LA GUERRA DEL PELOPONNESO TRA ATENE E SPARTA (431 a.C. – 404 a.C.), LE SUE ORIGINI E LE SUE CONSEGUENZE
Le guerre combattute contro i persiani, culminate nelle vittoriose battaglie di Maratona (490 a.C.) e Salamina (480 a.C.), avevano dato ad Atene la consapevolezza della propria forza. Alla base della potenza ateniese vi era la flotta, che aveva sfidato e sconfitto le squadre navali del Gran Re. Negli anni dopo la guerra Atene riuscì così a riunire intorno a sé un’alleanza di poleis che si estendeva su gran parte delle isole e delle coste del mare Egeo.

Si trattava di una coalizione all’interno della quale Atene godeva di una posizione di assoluta preminenza al punto che a partire dal 454 a.C. il tesoro della Lega, alimentato dai contributi annuali di tutti gli alleati, venne trasferito dall’isola di Delo, dov’era custodito nel tempio di Apollo, ad Atene. Qui il denaro fu speso per dare lustro alla capitale dell’Attica. Risalgono infatti proprio a quel periodo i lavori di ricostruzione e abbellimento dell’acropoli, saccheggiata dai persiani, con l’erezione del Partenone, lo splendido tempio dedicato ad Atena “Parthenos” (“vergine”), patrona della città, di cui ancora oggi ammiriamo le imponenti rovine.
Artefice della potenza ateniese fu Pericle, che dal 461 a.C. e per i successivi trent’anni fu il dominatore incontrastato della scena politica ateniese. Egli godette sempre di un largo consenso popolare, testimoniato dal fatto che dal 443 a.C. fu ininterrottamente eletto ogni anno alla carica di “stratego” (cioè membro dello stato maggiore ateniese) sino alla morte, avvenuta nel 429. Durante tutti quegli anni egli fu di fatto per Atene un vero e proprio re senza corona. Per questi motivi il trentennio che precede lo scoppio della guerra del Peloponneso è chiamato dagli storici “Età di Pericle”.

La guerra del Peloponneso può essere considerata come una vera e propria conflagrazione “mondiale” all’interno del sistema internazionale ellenico in quanto coinvolse la quasi totalità degli stati cittadini greci. Il carattere globale della contesa è evidenziato anche dalla vastità del teatro delle operazioni che coinvolsero un’area compresa fra l’Asia Minore e la Sicilia. Le ragioni dello scontro tra Atene e Sparta sono innanzitutto da ricercarsi nei timori crescenti di quest’ultima di fronte alla progressiva espansione dell’influenza ateniese, che i lacedemoni ritenevano pericolosa per il mantenimento dello status quo e del loro modello politico oligarchico. Le tensioni accumulatesi nel corso degli anni giunsero ad un punto di rottura nel 432 a.C. allorché Atene sostenne anche attraverso l’invio di una flotta l’adesione alla Lega delio-attica di Corcyra (l’odierna Corfù), colonia di Corinto, polis alleata di Sparta. A questo si aggiunga che gli ateniesi decretarono il divieto di accesso ai porti della Lega contro le navi di Megara, altra potente partner degli spartani. Esasperati per gli affronti subiti corinzi e megaresi si rivolsero a Sparta che intimò ad Atene di sospendere ogni azione che danneggiasse gli interessi dei membri della Lega peloponnesiaca. Gli ateniesi, Pericle in testa, respinsero l’ultimatum. La guerra a quel punto divenne inevitabile.
Gli spartani diedero inizio alle ostilità nell’estate del 431 a.C. quando Re Archidamo II invase l’Attica alla testa di un esercito di circa 24 mila soldati. Pericle lasciò che i guerrieri lacedemoni devastassero le campagne mentre la popolazione della regione trovava scampo entro le mura di Atene, la cui flotta fu inviata a compiere scorrerie sulla costa del Peloponneso. Archidamo, con l’arrivo della cattiva stagione, fu infine costretto a ritirarsi senza che il suo esercito avesse ottenuto nulla: Atene, infatti, nei decenni precedenti, si era dotata di un formidabile sistema di mura difensive, le “Lunghe Mura”, che la univano al porto del Pireo, costantemente rifornito dalla flotta della Lega di Delo, il che garantiva alla città la possibilità di resistere potenzialmente ad oltranza.
Tuttavia, una volta partiti gli spartani, nel 430 a.C. una nuova minaccia, ancor più tremenda dei guerrieri lacedemoni, si abbatté sulla capitale dell’Attica: La peste. A dispetto del nome, con ogni probabilità dovette trattarsi di una forma di febbre tifoide, un morbo quasi certamente sbarcato in città dall’Egitto o dalla Siria da una nave che aveva fatto scalo al Pireo. L’epidemia ebbe effetti devastanti, maggiorati dal sovraffollamento causato dal gran numero di profughi che dalla campagna aveva trovato riparo entro le mura: si calcola che a causa di essa perirono quasi i due terzi della popolazione ateniese. Ma forse la conseguenza più sciagurata per Atene fu costituita dalla scomparsa di Pericle, la cui fibra eccezionale non lo salvò dal contagio. il vecchio stratego si spense all’età di sessantacinque anni nell’autunno del 429. Con lui Atene perdeva la sua guida più autorevole, il che ebbe gravi ripercussioni sulla conduzione del conflitto, in parte anche a causa del fatto che i suoi successori non dimostrarono qualità altrettanto eccelse.

La morte di Pericle portò all’ascesa politica della figura di Cleone, leader “massimalista”, violentemente anti spartano e fautore della continuazione a oltranza della guerra. Per Atene intanto la situazione sul piano militare si faceva sempre più difficile: nel 429 a.C., truppe spartane e tebane assediarono e rasero al suolo la piccola città beotica di Platea, alleata degli ateniesi fin dai tempi della battaglia di Maratona. L’anno successivo la polis di Mitilene, situata sull’isola di Lesbo, tentò, anche cercando l’aiuto della lega peloponnesiaca, di scrollarsi di dosso l’egemonia di Atene approfittando delle difficoltà in cui si dibatteva quest’ultima. Gli ateniesi, dopo vani tentativi diplomatici, furono costretti allora costretti a usare la forza per ricondurre gli insorti all’obbedienza.
Nel 425 a.C. Il nuovo Re di Sparta Agide II invase l’Attica come già aveva fatto suo padre Archidamo, a cui era recentemente succeduto. Come risposta gli ateniesi assediarono ed espugnarono Pilo, località situata lungo la costa occidentale del Peloponneso, costringendo così Agide mollare la presa sull’Attica. Gli spartani assediarono a loro volta Pilo, facendo sbarcare un piccolo contingente sulla vicina isola di Sfacteria per isolare completamente gli avversari. Tuttavia l’ammiraglio ateniese Demostene di Afidna, avvisato per tempo, reagì sbarcando contingenti di truppe armate alla leggera sull’isola: gli spartiati, completamente circondati, furono costretti ad arrendersi, venendo condotti prigionieri ad Atene: Era la prima volta che dei guerrieri spartani gettavano le armi di fronte al nemico, quindi la notizia suscitò senza dubbio grande impressione in tutto il mondo greco.

Nonostante l’indubbio successo dei loro avversari, gli spartani non si persero d’animo: Nel 424 a.C. il condottiero lacedemone Brasida guidò un contingente attraverso la Grecia fino alla base ateniese di Anfipoli, occupandola. Per Atene fu un colpo durissimo: da Anfipoli passavano i carichi di grano del Mar Nero diretti verso la città, senza i quali Atene sarebbe stata ridotta alla fame. Il successo di Brasida portò altre città dell’area a ribellarsi contro Atene, che rispose nel 422 a.C. con l’invio di un esercito contro Anfipoli, alla cui testa si mise lo stesso Cleone. Davanti alla città l’armata ateniese diede battaglia contro quella spartana, che prevalse. Cleone si comportò valorosamente e cadde in combattimento, un destino che toccò anche a Brasida, tra i pochi caduti spartani dello scontro.
La morte dei due condottieri unita al senso di spossatezza dovuta dalle perdite umane e materiali subite in dieci anni di guerra, spinsero entrambe parti a intavolare finalmente trattative per arrivare alla cessazione delle ostilità. Nel 421 a.C. fu così firmata una pace cinquantennale che ristabiliva lo status quo precedente lo scoppio delle ostilità. Si concludeva, almeno apparentemente, la contesa tra Atene e Sparta con la reciproca restituzione delle posizioni conquistate da ciascuno nel corso del conflitto. L’accordo, passato alla Storia con il nome di “Pace di Nicia”, dal nome del diplomatico ateniese che ne negoziò i termini, prevedeva la reciproca restituzione delle posizioni conquistate da parte di ciascuna delle due parti.

Tuttavia la stipulazione del trattato fu accolta ad Atene da feroci polemiche, dovute in modo particolare alla riluttanza di una parte degli ateniesi ad evacuare la strategica roccaforte di Pilo, ancora intatta. La pace, o meglio la tregua, come a questo punto converrebbe chiamarla, saltò quindi definitivamente a soli sette anni dalla sua stipulazione.
La spinta decisiva verso la ripresa delle ostilità giunse dall’iniziativa di un politico giovane, ambizioso e alquanto spregiudicato: Alcibiade. A trentaquattro anni questo ex allievo di Socrate era considerato da molti come il degno erede di Pericle, di cui era nipote per parte di madre. Grazie alle sue straordinarie doti oratorie, nel 415 a.C. Alcibiade convinse gli ateniesi a gettarsi in un’azzardata avventura militare nella lontana Sicilia, a migliaia di chilometri dalla loro città. L’intervento venne giustificato da una richiesta di aiuto rivolta ad Atene da parte di Segesta, sua vecchia alleata, che era stata attaccata da Selinunte, a sua volta alleata di Siracusa, colonia di Corinto e partner di Sparta in terra sicula. Fu quindi per riattizzare il confronto con l’arcinemica che Atene si intromise nelle lotte interne alle poleis siceliote.
L’assemblea popolare rispose entusiasticamente alla proposta di Alcibiade mettendo in mare una flotta di 134 triremi su cui fu imbarcato un esercito di cinquemila opliti oltre a millecinquecento fanti leggeri. Si trattava di un contingente di tutto rispetto per la cui preparazione erano stati profusi sforzi enormi. La guida della spedizione fu affidata ad Alcibiade stesso, coadiuvato dagli strateghi Nicia e Lamaco. Tuttavia, proprio alla vigilia della partenza, ad Atene fu compiuto un grave sacrilegio interpretato da tutti gli abitanti come un presagio di sventura per la spedizione in procinto di salpare: la mutilazione delle erme di Dioniso, cippi di marmo sormontati dal busto della divinità dai quali sporgeva un vistoso membro in erezione. La mutilazione, che molto probabilmente ebbe come bersaglio proprio i falli, non costituiva solo un grave atto di vandalismo ma si configurava anche come un gesto di spregio verso la divinità per il quale erano previste pene assai severe, fino a quella capitale.

Pur in mancanza di testimoni i sospetti degli inquirenti si concentrarono subito attorno ad Alcibiade, sul quale già circolavano voci circa l’avere profanato, rivelandoli, i Misteri Eleusini, legati al culto di Demetra, dea dell’agricoltura. Alla fine però, data l’imminenza della partenza per la Sicilia, si preferì sospendere il giudizio su Alcibiade, che fu lasciato libero di salpare con l’esercito. La spedizione, cominciata male, era destinata a finire anche peggio. Nessuna polis della costa italiana fornì aiuti alla flotta ateniese, non volendo inimicarsi la potente Siracusa. Gli ateniesi fecero allora vela su Catania, che venne occupata per essere utilizzata come base per l’attacco contro i siracusani. In quei mesi arrivò una nave con l’ordine di prelevare Alcibiade perché fosse condotto ad Atene dove ad attenderlo c’era un processo per sacrilegio. Il comandante ateniese ubbidì all’ordine di rientro ma nel corso del viaggio riuscì a scappare. Approdato sulla costa del Peloponneso chiese asilo politico a Sparta che glielo accordò di buon grado.
Alcibiade rivelò agli spartani i piani ateniesi, suggerendo l’invio di un contingente in appoggio a Siracusa, consiglio ascoltato dai lacedemoni. Fu così che l’attacco ateniese si risolse in un massacro: La flotta fu intrappolata dai siracusani nelle acque del Porto Grande e colata a picco, mentre l’esercito tentò una disperata quanto vana ritirata verso Catania, finendo accerchiato e distrutto. Gli ufficiali vennero giustiziati subito dopo la cattura al termine di un processo sommario mentre i militari di truppa furono venduti come schiavi oppure rinchiusi nelle Latomie, le impressionanti cave di pietra di Siracusa. In questo ambiente, gelido d’inverno e torrido d’estate, quei disgraziati patirono le pene dell’inferno, ammassati gli uni sugli altri tra i propri escrementi e i cadaveri dei compagni in decomposizione. Pochissimi di loro riuscirono a rivedere la patria. Racconta Plutarco che sarebbero stati liberati dai siracusani soltanto coloro che fossero stati in grado di declamare a memoria i versi de “Le troiane” di Euripide. Correva l’anno 413 a.C. e con la disfatta subita sotto le mura di Siracusa Atene perse il fiore della sua gioventù, subendo un colpo da cui non si sarebbe mai più ripresa.

Approfittando della batosta subita dai loro rivali in Sicilia, gli spartani di re Agide invasero di nuovo l’Attica. Stavolta fecero qualcosa di più che razziare: occuparono la rocca di Decelea, snodo fondamentale per il passaggio delle derrate alimentari dirette ad Atene, che così perdeva anche l’accesso alle miniere d’argento di Laurion.
Nello stesso periodo Sparta non esitò a concludere un’alleanza con i persiani. In cambio dell’accettazione da parte di questi ultimi a finanziarne lo sforzo bellico, i lacedemoni acconsentirono a lasciare mano libera ai satrapi persiani per sottomettere nuovamente le città greche d’Asia, che settantanni prima Atene aveva sottratto al dominio del Gran Re. Quest’alleanza fu per gli spartani un capolavoro di realpolitik ma anche di grande cinismo e spregiudicatezza. Nel frattempo, ad Atene, il susseguirsi delle notizie catastrofiche rafforzò l’opposizione aristocratica e oligarchica che accusava i democratici di avere portato la patria sull’orlo della rovina.

Nel 411 a.C. un gruppo di ufficiali di tendenze oligarchiche attuò con successo un golpe a seguito del quale i diritti di cittadinanza vennero limitati a solamente cinquemila ateniesi in base a criteri di censo, abolendo nel contempo tutti i sussidi previsti per chi ricoprisse cariche pubbliche, limitando quindi ai soli cittadini benestanti la possibilità di ricoprirle. Il nuovo regime era evidentemente ben poco popolare al punto che fu presto abbattuto da un contro colpo di stato di cui furono protagonisti i marinai della flotta di stanza a Samo sotto la guida dello stratego Trasibulo. Tra i primi provvedimenti del restaurato governo democratico vi fu quello di accordare il perdono ad Alcibiade, lasciandolo libero di rientrare in patria. Il generale si trovava in quel momento esule presso i persiani dopo essere stato costretto a una precipitosa fuga da Sparta, motivata dalla necessità di sfuggire alla vendetta di re Agide, a cui Alcibiade pare avesse addirittura ingravidato la moglie, la regina Timea!
Probabilmente gli ateniesi speravano che grazie al genio militare di Alcibiade fosse ancora possibile ribaltare le sorti della guerra ed in effetti ciò parve inizialmente possibile grazie alle vittorie conseguite dalla flotta ateniese nelle battaglie di Abido e delle Isole Arginuse, combattute rispettivamente nel 411 e nel 406 a.C. Tuttavia, in un clima di sospetto e di isteria collettivi, l’assemblea del popolo mise sotto processo gli ammiragli ateniesi che pure alle Arginuse avevano vinto, incolpandoli di non aver soccorso i naufraghi. Gli ufficiali che obbedirono all’ordine di fare ritorno in patria furono condannati a morte e giustiziati.

Fu così che nell’agosto del 405 a.C. con lo stato maggiore epurato Atene andò incontro a una inevitabile disfatta navale nelle acque di Egospotami, nella quale il condottiero spartano Lisandro distrusse l’intera flotta ateniese. Dopo Egospotami Atene perse definitivamente il controllo del mare Egeo, il che consentì a Lisandro di predisporre l’accerchiamento totale della capitale avversaria anche dalla parte del mare. Nel marzo 404 a.C. Atene, ormai stremata, capitolava mentre Lisandro entrava trionfalmente al Pireo.
La fiera dominatrice dei mari dovette sottostare alle pesanti condizioni di pace imposte dai lacedemoni. Esse prevedevano: La consegna della flotta tranne dieci navi, lo smantellamento delle Lunghe Mura, lo scioglimento della lega delio-attica e infine l’abbattimento della stessa democrazia, sostituita dal duro regime oligarchico dei “Trenta Tiranni” a capo del quale fu posto l’aristocratico Crizia e sostenuto militarmente da una guarnigione spartana acquartierata al Pireo.

La guerra del Peloponneso rappresentò l’inizio della decadenza non solo di Atene, che fu sostituita nel suo ruolo di egemone da Sparta, ma anche di quella generale dell’intero sistema delle poleis greche, le quali avevano dato fondo alle loro migliori energie combattendosi implacabilmente per decenni, del tutto incapaci di guardare al di là dei propri interessi particolari. L’esempio più lampante della profonda crisi in cui si dibatteva Atene uscita sconfitta dalla guerra con Sparta è rappresentato dal processo contro Socrate: accusato per le sue riflessioni filosofiche di ateismo, empietà e corruzione dei giovani, il vecchio maestro, veterano della guerra del Peloponneso, venne condannato a farla finita da sé assumendo una pozione mortale a base di cicuta. Di fronte alla sentenza Socrate rifiutò ogni opzione di fuga e serenamente assunse il veleno, diventando, con la sua morte, l’archetipo dell’intellettuale perseguitato dal potere unicamente per le sue idee.