DALLA PRESA CRISTIANA DI TOLEDO (1085) ALLA SCONFITTA MUSULMANA DI LAS NAVAS DI TOLOSA (1212)
Nell’articolo precedente abbiamo raccontato la nascita e lo sviluppo di quel fenomeno che gli storici hanno poi battezzato con il termine “Reconquista”, ripercorrendo le vicende della Spagna medievale, a partire dalla fondazione del regno visigoto nel V secolo per poi narrare della conquista e della dominazione musulmana sino al definitivo sgretolamento del Califfato di Cordova nel 1031.

Riprendiamo allora il filo della narrazione tornando alla metà seconda dell’XI secolo, quando sul trono del temporaneamente unificato regno di Castiglia e León sedeva Alfonso VI (1065-1109), figlio e successore di Ferdinando I, protagonista di una serie di brillanti campagne militari al termine delle quali ridusse a suoi tributari i regni di Taifa di Badajoz, Saragozza e Toledo. Ferdinando spirò improvvisamente nel 1065 mentre si preparava a marciare contro la città di Valencia, la cui conquista gli avrebbe permesso di aprirsi uno sbocco sul Mediterraneo. Secondo le sue ultime volontà la corona castigliana andò al figlio maggiore Sancho II il Forte mentre quella leonese al minore, Alfonso VI il Coraggioso.
Quest’ultimo riunificò i possedimenti paterni dopo la morte senza eredi del fratello nel 1072. Gli anni di regno di Alfonso VI furono segnati da un progressivo ripopolamento, specie delle città, e dal prosieguo dell’espansione verso i territori islamici che culminò con la presa di Toledo, avvenuta nel maggio del 1085 dopo un anno di assedio. Si trattò di una conquista di grande importanza non solo strategica ma anche simbolica: da una parte la presa della città consentiva di controllare le vie che conducevano alle fertili pianure della valle del fiume Guadalquivir, dall’altra con Toledo i cristiani rientravano in possesso dell’antica capitale visigota.
Tuttavia la città in cui entrò l’esercito di Alfonso VI era molto diversa rispetto al periodo precedente la conquista musulmana: Gran parte della sua popolazione era infatti composta da ispanici convertiti all’Islam, anche se non mancavano mozarabi ed ebrei. La popolazione cittadina assommava allora circa 37 mila abitanti, un numero considerevole per quei tempi.
Le mire espansionistiche di Alfonso VI non riguardarono solamente i territori islamici ma puntarono anche su quelli cristiani, in particolare la Navarra, dove regnava il cugino del sovrano castigliano, Sancho IV. Quando questi, nel 1076, restò vittima di un complotto ordito dal fratello Raimondo, la Navarra fu invasa dalle forze castigliane e aragonesi. Mentre Alfonso VI occupava lo strategico territorio della Rioja, Sancho Ramirez d’Aragona (1063-1094) venne acclamato sovrano di Navarra con il nome di Sancho V. Nella seconda metà dell’XI secolo, quindi, l’Aragona, che sino a quel momento era rimasta un piccolo territorio ai piedi dei Pirenei, iniziò ad emergere, ampliandosi a spese della taifa musulmana di Saragozza. Nel 1064 Sancho Ramirez, con l’aiuto di cavalieri francesi, si impadronì della fortezza di Barbastro, strategica per il controllo della valle dell’Ebro.

Negli anni successivi caddero altre piazzeforti islamiche come Graus (1083), Monzón (1089) e soprattutto Huesca, catturata nel 1096 dal figlio di Sancho, Pietro I d’Aragona (1094-1104), con l’aiuto di Alfonso VI di Castiglia. A quel punto nulla poteva fermare l’avanzata aragonese verso Saragozza. La città, protetta dalle sue mura romane, resistette per sette mesi, sino a quando nel dicembre 1118 essa si arrese alle truppe di Alfonso I d’Aragona (1104-1134), fratello e successore di Pietro. L’impresa venne vissuta per molti aspetti come una crociata non solo perché fu percepita come una sorta di prolungamento di quanto stava accadendo nel Levante mediterraneo ma anche perché, accanto alla nobiltà aragonese e navarrese, essa vide la partecipazione di numerosi nobili e cavalieri franchi.
Infine gli anni finali dell’XI secolo videro emergere un personaggio destinato nei secoli successivi ad entrare nella leggenda: Rodrigo Diaz de Vivar, meglio noto con il soprannome di “Cid Campeador”, che deriva dall’unione del termine arabo sayyid, che significa “signore” e di quello tardo latino “campidoctor” che stava a indicare un “maestro nell’arte militare”. La vicenda umana di questo personaggio, destinato ad assurgere a simbolo dell”ispanità, rappresenta un buon esempio della complessità dei rapporti esistenti lungo la frontiera che separava il mondo cristiano e quello islamico nella Spagna medievale.

Nato intorno agli anni Quaranta dell’XI secolo, probabilmente a Vivar, non lontano da Burgos, Rodrigo Diaz era un esponente della piccola nobiltà castigliana al servizio di Ferdinando I. Dopo la morte del sovrano continuò a servire lealmente i suoi figli, dapprima Sancho II e poi Alfonso VI. Bandito da quest’ultimo nel 1081, trovò rifugio presso la corte dell’emiro di Saragozza al-Muqtadir, dove ebbe modo di arricchirsi e di accrescere la sua fama di combattente. Nel 1086, a seguito del disastro di al-Zallāqa, Alfonso richiamò presso di sé il Cid ma la tregua tra i due uomini ebbe vita breve: nel 1090 Rodrigo fu nuovamente costretto all’esilio. Si rifugiò allora presso al-Mustaʿīn II, successore del suo vecchio alleato al-Muʿtamid.
Nel 1093 mise sotto assedio Valencia nella quale entrò trionfalmente martedì 15 giugno 1094. Restò alla testa della sua personale signoria sino alla morte, sopraggiunta il 10 luglio 1099, pochi giorni prima della presa di Gerusalemme da parte dei crociati di Goffredo di Buglione. Con il Cid se ne andava uno dei pochi condottieri che aveva saputo opporre una valida resistenza alla nuova minaccia rappresentata dalla dinastia marocchina degli Almoravidi.

Si trattava di un clan di nomadi sahariani, ben diversi dai principi di Al-Andalus: simili nelle abitudini e nel vestiario ai tuareg, essi si rivelarono strenui difensori della purezza della dottrina islamica malikita. Il loro nome deriva dall’arabo al-Murābiṭūn, che indicava i membri delle guarnigioni dei ribāṭ, ossia le fortezze di confine. I deboli sovrani delle Taifa, impossibilitati a resistere all’avanzata cristiana specie dopo la perdita di Toledo, si rivolsero quindi all’emiro Yūsuf ibn Tāshfīn (1061-1104). Questi, rispondendo alle richieste dei propri correligionari spagnoli, mosse in loro soccorso, e dopo avere conquistato Tangeri e Ceuta attraversò lo stretto di Gibilterra alla testa di un esercito: la campagna si concluse con la schiacciante vittoria islamica nella battaglia di al-Zallāqa (Sagrajas), combattuta il 23 ottobre 1086. Yūsuf non riuscì comunque a riconquistare Toledo e rientrò in Africa di lì a poco.
Alfonso, vinto ma non domato, riprese le proprie incursioni provocando un secondo intervento almoravide nel 1090. Yūsuf pose l’assedio alla fortezza di Aledo, nella regione della Murcia, ma dovette ritirarsi di fronte alla notizia che un esercito cristiano stava marciando in soccorso degli assediati.

Contemporaneamente l’emiro, indignato per i rapporti di vassallaggio che sussistevano tra il sovrano cristiano i i principi di Taifa, mosse contro di essi accusandoli di empietà e di tradimento della causa dell’Islam. In capo a pochi anni si impossessò di Siviglia, Badajoz e Lisbona così che a partire dai primi anni del XII secolo Al-Andalus divenne una provincia dell’impero almoravide.
Yūsuf ibn Tāshfīn assunse il titolo di amīr al-muslimīn, ossia di “Comandante dei Credenti” ma questa mossa non si tradusse nella proclamazione di un nuovo califfato. Sappiamo anzi che il potere almoravide venne riconosciuto fin dalla fine dell’XI secolo dai Califfi Abbassidi di Baghdad. Contemporaneamente sul piano bellico si assistette ad un richiamo al Jihad come strumento di legittimazione politica. Questo inevitabilmente comportò una radicalizzazione dell’atteggiamento verso il nemico, individuato innanzitutto nei tradizionali avversari cristiani ma anche, come abbiamo visto nel caso dei re delle Taifa, in quei musulmani giudicati eterodossi.

Con l’avvento degli Almoravidi si assistette quindi ad una ripresa dell’iniziativa da parte delle forze islamiche: nel 1102, tre anni dopo la morte del Cid, Valencia venne riconquistata all’Islam permettendo così ai musulmani di minacciare direttamente l’Aragona e la Catalogna, che subirono a più riprese razzie e saccheggi.
Alla morte di Yūsuf gli succedette il figlio ʿAlī ibn Yūsuf, il quale ingrandì e consolidò l’impero almoravide, devastando le province cristiane di Talavera, Toledo e Madrid senza praticamente incontrare resistenza. Nel 1111 cadevano Santarem, Coimbra ed Evora e nel 1113 Guadalajara venne distrutta. Intanto, nel 1109 Alfonso VI moriva dopo oltre quarant’anni di regno lasciando il trono di Castiglia e León nelle mani della figlia Urraca, vedova di Raimondo di Borgogna e sua erede superstite dopo la morte dell’unico figlio maschio Sancho, caduto nel 1108 nella disastrosa battaglia di Uclés contro gli Almoravidi. Oltre che con i problemi legati alla rinnovata aggressività musulmana, Urraca dovette vedersela con le spinte autonomistiche della Contea del Portogallo, concessa da Alfonso VI al genero Enrico di Borgogna.
La riunificazione di Al-Andalus sotto il nuovo potere almoravide bloccò quindi per alcuni decenni la spinta espansiva dei regni cristiani verso i territori musulmani. Tuttavia gli Almoravidi non erano gli Omayyadi e la struttura di potere da loro creata si rivelò assai più fragile di quella dei loro predecessori. In effetti il potere almoravide era destinato a entrare in crisi già nel periodo immediatamente successivo alla morte dell’emiro ʿAlī ibn Yūsuf, avvenuta nel 1143.

Verso la metà del XII secolo, in Marocco, cominciò a emergere prepotentemente il potere di una nuova dinastia, gli Almohadi. Si trattava di una confederazione di tribù berbere che aveva appoggiato la riforma religiosa propugnata dall’autoproclamato Mahdi Muhammad ibn Tūmart.
Il loro nome in arabo, al-Muwaḥḥidūn, ovvero “gli unitari”, si richiamava infatti all’impegno di restaurare la fede islamica secondo un modello di puritanesimo e di attivismo militare che si richiamava direttamente al Profeta Muhammad e ai primi quattro Califfi. Partiti dalla loro base di Tinmel, nell’Atlante marocchino, essi conquistarono rapidamente l’intero Maghreb, impadronendosi dei centri di Fez, Tlemcen e infine, nel 1147, di Marrakech, ponendo in questo modo termine al potere almoravide con l’uccisione dell’ultimo esponente della dinastia, l’emiro Ishāq ibn ‘Alī.
Negli stessi anni in cui l’autorità almoravide andava progressivamente disgregandosi, in campo cristiano nuovi equilibri di potere andavano definendosi tra le monarchie iberiche. La prima, importante, trasformazione riguardò l’unione dei destini del Regno d’Aragona con la Contea di Barcellona, avvenuta nel 1137 per mezzo dell’unione tra il Conte Ramon Berenguer IV e Petronilla d’Aragona.

Due realtà così diverse come la Catalogna, mercantile e marinara, e l’Aragona, montanara e guerriera, si fusero con reciproco vantaggio. Da una parte l’Aragona ottenne il controllo di una serie di grandi porti, aprendosi al Mediterraneo, mentre dall’altra la Catalogna si guadagnò il sostegno militare da parte della nobiltà aragonese, grazie al quale Ramon Berenguer poté impadronirsi di Tortosa (1148) e di Lleida (1148).
L’altro importante mutamento nella geografia politica dei regni cristiani fu invece senza dubbio costituito dalla nascita del regno portoghese, sorto a partire dalla contea portucalense (dal latino Portucalia, ossia “terra dei porti”), comprendente i territori strappati ai musulmani situati tra i fiumi Duero e Mondego, concessa da Alfonso VI a suo genero Enrico di Borgogna (1093-1112). Quest’ultimo, in un periodo di generale rafforzamento delle aristocrazie regionali, riuscì a guadagnare l’appoggio del clero lusitano, avverso al vescovo di Santiago, oltre che della piccola nobiltà, ostile all’egemonia dei grandi signori galiziani. La sua eredità fu raccolta dal figlio Alfonso Henriques (1109-1185), il quale, una volta estromessa dal potere la madre Teresa di León (1128), diede seguito ai propositi autonomistici del padre: forte del trionfo conseguito contro i mori alla battaglia di Ourique, combattuta il 25 luglio 1139, Alfonso si proclamò primo Re del Portogallo.

Nel marzo del 1147 i portoghesi presero Santarem e agli inizi di luglio diedero inizio all’assedio di Lisbona, sostenuti da un massiccio contingente di 11 mila crociati inglesi, tedeschi e fiamminghi, originariamente diretti in Terrasanta ma costretti ad attraccare a Porto a causa di una burrasca. Grazie alle macchine da lancio e alle torri mobili fornite da tedeschi e inglesi, l’esercito cristiano poté investire le mura di Lisbona, che cadde il 24 ottobre.
I successi portoghesi e catalano-aragonesi indussero gli Almohadi a intervenire militarmente nella penisola iberica. Con una fulminea avanzata l’emiro ‘Abd al-Mu’min (1147-1163) si impadronì delle ultime roccaforti almoravidi in terra spagnola: Murcia, Granada, Siviglia e Malaga. Poi, nel 1157, fu la volta di Almeria, conquistata un decennio prima dal sovrano castigliano Alfonso VII. Mentre il potere islamico si consolidava con la proclamazione del nuovo Califfato almohade, a partire dal 1157, a seguito della morte di Alfonso VII si apriva per i regni cristiani un periodo di instabilità causata dalla nuova divisione tra le corone di Castiglia e Leon, assegnate rispettivamente ai suoi figli Sancho III e Ferdinando II.
A complicare ulteriormente le cose, l’anno successivo in seguito alla prematura scomparsa di Sancho divenne Re suo figlio, Alfonso VIII, un bimbetto di appena tre anni. La minore età del monarca scatenò la prevedibile rissa per la reggenza tra le famiglie magnatizie del regno, in particolare i de Lara e i de Castro. Tutto questo ovviamente comportò un lungo stop alle operazioni militari contro gli Almohadi, che infatti per tutta la seconda metà del XII secolo condussero ripetute offensive, favorite dall’atteggiamento dei vari regni cristiani, che, come già abbiamo detto precedentemente, erano fra loro divisi da forti rivalità e diffidenze reciproche e dunque incapaci di costituire un fronte comune contro le aggressioni islamiche.

Non deve quindi stupire il fatto che, per esempio, nel 1168 Ferdinando II di Leon avesse stretto un accordo con gli Almohadi in funzione anti portoghese. Tuttavia, anche quando riuscivano faticosamente a federarsi contro i musulmani, spesso la tutela dei propri interessi particolari da parte dei partner della coalizione era tale da condurre ugualmente al disastro come avvenne il 18 luglio 1195 nella piana di Alarcos quando Alfonso VIII di Castiglia ingaggiò battaglia contro i mori senza aspettare l’arrivo sul campo dei rinforzi leonesi e navarresi, probabilmente con la speranza di conseguire un successo personale senza doverne dividere il merito con gli alleati.
Il risultato fu una clamorosa disfatta pagata con 30 mila perdite e il rischio di una possibilità riconquista musulmana di Toledo, che infatti fu attaccata nel 1197. I musulmani però, resisi conto dell’impossibilità di conquistare la città, si ritirarono presto non prima però di avere saccheggiato i dintorni.
Viste le circostanze Alfonso VIII non poté che ricorrere alla diplomazia concludendo una tregua con il Califfo Abū Yūsuf Yaʿqūb al-Manṣūr (1163-1199). Non ci sono noti i termini di questo accordo anche se esso consenti ai castigliani di concentrare le proprie forze per terminare la guerra contro il Regno di León. A sua volta libero dalla minaccia cristiana, il quarto Califfo almohade Muhammad al-Nasir potè occuparsi della conquista delle Isole Baleari, dove regnava la dinastia dei Banū Ghāniya, discendenti degli Almoravidi.

Intanto, con la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, anche grazie alla mediazione papale, i regni cristiani parvero ritrovare una parvenza di unità per quanto ancora nel 1211 il sovrano di León Alfonso IX avesse stipulato un patto con gli Almohadi contro il proprio omonimo cugino castigliano. Quello stesso anno, allo scadere della tregua stipulata con Alfonso VIII, i musulmani si spinsero nuovamente verso nord conquistando la strategica fortezza di confine di Salvatierra, tenuta dai cavalieri dell’Ordine di Calatrava, fondato nel 1158 a difesa dei territori cristiani contro le incursioni saracene. L’evento suscitò grande impressione e spinse Alfonso VIII a richiedere a Papa Innocenzo III la predicazione di una crociata.

All’inizio di aprile del 1212 il Pontefice fece pervenire ai vescovi di Toledo e Santiago un documento nel qual esortava alla concordia i monarchi cristiani ricordando la necessità di far fronte comune contro i nemici della Croce. Le forze della coalizione cristiana si radunarono a Toledo per la Pentecoste del 1212: accanto agli eserciti riuniti di Alfonso VIII di Castiglia e Pietro II d’Aragona erano presenti numerosi cavalieri crociati francesi raccolti dai vescovi di Narbona, Nantes e Bordeaux. A costoro bisogna sommare i combattenti baschi, comandati da Sancho VII di Navarra, che si era impegnato a raggiungere i crociati a campagna già iniziata, e quelli lusitani inviati da Alfonso II del Portogallo. Soltanto il sovrano leonese Alfonso IX scelse di restare neutrale e non partecipare alla crociata contro i mori. Secondo le cronache coeve l’esercito cristiano riunito ammontava a “2 mila cavalieri con i loro scudieri, 10 mila loro servi a cavallo e altri 50 mila a piedi”, cifre che appaiono senza dubbio esagerate. Oggi si tende a ridimensionare le forze cristiane attribuendo loro una consistenza più realistica di 12 mila combattenti, di cui 4 mila a cavallo e 8 mila a piedi. Parimenti è da considerare irrealistica la cifra di 120 mila soldati attribuita all’esercito califfale. Con ogni probabilità Muhammad al-Nasir disponeva di circa 25 mila guerrieri, un numero tale, comunque, da garantirgli una schiacciante superiorità numerica sugli avversari cristiani.
Il 20 giugno 1212 l’armata si mise in marcia. Alfonso VIII era deciso a dare battaglia e giocarsi il tutto per tutto in uno scontro decisivo. Negli stessi giorni, a partire dal 22 giugno, anche l’esercito almohade, guidato dallo stesso Califfo Muhammad al-Nasir, lasciò Siviglia per andare incontro ai cristiani. Il 24 giugno si registrò il primo successo della campagna con la conquista della fortezza moresca di Malagón da parte dei cavalieri francesi, che non si fecero scrupolo di sterminare completamente la guarnigione locale. A quel punto l’esercito crociato riprese la propria marcia verso meridione giungendo alla fine del mese di giugno di fronte a Calatrava. Questa volta i difensori saraceni preferirono arrendersi senza combattere e consegnare la città ai soldati di Alfonso VIII, che in cambio garantì loro la vita e la libertà. Nonostante l’inizio promettente della crociata il 3 luglio la maggior parte dei crociati francesi disertò a causa dei dissapori sorti con il Re di Castiglia a proposito del massacro dei difensori di Malagón. Inoltre i crociati ultrapirenaici era già duramente provati dal clima torrido della Spagna meridionale, al quale non erano per nulla abituati. Soltanto 130 cavalieri francesi, al comando del vescovo Arnoldo di Narbona, scelsero di restare nei ranghi dell’armata.

Le defezioni dei crociati stranieri non distolsero Alfonso dal proseguimento della campagna. Il Re marciò quindi su Alarcos, impadronendosene, per poi aprirsi la strada verso la catena montuosa della Sierra Morena, oltre la quale si estendeva la fertile valle del fiume Guadalquivir. Alfonso attraversò le montagne il 13 luglio 1212 attraverso il passo di Muradel dopo avere superato lo sbarramento costituito dal castello saraceno di Ferral, difeso da 2 mila soldati. A quel punto al di là del valico, al termine di una stretta gola Muhammad al-Nasir attendeva i nemici cristiani accampato con la sua armata nella pianura ai piedi della Sierra. Fu allora che grazie alle indicazioni di Martín Alhaja, un semplice pastore che conosceva bene la zona, Alfonso di Castiglia e il suo esercito imboccarono un sentiero seminascosto che consentì loro di attraversare le montagne aggirando le posizioni dell’esercito moresco.
Il 16 luglio 1212 L’esercito crociato si preparò allo scontro: Alfonso VIII pose sulla destra le truppe portoghesi e basche, a sinistra quelle aragonesi e catalane mentre lui rimase al centro con i suoi soldati e i contingenti degli ordini militari. Nonostante la loro inferiorità numerica furono proprio i cristiani ad attaccare per primi.

A mezzogiorno il centro dello schieramento musulmano iniziò a cedere mentre Sancho VII di Navarra alla testa dei combattenti baschi attuò una manovra aggirante sul fianco destro dello schieramento musulmano, dov’erano schierati i guerrieri berberi. Costoro tuttavia formavano una cavalleria leggera del tutto inadatta a resistere all’urto con quella europea, pesantemente corazzata e infatti vennero rapidamente volti in fuga.
Il centro almohade, rimasto scoperto, si trovò esposto alla carica delle forze cristiane. A quel punto il Califfo al-Nasir, vistosi perduto, piantò in asso i propri uomini fuggendo in direzione di Siviglia. Rimasto senza una guida, il suo esercito si sbandò definitivamente. Solamente la guardia nubiana del Califfo continuò a resistere a difesa dell’accampamento sino a quando non fu definitivamente sopraffatta.
La battaglia di Las Navas de Tolosa, il più grande scontro tra cristiani e musulmani che si fosse mai visto nella Penisola Iberica era terminato con la schiacciante vittoria crociata. La battaglia costituì un punto di svolta nel secolare processo della Reconquista. Mentre iniziava il declino inesorabile della potenza almohade, ai cristiani si apriva ora la strada verso la valle del fiume Guadalquivir, alla conquista dei territori ancora sotto il controllo saraceno.
Bibliografia:
- A. Vanoli, La Reconquista
- A. Frediani, Le grandi battaglie del Medioevo
- G. Staffa, I grandi condottieri del Medioevo
- J. Riley-Smith, Storia delle crociate – Dalla predicazione di Urbano II alla caduta di Costantinopoli