Entrò tale discorso l’Alberti sottolinea anche che l’edificio è tanto imponente da proiettare la propria ombra non solo sulla città, ma su tutti i popoli toscani. Tale accenno dava quindi l’idea che la cupola rappresentasse la volontà della Repubblica Fiorentina di estendere la propria autorità e la propria influenza anche oltre i propri confini, rivolgendosi in particolare agli altri popoli toscani, in special modo a Pisa e a Lucca.

Il successo di Filippo fu tale che a lui fu concesso di essere seppellito all’interno della cattedrale e che sul muro sopra la sepoltura fosse posta una lapide commemorativa dove l’architetto, rappresentato in un clipeo a mezzobusto in toga all’antica, viene elogiato per le sue capacità architettoniche, matematiche e ingegneristiche ed equiparato al mitico architetto Dedalo. Tale elemento dimostra quanto Brunelleschi non fosse più un architetto medioevale, capomastro e capocantiere, ma fosse una figura diversa, aperta alla speculazione matematico – teorica e al confronto diretto con l’antico.
La cupola è quindi un monumento fondamentale, luogo caro all’identità fiorentina e toscana e capace di rappresentare ancora oggi la città. Un edificio che manifesta le fondamenta della nuova era cui dà inizio, con lo studio dell’antico e il nuovo ruolo di arte liberale data all’architettura e a i suoi rappresentanti, ma che dimostra anche di non voler abbandonare il proprio passato gotico. Un progetto capace di imparare dalle realtà cittadine ma di aprirsi anche a quel panorama mediterraneo caro al commercio fiorentino e altrettanto capace di mettere le basi strutturali per l’architettura del futuro, come nel caso delle cupole di San Pietro a Roma e di Saint Paul a Londra.