Arrivano i bersaglieri!

DALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA ALLA BRECCIA DI PORTA PIA: I FATTI CHE PORTARONO A ROMA CAPITALE D’ITALIA

Esattamente centocinquanta anni fa, martedì 20 settembre 1870, le truppe italiane entravano a Roma. Con l’annessione della Città Eterna e la sua elevazione a capitale del Regno, si chiudeva il processo risorgimentale, attraverso il quale, nel giro di pochi anni, l’Italia passò dalla condizione di “mera espressione geografica” secondo la definizione del cancelliere austriaco Metternich, a quella di Nazione unita e indipendente. Ma quali furono le tappe che “portarono l’Italia a Roma”? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un ulteriore balzo indietro nel tempo di dieci anni rispetto al nostro punto di partenza, per tornare all’ottobre del 1860. Mancavano in quel momento solamente cinque mesi alla fatidica data del 17 marzo 1861, giorno in cui venne proclamata la nascita del Regno d’Italia sotto la corona di Vittorio Emanuele II di Savoia, sovrano “per grazia di Dio e volontà della Nazione”.

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La proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861.

Dopo avere inglobato l’anno precedente la Lombardia austriaca, i ducati di Modena e Parma e le legazioni pontificie in Emilia-Romagna, oltre al Granducato di Toscana, nell’autunno del 1860 il Regno di Sardegna si preparava ad accogliere anche le ex province del Regno borbonico delle Due Sicilie, a seguito del felice esito della spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. L’11 ottobre, nel corso di un intervento di fronte al Parlamento subalpino, il Conte Camillo di Cavour, Presidente del Consiglio dei Ministri dichiarò “La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico”. Appare chiaro quindi, come lo status di Capitale d’Italia conferito a Torino al momento della proclamazione dell’Unità fosse da considerarsi provvisorio.

Camillo Benso di Cavour (1810-1861), Primo ministro sabaudo e principale artefice dell’Unità nazionale.

Fin dalle settimane immediatamente precedenti la proclamazione dell’Unità Cavour, basandosi sul suo celebre principio di “libera Chiesa in libero Stato”, aveva intavolato trattative segrete con il Vaticano nel tentativo di giungere ad una soluzione di compromesso volta ad assicurare piena libertà in campo spirituale alla Chiesa previa rinuncia da parte di quest’ultima al potere temporale su Roma e su quanto restava dello Stato Pontificio. Purtroppo i piani di Cavour vennero tragicamente interrotti dalla sua prematura e improvvisa scomparsa: la morte lo colse non ancora cinquantunenne il 6 giugno 1861 a Torino, privando in questo modo il neonato stato italiano di uno dei suoi principali “padri fondatori”. Cavour lasciava ai suoi successori un’eredità imponente in termini di problemi: dall’integrazione politica, economica e amministrativa del Paese sino al completamento dell’Unità da realizzarsi attraverso l’annessione del Triveneto (tuttora in mano austriaca) e ovviamente di Roma.

Pio IX, Papa della Chiesa Cattolica tra il 1846 e il 1878.

La politica cavouriana nei confronti del Vaticano venne portata avanti dai suoi successori, ma le trattative si arenarono a causa dell’inflessibilità del Pontefice Pio IX. Occorre dunque approfondire la conoscenza di questo Papa, controverso protagonista di questa nostra storia e in generale dell’intero Risorgimento. Quella di Pio IX è una figura che non ha mancato di suscitare critiche e polemiche ancora una ventina d’anni fa, quando fu proclamato beato da Giovanni Paolo II.

Pio IX (al secolo Giovanni Maria Mastai-Ferretti) fu eletto come 255° Papa della Chiesa Cattolica e Vescovo di Roma il 16 giugno 1846. La sua elezione suscitò grandi entusiasmi tra quanti auspicavano un cambiamento nella politica papale dopo i quindici anni di regno del reazionario Gregorio XVI (r. 1831-1846). In effetti fin dai tempi in cui era stato vescovo di Spoleto e di Imola, Papa Mastai-Ferretti era stato considerato un liberale. Una volta issatosi sul Trono di Pietro il nuovo pontefice parve confermare le aspettative attraverso la concessione dapprima di un’amnistia e poi di una moderata libertà di stampa. Nel biennio successivo furono realizzate altre riforme tra cui la creazione di un organismo rappresentativo, la Consulta di Stato, e di una guardia civica. A questi provvedimenti fecero seguito, nel 1848, la concessione di uno Statuto (14 marzo) e l’abbattimento delle mura del ghetto ebraico di Roma, avvenuto il 17 aprile successivo, alla vigilia della Pasqua ebraica. Alla luce delle decisioni assunte nei primi due anni di pontificato, Pio IX apparve agli occhi di numerosi cattolici come il “Papa patriota” in grado di dare seguito alla soluzione “neoguelfa” teorizzata dall’abate piemontese Vincenzo Gioberti nella sua opera più celebre intitolata “Del primato morale e civile degli italiani”, pubblicata nel 1843. Tuttavia gli eventi che a partire dalla primavera del 1848 avrebbero agitato l’Italia e l’Europa svelarono come questa convinzione doveva dimostrarsi del tutto illusoria.

Pio IX benedice i soldati pontifici in partenza per la prima guerra d’indipendenza italiana nel 1848.

Dopo avere acconsentito, sotto pressione del popolo, all’invio di un corpo di spedizione a sostegno dell’esercito sabaudo impegnato contro gli austriaci nel Lombardo-Veneto, il 29 aprile successivo Pio IX fece un clamoroso dietrofront pronunciando la famosa allocuzione “Non semel” nella quale condannava la guerra contro l’Austria, richiamando le truppe dal fronte. Mentre l’ipotesi neoguelfa tramontava definitivamente, a Roma la situazione precipitò sino a quando, la mattina del 15 novembre 1848, un gruppo di rivoluzionari, rimasti ignoti, pugnalò a morte il ministro dell’interno pontificio, Conte Pellegrino Rossi, mentre questi si trovava sulla scalinata del Palazzo della Cancelleria. Pio IX, giudicando non più sicuro per la propria incolumità restare a Roma, la sera del 24 novembre lasciò l’Urbe per recarsi a Gaeta sotto la protezione di Re Ferdinando II di Borbone. In assenza del Papa dentro la Città Eterna si costituì un governo provvisorio che, di fronte al netto rifiuto del Pontefice di scendere a patti con i sudditi ribelli, il 9 febbraio 1849 proclamò la nascita della Repubblica Romana.

File:Rossetti - Proclamazione della Repubblica Romana, nel 1849, in Piazza del Popolo - 1861.jpg
La proclamazione della Repubblica Romana il 9 febbraio 1849 in Piazza del Popolo.

Dal suo rifugio Pio IX si appellò ai governi delle potenze cattoliche affinché si adoperassero per restaurarne il potere temporale. Desideroso di accattivarsi il consenso dei cattolici francesi, il neo Presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte (il futuro Napoleone III) inviò un corpo di spedizione che stroncò la resistenza militare della Repubblica Romana, difesa accanitamente da numerosi patrioti fra i quali figuravano Goffredo Mameli, autore dell’inno nazionale “Fratelli d’Italia”, e Giuseppe Garibaldi, da poco rientrato dall’esilio latinoamericano. Una volta tornato a Roma, Pio IX mise nel cassetto qualunque ipotesi riformatrice assumendo un atteggiamento reazionario e intransigente, specialmente per quanto riguardava la difesa del potere temporale, giudicato dal Papa come indispensabile per poter esercitare liberamente il magistero della Chiesa al riparo da qualunque intromissione statale. In seguito alla proclamazione dello Stato italiano unitario Pio IX assunse un atteggiamento di contrapposizione frontale che assunse un tono di crociata nei confronti della modernità nel suo complesso nel 1864 con la pubblicazione del Sillabo, nel quale il Pontefice giunse a condannare come eresie il liberalismo, il socialismo, la sovranità popolare e la laicità dello stato.

Giuseppe Garibaldi (1807-1882), conosciuto come l’Eroe dei Due Mondi. Dopo la difesa della Repubblica Romana cercò di conquistare Roma nel 1862 e nel 1867.

L’atteggiamento di sorda chiusura del Papa determinò dunque il fallimento delle trattative intavolate dal Governo. La situazione di stallo ridiede quindi fiato all’iniziativa dei democratici, da sempre sostenitori della “guerra di popolo” come mezzo per giungere all’agognato completamento dell’Unità nazionale. Così nel giugno del 1862, mentre lo Stato italiano era impegnato nella fase più acuta della repressione del brigantaggio meridionale, Garibaldi salpò dalla “sua” isola di Caprera diretto nuovamente in Sicilia. Lo scopo della missione era raccogliere volontari sull’isola e poi marciare su Roma in una sorta di “revival” della Spedizione dei Mille di due anni prima. L’azione avrebbe messo ancora una volta le potenze europee di fronte al fatto compiuto, costringendole ad accettare l’annessione italiana di Roma. Poco prima della partenza il Generale aveva ottenuto l’appoggio sottobanco del Re Vittorio Emanuele II, il quale in effetti tendeva a portare avanti una propria politica alle spalle (e spesso e volentieri in disaccordo) con quella dei suoi Ministri. Dopo avere raccolto 2 mila volontari al grido di “O Roma o morte” (uno slogan destinato a riecheggiare anche in altre, e ben più drammatiche, circostanze della storia nazionale) Garibaldi, il 25 agosto attraversò lo Stretto di Messina sbarcando in Calabria.

Tuttavia ben presto il Re e il suo Primo Ministro, Urbano Rattazzi, dovettero ricredersi circa la possibilità di replicare l’impresa di due anni prima. Rispetto al 1860 le circostanze della marcia dei garibaldini erano del tutto diverse: se infatti la caduta del regno delle Due Sicilie poteva essere imputata allo sviluppo di una rivolta scoppiata in Sicilia (quindi all’interno dello stato borbonico), l’attacco contro Roma sarebbe stato giudicato un’aggressione italiana. Inoltre in questo caso l’Italia non avrebbe potuto contare sull’appoggio del suo principale alleato, vale a dire Napoleone III, il quale fece chiaramente intendere al governo di Torino che non avrebbe tollerato alcuna azione militare contro lo Stato Pontificio. A Roma del resto, fin dai tempi della repressione della Repubblica Romana, era schierato un corpo di spedizione francese a dimostrazione della volontà dell’Imperatore di presentarsi agli occhi dei cattolici francesi come il protettore del potere papale.

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I garibaldini trasportano Garibaldi ferito sull’Aspromonte il 29 agosto 1862.

Per questi motivi il Governo Rattazzi decise di reagire energicamente all’avanzata garibaldina. Il 12 agosto prefetto di Palermo, Giorgio Pallavicino, venne subito destituito per non avere preso alcun provvedimento dopo che Garibaldi il 15 luglio aveva pronunciato nel capoluogo siculo un infuocato discorso nel quale attaccava violentemente Napoleone III auspicando la liberazione di Roma. Contemporaneamente Vittorio Emanuele sconfessò pubblicamente l’operato del Generale nizzardo e il 15 agosto firmò un provvedimento che decretava lo stato d’assedio in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno continentale.

All’alba del 25 agosto 1862 le camicie rosse sbarcarono tra Melito e Capo dell’Armi, pressappoco nello stesso punto in cui due anni prima avevano preso terra i Mille, e si incamminarono verso Reggio. Al primo reparto regolare che incontrarono essi sventolarono i berretti in segno di saluto e per tutta risposta ricevettero una scarica di fucileria. Tutti rimasero comprensibilmente attoniti, a cominciare da Garibaldi che tuttavia ordinò di non rispondere al fuoco e di ripiegare verso l’interno, ossia verso il massiccio dell’Aspromonte. La ritirata, avvenuta in condizioni durissime, si concluse il 29 agosto, quando i garibaldini, ormai ridotti dalle diserzioni a cinquecento uomini soltanto, vennero attaccati da un reparto di bersaglieri comandato dal tenente Emilio Pallavicini. Garibaldi allora andò incontro agli assalitori e quelli per tutta risposta gli spararono addosso ferendolo alla coscia e al malleolo. Ne seguì una breve mischia fra garibaldini e bersaglieri che lasciò sul terreno 12 morti e una quarantina di feriti. Il Generale fu disarmato e tratto in arresto venendo successivamente rinchiuso nel forte di Varignano, presso La Spezia. Garibaldi e i suoi volontari tornarono in libertà il 3 ottobre successivo in occasione dell’amnistia deliberata in seguito al matrimonio della Principessa Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II. Tuttavia occorre segnalare che alcuni garibaldini fatti prigionieri vennero riconosciuti come disertori dall’esercito regolare e successivamente fucilati senza processo.

Stampa anticlericale sulla questione romana: Garibaldi e Vittorio Emanuele sparano a pipistrelli “clericali”, Napoleone III, nelle vesti di un gendarme, difende Pio IX mentre due inglesi in tenuta da caccia esclamano: “Lasciate che Vittorio faccia quel bel tiro e siamo più che contenti”.

Alla fine di novembre Rattazzi, attaccato violentemente tanto da destra quanto da sinistra fu costretto a dimettersi. Dopo i due brevi ministeri retti dai romagnoli Farini e Minghetti, il Re affidò l’incarico di formare il nuovo esecutivo al Generale Alfonso La Marmora. Fra i tanti guai che i successori di Rattazzi si trovarono ad affrontare spiccavano senza dubbio per gravità quello del brigantaggio ma soprattutto quello di Roma, aggravato dall’avventura garibaldina dell’Aspromonte, che seguitava a spaccare l’opinione pubblica. Per tutto il 1863 Minghetti e il suo Ministro degli Esteri, Emilio Visconti-Venosta, tramite dell’ambasciatore italiano a Parigi Costantino Nigra, cercarono di indurre Napoleone III a ritirare il presidio francese da Roma ma senza risultato. La situazione si sbloccò nell’aprile del 1864 grazie all’intervento del nostro ambasciatore in Russia Gioacchino Pepoli, cugino di Napoleone III (era nipote di Carolina Bonaparte-Murat, zia di Luigi Napoleone). Il 15 settembre 1864 venne dunque firmata la convenzione italo-francese che dal mese in cui fu stipulata fu detta “di settembre”. Essa constava di cinque articoli secondo i quali l’Italia rinunciava a qualunque atto di ostilità contro lo Stato Pontificio mentre la Francia avrebbe ritirato le proprie truppe via via che il Papa le avesse rimpiazzate con un esercito composto da volontari italiani e stranieri e comunque entro due anni. Questi impegni sarebbero entrati in vigore dal momento in cui il nostro Governo avesse decretato lo spostamento della Capitale, operazione da effettuare entro sei mesi.

I tumulti scoppiati tra il 21 e il 22 settembre 1864 a Piazza San Carlo a Torino in seguito all’annuncio dello spostamento della Capitale a Firenze.

La scelta della nuova Capitale, dopo avere scartato Napoli, cadde su Firenze, che dal punto di vista strategico era la più qualificata per via della sua posizione centrale e per la protezione offerta dagli Appennini. Appena la notizia del trasferimento divenne di dominio pubblico i torinesi scesero in piazza inferociti. I tumulti scoppiati tra il 21 e il 22 settembre 1864 tra Piazza San Carlo e Piazza Castello e la repressione che li seguì furono violenti e costarono 50 morti e un centinaio di feriti. Per questo motivo Vittorio Emanuele costrinse il ministero Minghetti alle dimissioni e lo sostituì con La Marmora, a capo di un governo nel quale non figuravano ministri toscani.

Il problema di Roma riemerse prepotentemente nel 1867. Garibaldi, allora sessantenne, si trovava al culmine della sua fama militare, visto che alla testa dei suoi volontari, il 21 luglio 1886 a Bezzecca (TN), aveva colto l’unica vittoria italiana della guerra per Venezia combattuta l’anno precedente. A differenza dei garibaldini le forze regolari del Regno d’Italia, alleato in quell’occasione con la Prussia di Bismarck, erano invece state sconfitte sia per terra a Custoza che per mare a Lissa. Tuttavia grazie alla vittoria prussiana l’Italia ottenne ugualmente la ricompensa promessa, vale a dire il Veneto, anche se a condizioni decisamente umilianti. L’Austria infatti, non volendo cedere la sua provincia italiana ad un avversario più volte battuto, la cedette a Napoleone III, che la “girò” all’Italia.

iuseppe Garibaldi (in basso, ferito in carrozza) riordina le sue truppe per l’offensiva finale nella battaglia di Bezzecca (21 luglio 1866).

Rinfrancato dai successi della terza guerra d’indipendenza l’Eroe dei Due Mondi si presentò come candidato alla Camera dei Deputati per le elezioni che si sarebbero tenute nella primavera del 1867. Nei suoi comizi Garibaldi lanciò dure invettive contro la Chiesa definita di volta in volta “pestilenziale istituzione”, “nido di vipere”, “negazione di Dio”, ricevendo in ogni occasione scroscianti applausi. Per quanto cercasse di tranquillizzare l’ambasciatore francese derubricando gli attacchi contro il Vaticano di Garibaldi a semplici intemperanze verbali, in realtà il Presidente del Consiglio Urbano Rattazzi era al corrente che quelle del Generale non erano soltanto parole. Garibaldi in effetti aveva già costituito tramite suoi agenti un “Centro d’insurrezione” entro Roma il cui programma era chiaro già nel nome. In effetti, dopo la firma della Convenzione di settembre che obbligava l’Italia ad astenersi da azioni aggressive contro lo Stato Pontificio, non vi era altro modo per risolvere la “questione romana” senza provocare l’intervento francese se non indurre gli stessi sudditi papalini a ribellarsi contro Pio IX.

Ancora una volta Rattazzi ed il Re miravano a servirsi di Garibaldi sull’esempio di quanto già attuato da Cavour al tempo della Spedizione dei Mille nel 1860. Dopo avere radunato circa 8 mila volontari tra Terni e Orvieto, Garibaldi nell’estate del 1867 impartì loro l’ordine di iniziare l’avanzata in territorio pontificio suddivisi in tre colonne al comando di suo figlio Menotti, di Giovanni Acerbi e di Giovanni Nicotera. Tuttavia, mentre si preparava a scendere verso la frontiera pontificia, il 24 settembre Garibaldi venne arrestato a Sinalunga e condotto a Caprera, dalla quale tuttavia fuggì rocambolescamente il 14 ottobre eludendo il blocco attuato dalla Regia Marina. Garibaldi, pur inseguito da un mandato di cattura, raggiunse Livorno e da lì, grazie a un treno speciale messogli a disposizione dalle ferrovie italiane, si congiunse con i suoi volontari a Passo Corese il 23 ottobre.

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Fotografia dell’esecuzione di Monti e Tognetti in via dei Cerchi nel 1868. I due patrioti avevano cercato di indurre i concittadini alla ribellione con un attentato alla Caserma Serristori.

La campagna del 1867 era tuttavia cominciata male. Il 22 ottobre i patrioti romani Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti fecero esplodere due barili di polvere da sparo contro la caserma Serristori, causando la morte di venticinque Zuavi pontifici e due civili. Il gesto avrebbe dovuto essere la scintilla dell’insurrezione ma i romani non si mossero. Individuati dalla polizia papalina, Monti e Tognetti vennero processati e condannati a morte e giustiziati sulla ghigliottina nel novembre del 1868. Andò male anche all’agente garibaldino Francesco Cucchi, il quale, penetrato entro Roma clandestinamente, non trovò aiuto per impadronirsi con un colpo di mano del Campidoglio e fu costretto a fuggire dall’Urbe. Un altro inviato di Garibaldi, Giuseppe Guerzoni, che avrebbe dovuto recapitare ai patrioti romani un carico d’armi, trovò ad attenderlo a Porta San Paolo gli Zuavi del Papa. Contemporaneamente, alla (falsa) notizia dell’insurrezione, i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, al comando di un drappello di una settantina di uomini, si misero in marcia verso Roma, giungendo nella zona di Ponte Milvio la sera del 22 ottobre. Compreso che la rivolta era fallita, il gruppo si attestò nei pressi di Villa Glori dove il 23 vennero attaccati da trecento carabinieri pontifici. Nel combattimento che ne derivò Enrico Cairoli cadde ucciso mentre suo fratello Giovanni sarebbe spirato due anni dopo a seguito delle ferite riportate nello scontro.

La morte di Enrico Cairoli a Villa Glori in un dipinto di Gerolamo Induno.

Invano Garibaldi fece accendere dei fuochi sul Monte Sacro per segnalare il suo arrivo. I romani, tuttavia, informati dello sbarco del corpo di spedizione inviato da Napoleone III avvenuto il 26 ottobre, si guardarono bene dal sollevarsi. Il Generale, le cui forze erano ormai sfoltite dalle diserzioni, decise di ripiegare su Tivoli per tenersi aperta una via di ritirata verso l’Appennino. Tuttavia, a causa della disorganizzazione e della lentezza della marcia, il 3 novembre i garibaldini vennero intercettati dalle truppe franco-pontificie a Mentana. In inferiorità numerica e sostanzialmente privi di cavalleria e artiglieria i garibaldini attaccarono gagliardamente alla baionetta scompaginando le forze pontificie ma dovettero soccombere di fronte alla potenza di fuoco dei nuovi fucili Chassepot francesi a retrocarica.

I garibaldini affrontano l’esercito papalino a Mentana (3 novembre 1867).

Il fallimento della campagna garibaldina del 1867 costituì un grave scacco per l’Italia, che con questa palese violazione di tutte le clausole della convenzione di settembre si era giocata ogni credibilità come forza d’ordine. Ora i francesi erano di nuovo a Roma e non erano più disposti a ritirarsi. Il ministro francese Rouher affermò di fronte al parlamento “Noi dichiariamo in nome del governo francese che l’Italia non si impadronirà mai di Roma!” ricevendo in risposta scroscianti applausi.

Nel corso del 1868 e del 1869 il governo italiano chiese a quello francese il ripristino della convenzione di settembre ma Napoleone III e i suoi ministri non ne vollero nemmeno sentir parlare. La situazione mutò nell’estate del 1870: cadendo nel tranello diplomatico di Bismarck, il 19 luglio la Francia dichiarò guerra alla Prussia. Nonostante la fama d’efficienza dell’esercito napoleonico, sin dalle prime settimane del conflitto si palesarono tutte le difficoltà delle armi francesi di fronte alla potenza prussiana. Napoleone III cercò allora l’appoggio italiano e come gesto di buona volontà ritirò il presidio a difesa del Papa come fin lì si era sempre rifiutato di fare. Fino alla fine di agosto l’Italia esitò sull’opportunità di schierarsi o meno a fianco di Napoleone III. Poi, via via che la sconfitta francese andava delineandosi, crebbero le agitazioni per una azione su Roma. Tuttavia il governo non abbandonò la sua posizione attendista fino al 3 settembre 1870 quando giunse la notizia che Napoleone era stato sconfitto e preso prigioniero dai tedeschi a Sedan. Il 5, quando si seppe che a Parigi era stata proclamata la repubblica, a Firenze si decise finalmente di procedere all’occupazione dello Stato Pontificio.

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Il Generale Raffaele Cadorna (1815-1897), che comandò il corpo di spedizione contro lo stato pontificio.

Il governo iniziò a concentrare truppe alla frontiera ma prima di procedere all’invasione inviò a Pio IX una lettera personale di Vittorio Emanuele II di cui fu latore il Conte Ponza di San Martino. Nella missiva il Re supplicava il Papa “con affetto di figlio e fede di cattolico” di non opporre un’inutile resistenza. Ponza di San Martino giunse in città il 10 settembre, pochi giorni dopo la chiusura del Concilio Vaticano I, nel corso del quale era stato sancito il dogma dell’infallibilità pontificia. Dopo avere letto il messaggio di Vittorio Emanuele Pio IX dichiarò “Non sono profeta, né figlio di profeta, ma vi assicuro che a Roma non entrerete!”.

Intanto, lo stesso giorno in cui il Conte Ponza di San Martino giungeva a Rom, il corpo di spedizione italiano, forte di 50 mila soldati, varcò il confine al comando del Generale Raffaele Cadorna un cattolico devoto, diviso tra l’alto onore del comando attribuitogli e lo sgomento per l’offesa alla Chiesa. Nonostante il suo disprezzo per i garibaldini il ministro della guerra gli aveva imposto di accettarne due come ufficiali subalterni, Nino Bixio ed Enrico Cosenz.

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Zuavi pontifici in Piazza San Pietro. Questo corpo volontario multinazionale fondato nel 1860 partecipò alla difesa di Roma il 20 settembre 1870.

Dopo una marcia di avvicinamento passando per Orte e Civita Castellana, il 17 settembre gli italiani giunsero di fronte alle mura dell’Urbe. A difesa di Roma si trovavano 13.157 soldati e 1.206 cavalli al comando del generale tedesco Hermann Kanzler. Metà di essi erano italiani, l’altra composta da uomini delle più varie nazionalità: 3 mila francesi, 700 belgi, 900 olandesi, 1.200 austro-tedeschi, 1.000 svizzeri e 300 canadesi. Non mancavano tuttavia spagnoli, portoghesi, inglesi, russi, americani e persino 3 turchi, 4 tunisini, un marocchino e un indigeno della Nuova Zelanda! Si trattava di un esercito composto interamente di volontari che, contrariamente a quanto affermato sovente dalla propaganda nazionalista italiana, erano soldati disciplinati, animati da spirito di sacrificio e lealtà alla causa pontificia, da essi servita con autentico “spirito di crociata”.

L’attacco italiano ebbe inizio verso le 5 e un quarto del mattino del 20 settembre 1870. Alle 9 i cannoni avevano già aperto la famosa breccia nei pressi di Porta Pia. Dall’apertura, larga circa una trentina di metri, fecero irruzione i bersaglieri, che vi persero un comandante di battaglione. Conformemente agli ordini di Pio IX, che aveva decretato di opporre soltanto una “resistenza simbolica”, alle 9.20 il governo papale decise per la capitolazione e alle 9.50 vennero issate le bandiere bianche sulla cupola di San Pietro. Militarmente quindi la conquista di Roma si risolse in pochissime ore a prezzo di 49 morti e 141 feriti da parte italiana e 19 morti e 49 feriti da parte pontificia.

I bersaglieri italiani entrano in Roma attraverso la Breccia di Porta Pia.

Dopo l’ingresso degli italiani a Roma, una volta presa coscienza della situazione, la cittadinanza si abbandonò all’ebrezza di una festa che andò avanti per tutta la notte. A parte le brecce nelle mura e i colpi caduti nella zona di San Giovanni in Laterano, tutto sommato Roma era intatta. Le lunghe settimane di attesa e incertezza erano finalmente terminate. Dalle tre del pomeriggio i romani si riversarono per le strade elevando acclamazioni a Vittorio Emanuele e sventolando tricolori mentre bande musicali eseguivano la Marcia Reale, allora inno nazionale italiano. L’accoglienza amichevole della popolazione fu favorita dal comportamento dei soldati italiani, che in quell’occasione non mancarono di mostrarsi cortesi e rispettosi verso la popolazione.

Il 2 ottobre si tenne un referendum che a schiacciante maggioranza (oltre 133 mila “sì” contro appena 1507 “no) sancì l’annessione del Lazio al Regno d’Italia e Roma ne divenne la capitale. Pio IX dichiarò l’azione italiana “ingiusta, violenta, nulla e invalida”, colpì con la scomunica il Re e il governo e si dichiarò “prigioniero in Vaticano”. Vista l’impossibilità di giungere ad un accordo con il Papa, il Parlamento procedette alla regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa per via unilaterale. Nel maggio 1871 venne approvata la cosiddetta “Legge delle Guarentigie”. Essa constava di venti articoli ed era divisa in due parti.

La firma da parte di Mussolini e del Cardinal Gasparri dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), che posero fine alla questione romana.

La prima riguardava le prerogative del Papa a cui fu garantita l’inviolabilità personale, gli onori sovrani, il diritto di tenere guardie armate nei palazzi Vaticano, Laterano, Cancelleria e Villa di Castelgandolfo, sottoposti a regime di extraterritorialità, libertà di comunicazioni postali e telegrafiche, diritto di rappresentanza diplomatica attiva e passiva e infine un appannaggio annuo di tre milioni e duecento cinquanta mila lire, pari alla cifra dell’ultimo bilancio pontificio per il mantenimento del Sacro Collegio e dei palazzi apostolici. La seconda parte riguardava i rapporti fra Stato e Chiesa, mirando a garantire la massima reciproca indipendenza. Agli ecclesiastici fu garantita libertà di riunione, i vescovi furono dispensati dal giuramento al Re mentre gli atti dell’autorità ecclesiastica non erano più assoggettati all’approvazione da parte dello Stato.

Pio IX, che non aveva cessato di tramare per provocare un intervento straniero, respinse in blocco “i futili privilegi” previsti dalla legge e “i trenta denari” dell’appannaggio. Infine, nel 1874, il Papa, con la formula lattina “non expedit” (“non conviene”), vietò ai cattolici la partecipazione alla vita politica italiana. Si aprì quindi nel nuovo Paese appena unificato una grave frattura tra laici e cattolici destinata a perdurare per quasi sessantanni, sino alla firma del Concordato tra Italia fascista e Santa Sede nel 1929.

Bibliografia:

  • G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi
  • G. Mammarella & P. Cacace, La politica estera dell’Italia- Dallo Stato unitario ai giorni nostri
  • G. Seibt, Roma o morte: La lotta per la Capitale d’Italia [traduzione di Umberto Gandini]
  • I. Montanelli, L’Italia dei notabili 1861-1900
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