La storia dell’arte mette spesso giustamente al centro delle celebrazioni gli artisti, a prescindere dal loro ambito di azione, e le opere, ricordando il momento della loro nascita o della loro conclusione. Eppure altrettanto spesso si dà poco risalto all’altro “genitore” di queste ultime, ossia il committente. Una figura importante, non solo come sostenitore economico degli artisti, ma anche come figura attiva, capace di disegnare intere imprese insieme con essi o con gli intellettuali che dialogarono con lui.

Nella maggior parte dei casi il ricordo di queste figure è distinto da quelle degli autori. A volte capita però che le circostanze uniscano in queste occasioni entrambi. Il 2020 permette proprio quest’opportunità, mescolando l’anniversario di un grande artista e quello di uno dei suoi committenti, morto pochi giorni dopo di lui. Quest’anno infatti si ricordano Raffaello, vero gigante del Rinascimento maturo, e Agostino Chigi, suo mecenate e uomo forte della politica e dell’economia dell’Italia a cavallo tra il XV e il XVI secolo.
Il primo, artista capitale della Storia dell’Arte, tanto importante da diventare il punto di riferimento non solo per i suoi allievi ma anche per l’intera Maniera Moderna, tanto da divenire Divin pittore. Capace di essere modello dal classicismo seicentesco dei bolognesi e di Poussin a quello neoclassico di Ingres, ma anche obiettivo polemico in altri periodi, specie nel Seicento caravaggesco o nelle Avanguardie. Un artista considerato esempio della perfezione pittorica del suo tempo, ma capace di essere sempre aperto, anche in età matura, alla conoscenza e al confronto con i colleghi e con le novità che popolavano la sua epoca. Un autore infine che seppe unire alla pittura anche un’altra arte, l’architettura, ambito nel quale si interessò anche di progetti significativi, riuscendo a svilupparvi complessi programmi decorativi e di commistione tra le arti.
Il secondo, invece, ricco e influente banchiere senese, connesso con la nomenclatura della sua città ma che deve la sua fortuna ai legami con la corte pontificia, della quale divenne primo e principale finanziatore.

Un uomo capace di arricchirsi proprio attraverso tale attività, finanziando la politica e le costruzioni di ben tre pontefici, da Alessandro VI a Leone X. Il denaro speso per le campagne del Valentino e per i cimenti edilizi di Giulio II venne da lui riscosso non in moneta sonante ma in appalti, in particolare quelli remunerativi sul sale e sull’allume di Tolfa. Proprio quest’ultimo lo rese un personaggio di caratura internazionale, con filiali a Londra, il Cairo e Costantinopoli e forte tanto da superare in esportazione i tradizionali produttori turchi. Una condizione che gli valse la nomea di più grande mercante d’Europa da parte del sultano Selim I. Un successo che lo fece conoscere come il Magnifico. Una figura complessa anche nella società del suo tempo, mecenate e patrono di circoli di intellettuali, umanisti e artisti e capace, in totale discordia con i possibili obiettivi di ascesa familiare, di sposare la cortigiana Francesca Ordeaschi, veneziana e di umili e discusse origini.
Il legame di entrambi con la florida corte papale non solo permise ad entrambi di incontrarsi e di confrontarsi, ma l’influenza del secondo gli garantì anche la possibilità di valersi del grande artista urbinate, impegnato nei grandi cantieri delle Stanze e nelle altre commissioni papali e di Curia. Tale collaborazione, nella quale intervennero diversi letterati e umanisti, tra i quali il cardinal Bibbiena, si rivolsero in direzioni diverse, mescolando committenza profana e sacra, pittura e architettura, realizzazione diretta dell’artista e capacità di organizzazione del cantiere e del progetto generale.
Per il banchiere senese infatti, Raffaello collaborò in diversi cantieri, nei quali agì sia con realizzazioni specifiche sia in un ruolo più ampio e direttivo. In tutti i casi comunque l’Urbinate diede grande rilievo all’ampio nucleo dei suoi collaboratori, cui demandò la realizzazione di parti delle opere, tra i quali si stavano formando grandi artisti della generazione successiva, da Giulio Romano a Giovan Francesco Penni, da Perin del Vaga a Giovanni da Udine.

Raffaello si impegnò in particolare su tre cantieri principali, tra il 1511 e la morte, in tre luoghi cari al suo committente. Lavorò infatti, come pittore, nella grande villa suburbana che il Chigi aveva costruito oltre Tevere e affacciata su di esso e sulla nuova via della Lungara, oggi nota come Farnesina, ma anche in due cappelle, realizzate in due chiese di Roma, ma che avevano tra di loro un punto in comune. Esse infatti, l’una in Santa Maria del Popolo e l’altra in Santa Maria della Pace, erano state concesse ad Agostino da Papa Giulio II Della Rovere, legato strettamente ad entrambe le chiese, ricostruite nel secondo Quattrocento dallo zio Sisto IV, e verso le quali lo stesso pontefice intervenne con sue commissioni, come il nuovo coro bramantesco alla chiesa del Popolo. Un legame intenso, quello con il pontefice Della Rovere, che permise al banchiere senese di inserire nel proprio stemma il rovere papale, rimasto poi in eredità ai successori. In questo caso pero il pittore urbinate non intervenne solo come pittore ma sviluppò sia le proprie capacità in ambito architettonico, di cui si occupava contemporaneamente nel cantiere di San Pietro, ma anche in quelle di vero e proprio coordinatore della fabbrica, in rapporto con tutte le maestranze coinvolte.

Proprio in una di queste cappelle si può rendere omaggio ad entrambi, per la sua storia costruttiva particolare e per gli apporti che artisti anche successivi a Raffaello riuscirono a compiere confrontandosi con i progetti del maestro. La cappella in questione è quella realizzata all’interno della chiesa agostiniana di Santa Maria del Popolo, affacciata sulla piazza omonima. Essa era stata da tempo legata alla famiglia dei Della Rovere, dopo che Sisto IV aveva ricostruito totalmente la chiesa, nata dopo l’anno Mille sul mausoleo di Nerone e ampliata nel ‘200 dopo il trasferimento dell’icona di Santa Maria del Popolo, in pieno stile rinascimentale albertiano, opera di Giovannino de’ Dolci. Un legame che si mantenne con la sua famiglia, specie con il cardinale Giuliano della Rovere che, diventato papa, fece ampliare il coro dal Bramante. Fu proprio Giulio II a concedere la seconda cappella da sinistra al suo banchiere Agostino Chigi nel dicembre del 1507. Essa fu pensata fin da subito come cappella gentilizia e sepolcrale per la famiglia Chigi e con la tripla intitolazione a Santa Maria di Loreto, Sant’Agostino e San Sebastiano. Se la seconda è un chiaro riferimento onomastico al committente, la prima si lega ancora al papa, molto devoto alla Santa Casa e che ad essa commissionò allo stesso Raffaello una piccola pala, ora nota come Madonna del Velo, e un tempo conservata nella stessa chiesa.

Per dar seguito alla costruzione, il banchiere senese riuscì a strappare Raffaello ai ponteggi delle Stanze e a creare attraverso di lui un grande progetto architettonico e decorativo, importante soprattutto perché uno dei pochi progetti dell’Urbinate a essere concluso in tutte le sue parti e non solo sulla carta, oltre che ancora oggi visibile e abitabile. Agostino permise inoltre a Raffaello di avvicinarsi all’architettura vera e propria, mondo con il quale il Santi era entrato in contatto solo in modo mediato, sia attraverso le architetture dipinte o attraverso la collaborazione con il suo conterraneo Bramante, primo architetto papale. Il cantiere dovette avere inizio tra il 1511 e il 1512 e proseguire lungo tutta la vita di Raffaello.
Raffaello quindi immagina una grande cappella a pianta centrale, chiusa da un arco monumentale che si apre sulla navata laterale. In particolare l’artista sviluppa quelli che saranno i caratteri distintivi della sua architettura, che passeranno poi sia in San Pietro che nei successivi cantieri civili. Innanzitutto egli si dimostra erede proprio di Bramante, attraverso la costruzione di un ampio vano cupolato, con architravi, paraste e costoloni che rilevano le strutture portanti, richiamando le idee espresse proprio dal Bramante nella cupola del Tempietto di San Pietro in Montorio. La cappella è anche debitrice del progetto bramantesco per San Pietro, dal quale Raffaello recupera sia i rapporti dimensionali (il diametro della cupola è più ampio dell’ampiezza degli archi che la sostengono), sia il disegno di piloni di sostegno, a base trapezoidale e che si agganciano di conseguenza al tamburo con pennacchi trapezoidali, identici in scala a quelli dell’odierna basilica.

A differenza del Bramante tuttavia l’Urbinate dava però un altro significato all’architettura. Se al primo interessava che l’osservatore avesse una visione globale della struttura solo con uno sguardo, Raffaello pensava invece che il visitatore potesse avere visioni diverse del suo monumento da punti di vista diversi, sia dall’esterno che abitando lo spazio. Usò per fare ciò anche una minore attenzione all’ordine classico delle strutture, in qualche modo riempiendole di decorazioni pittoriche, dorature e stucchi. Ciò permette di avere una fisionomia meno definita del tutto, ma ha il pregio di colpire l’occhio dell’osservatore e di invitarlo alla ricerca.
In linea con questo ideale egli progettò di decorare la struttura classica della cappella con marmorizzazioni e di riempire le membrature della cupola emisferica con stucchi architettonici dorati, e pensando ad un arco più basso all’ingresso, di modo da non rendere immediatamente percepibile la cupola, che sarebbe apparsa all’improvviso.
In collaborazione con il Chigi ideò insieme alle maestranze il programma decorativo che, leggibile ancora ad oggi, permette di capire la commistione tra mondo pagano e cristianesimo che animava la Roma dell’inizio del ‘500. La cupola vera e propria, divisa in cassettoni dorati, venne immaginata come aperta sul cielo, smaterializzandone le murature attraverso la prospettiva, e riprendendo così il Pantheon. Al centro, entro l’oculo centrale, trova posto Dio Padre, accompagnato da angeli, che protende in avanti le braccia, incombendo su chi gli sta sotto, grazie al grande effetto di scorcio prospettico. La resa possente e muscolare che caratterizza il personaggio, oltre che la resa del panneggio, dimostrano quanto Raffaello avesse assorbito dell’opera di Michelangelo, specie dei Profeti e degli ignudi della volta della Cappella Sistina. Attorno a Dio si dispongono una serie di angeli.

La loro composizione e il loro significato dimostrano tuttavia quanto il substrato classicista del committente si mostri. Essi infatti accompagnano il Sole, la Luna, i Pianeti e le Stelle fisse, insieme con i segni zodiacali su cartigli e, nella parte bassa, immagini delle divinità olimpiche corrispondenti, che si affacciano dall’alto come da balconi. L’idea alla base di questa disposizione diviene quindi molteplice. Da un lato si materializza il concetto, già dantesco, di Dio come primo motore dei cieli e del mondo, cui sembra effettivamente dare inizio con il moto del suo corpo. L’attenzione alle divinità pagane e all’oroscopo, dimostrato da Agostino anche sul soffitto dipinto da Baldassarre Peruzzi nella loggia di Galatea alla Farnesina, porta ad immaginare anche un soffitto pagano, con gli dei attorno a Dio /Giove.
Al livello inferiore, tra le finestre, furono immaginate scene della creazione, derivate dalla Genesi. Essi si dispongono negli spazi tra le finestre e rappresentano le scene: Creazione della luce e del buio, Creazione del sole e della luna, creazione della terra, creazione di Adamo, Creazione di Eva, creazione degli animali, Peccato Originale e Cacciata dal Paradiso. Queste rappresentazioni, che richiamano i temi della volta della Sistina, si riallacciano con l’idea del Dio Creatore della cupola.

Il piano terreno è ancora più ricco. Sui pennacchi vi sono personificazioni delle Quattro Stagioni, tema che si lega al passare del tempo e che dimostra ancora una volta l’essere a cavallo tra sacro e profano della cappella. Alle spalle dell’altare era prevista la pala, dedicata alla Vergine. E’ probabile che il tema scelto sia identico a quello attuale, ossia quello della Nascita della Vergine, nel cui anniversario era prevista una celebrazione all’altare Chigi. Ai lati invece si trovano i mausolei della famiglia, in marmo e di forma piramidale. Tale aspetto, inusuale per l’epoca e che ha fatto pensare ad un intervento successivo, si spiega invece con chiaro riferimento ai mausolei romani antichi, in particolare a quelli di matrice egizia. Oltre al concetto di eternità che la piramide mantiene sin dall’età dei faraoni, il fatto che siano due, oltre ad avere uno scopo pratico, può far pensare a due tombe, dette metae, ancora esistenti nel Rinascimento. Esse infatti erano la Meta Romuli, posta vicino a San Pietro e citata anche sulle porte bronzee della basilica, e la Meta Remi, che noi conosciamo oggi come Piramide Cestia. Su di esse vi sarebbe stato un tondo marmoreo con effigiato il membro sepolto.

L’aspetto particolare, oggi non comprensibile, è che probabilmente queste erano dedicate alla famiglia stretta del banchiere, ospitando la sua sepoltura e quella della moglie Francesca. Sul fronte di esse dovevano collocarsi due rilievi bronzei a tema religioso. Uno di essi, realizzato, rappresenta l’incontro tra Cristo e la Samaritana. Tale scelta iconografica aveva per Agostino un doppio significato. Da una parte esso aveva come protagonista una donna, tema quindi adatto ad una tomba femminile. Dall’altra esso rendeva plastico uno degli elementi espressi nella dedicazione della cappella, ossia quello di mutare i beni terreni, di cui Agostino era ricco, in beni spirituali, ossia la salvezza. Un riferimento ambiguo e problematico, visto anche il contemporaneo scoppio della Riforma.
All’interno dei pilastri sono aperte quattro nicchie, al cui interno erano previste quattro statue di profeti, disegnati dallo stesso Raffaello e affidate da lui ad un amico e collaboratore scultore, Lorenzetto, cui erano demandate anche le tombe. L’artista, toscano allievo dell’Urbinate e imparentato con Giulio Romano, sarà molto legato a Raffaello, tanto da realizzare la Madonna con il bambino posta nel Pantheon sopra la tomba del Maestro.

Il progetto fu seguito da Raffaello dall’origine del cantiere fino alla morte. La sua funzione fu soprattutto legata all’organizzazione del piano generale ma anche a fornire i disegni per le diverse parti, compiute poi da altri. Alla morte del maestro tuttavia il progetto era ancora in itinere, essendo stata realizzata solo la cupola cassettonata, dove i suoi disegni furono compiuti a mosaico da Luigi de Pace. Il maestro, esperto in quest’arte, fu fatto venire appositamente da Venezia, dove tale tecnica era ancora in voga e vi erano ancora scuole attive. Un legame non inusuale di Agostino con la città, sia per il suo profilo sia perché a Venezia era venuto in contatto sia con la sua seconda moglie Francesca Ordeaschi sia con un artista a lui caro, Sebastiano del Piombo, che lavorerà nella cappella e nella villa Farnesina. Il progetto iconografico generale doveva essere già stato definito e conosciuto nella cerchia di Raffaello, come attesta il testamento scritto da Agostino del 1519. Il cantiere subisce poi un rallentamento con la morte dei suoi due ideatori nell’aprile del 1520, a seguito della quale la direzione venne presa dalla vedova, che nello stesso anno richiede al mosaicista anche la realizzazione dei pannelli della Creazione e i tondi sottostanti, che erano stati pensati probabilmente con questa stessa tecnica.
La direzione delle parti pittoriche venne quindi affidata a Sebastiano del Piombo, artista veneto trapiantato a Roma e che aveva stretti rapporti con Michelangelo, cui fu richiesto nel 1526, dopo la morte di Francesca, di realizzare la pala d’altare e parti figurative del tamburo, non realizzati dal mosaicista. La pala in particolare venne commissionata con l’obbligo che fosse realizzata ad olio su pietra, in questo caso peperino, e che richiamasse stilisticamente l’ultimo grande capolavoro di Raffaello, la Trasfigurazione, pala nella chiesa di San Pietro in Montorio, che aveva fatto un grande effetto nel pubblico romano dell’epoca. La commissione sarà tuttavia realizzata solo parzialmente, e Sebastiano morirà nel 1546 avendo compiuto quasi totalmente la pala d’altare ma non avendo messo mano alle altre pitture. La situazione spinse quindi l’erede di Agostino e Francesca, Lorenzo Leone, nel cui nome si riflette il legame tra il padre e il primo papa Medici, ad affidarsi ad un altro pittore, questa volta toscano, membro della prima Maniera, ossia Francesco Salviati. Alla sua mano si deve finalmente la realizzazione del decoro superiore e la conclusione della pala.

In contemporanea ai lavori pittorici proseguirono quelli scultorei al piano terra, sempre seguiti da Lorenzetto. Alla morte dell’artista rimanevano però nella bottega solo due statue di profeti, il Giona e l’Elia, oltre ad una sola tomba completa, seppur priva dell’effige, e diverse parti scomposte dell’altra, della quale però era stato realizzato il tondo dedicato ad Agostino. Lorenzetto aveva inoltre realizzato il grande rilievo bronzeo con Cristo e la Samaritana che doveva essere collocato sulla tomba di Francesca Ordeaschi. Lorenzo Leone decise quindi di collocarle all’interno della cappella, riempiendo le nicchie all’ingresso della stessa e ponendo la piramide sulla parete destra, senza iscrizioni e senza il tondo, dedicandola presumibilmente alla madre, e inaugurando la cappella nel 1551.

La relativa incompiutezza della cappella proseguì per tutto il secolo successivo, legandosi anche alla decadenza degli eredi di Agostino e del fratello Sigismondo e il successivo ritorno nella città natale della famiglia. La “seconda vita” del luogo si lega invece al Barocco maturo e alla figura di Fabio Chigi, meglio noto come papa Alessandro VII. Egli intervenne alla metà del XVII secolo quando, dopo una lunga carriera negli ambienti di Curia, venne nominato cardinale, segretario di Stato e titolare di Santa Maria del Popolo, cui la sua famiglia era legata. Oltre ai grandi lavori commissionati a Bernini nella navata e nel presbiterio della chiesa, il Chigi decise di rinnovare la cappella, entrata in disuso e divenuta una sorta di ripostiglio, al cui interno trovò posto anche una tomba quattrocentesca proveniente dalla basilica d San Pietro. In particolare il cardinale avrebbe voluto completarla in occasione di uno dei momenti più importanti per la Chiesa, ossia il Giubileo, in quel caso quello del 1650. Egli quindi si affidò allo stesso Gian Lorenzo Bernini, che completò le parti mancanti, riuscendo però a porsi in continuità con progetto del Santi. Innanzitutto completò le nicchie con le figure di Abacuc e Daniele.

Tale scelta permetteva in particolare all’artista di narrare la comune storia dei due profeti, facendola avvenire ”in eterno” nella cappella. Ai due angoli opposti infatti si trovano Daniele che, in preghiera, chiede l’aiuto di Dio accompagnato da un leone e dall’altra Abacuc che, sorpreso da un angelo mentre portava da mangiare ad alcuni operai, viene letteralmente portato in volo a Babilonia tenuto per una ciocca di capelli, di modo da sfamare il povero Daniele.
A questo intervento, che completa la serie di Lorenzetto, fa seguito la pavimentazione, realizzata con marmi policromi e in ideale dialogo con la cupola stessa. Con il medesimo scorcio illusionistico infatti Bernini immagina di aprire con un oculo la fossa funebre al di sotto, da cui compare una morte alata che sorregge il pesante stemma araldico Chigi ed è accompagnata da un cartiglio con scritto Mors ad coelos, la morte (porta) al cielo, preludio al paradiso. Alcune delle lettere dell’iscrizione, più grandi delle altre, stanno ad indicare una data in caratteri romani e che corrisponde appunto all’anno giubilare 1650.
L’ultimo intervento riguarda le tombe. In questo caso l’artista barocco seguì il programma rinascimentale, apportando modifiche che dipesero però più dal suo committente che da lui stesso.

Inserì infatti la seconda tomba piramidale sulla parete sinistra e collocò su entrambe due tondi marmorei, quello di destra dedicato ad Agostino, quello di sinistra a Sigismondo. Questo cambiamento portò quindi non solo ad invertire i titolari delle tombe ma anche a sostituire Francesca Ordeaschi in effige con il fratello del banchiere senese. Tale scelta si deve sicuramente alla volontà del cardinale e poi papa Chigi, che dal ramo di Sigismondo discendeva e che quindi voleva renderlo evidente. L’unico rilievo realizzato, quello della Samaritana, che doveva essere collocato al di sotto della tomba di Francesca fu invece spostato, finendo con il diventare il paliotto dell’altare. All’intervento del cardinale, divenuto nel frattempo papa, si devono inoltre le due lunette al di sopra delle tombe, cui non si fa menzione nel progetto originario. In esse il papa volle porre due coppie di personaggi strettamente legati alla pala d’altare. In essi infatti, realizzati nel 1656 su tavola dall’artista senese Raffaello Vanni, formatosi con Annibale Carracci e Pietro da Cortona, sono rappresentati sulla sinistra gli antenati reali della Vergine e, sulla destra, gli antenati sacerdotali. Tra di essi si riconoscono il re David con la testa di Golia e Salomone, accompagnato dal figlio e a destra due sacerdoti ebrei, di cui uno è sommo sacerdote. Tale scelta si deve inquadrare nell’idea di Maria come fondamento del nuovo patto tra Dio e l’uomo legandola al popolo ebraico e sottolineandone le nobili origini.
La cappella Chigi è quindi un monumento complesso, sia nel contenuto che nella sua storia costruttiva. Un luogo che ricorda la storia della creazione e della salvezza ma che parla anche della storia personale e familiare del suo committente. Un luogo che è capace di unire, in un contesto unitario, elementi religiosi e profani, emblemi del tempo e della cultura in cui furono ideati e pensati, nella Roma del primo ‘500. Un luogo dove infine due grandi artisti, distanti tra loro un secolo e campioni di due movimenti artistici diversi, furono in grado di dialogare e di mescolarsi, introducendo le novità del proprio tempo nell’opera altrui senza però far perdere ad essa il proprio senso di unità.