Nel regno di Nettuno

Le opere che finora si sono osservate come immagini di uomini e di epoche hanno un elemento che le accomuna. Questo è la loro permanenza nel contesto nel quale erano state inserite, o comunque in uno che gli è affine. Molte opere d’arte però, soprattutto in pittura e scultura, perdono questo carattere, che tuttavia l’Arte riesce a far trasudare dalle opere stesse, anche se contestualizzate in un ambiente diverso. Un elemento tanto più importante soprattutto quando il suo luogo originario è andato irrimediabilmente perduto.

Gian Lorenzo Bernini, Autoritratto malinconico (1630 circa). Nell’opera si coglie l’influsso della pittura di Diego Velázquez

L’anno che sta trascorrendo non ricorda solo i grandi del Rinascimento, ma porta spunti anche da altri contesti. In particolare ci sono riferimenti ad un altro periodo fondamentale della Storia e dell’Arte, ossia il Seicento e il Barocco. Un periodo altrettanto importante, anche se spesso meno conosciuto, forse perché mal incasellato nei programmi scolastici. L’età dell’apoteosi e della fine delle guerre di religione, ma anche quello dello sviluppo profondo dei nuovi stati nazionali, come l’esempio rappresentativo della Francia dei Borbone. Un periodo che vede il tramonto della Spagna degli Asburgo e l’ascesa prorompente della Francia di Luigi XIV a nuova egemone d’Europa. Il secolo barocco però è anche l’epoca della Controriforma, dominata da una Chiesa trionfante, uscita dal Concilio di Trento e attenta ora a darne piena applicazione e ad estenderla, con vari mezzi, nel resto d’Europa e del Mondo.

Un tempo fondamentale anche per l’Arte, tra il Realismo di Caravaggio e il Classicismo degli artisti bolognesi e francesi, fino all’apoteosi teatrale dell’arte barocca di Pietro da Cortona, Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini. Uno stile non solamente romano, ma fortemente legato al panorama italiano, ma che seppe diffondersi in tutto il resto dell’Europa e del mondo, caratterizzandosi in ogni luogo in base alle peculiarità locali o alle scelte politiche e sociali di ogni ambiente.

Veduta settecentesca di Piazza Navona dipinta dall’artista fiammingo  Hendrik Frans van Lint

Elemento fondamentale di questo periodo è la centralità dell’immagine rispetto a quello del testo e connesso a ciò, in parallelo con l’opera lirica, il medesimo rilievo e centralità dato ad ogni arte, da quelle maggiori, come la pittura o l’architettura, a quelle apparentemente secondarie, come la lavorazione del legno e dei metalli, dei tessuti e della gioielleria, fino agli apparati effimeri, cui collaborarono con progetti, modelli e disegni i più grandi artisti del tempo.

Tra le varie manifestazioni di questa nuova visione dell’arte si colloca anche una particolare forma, importante perché costruisce uno degli elementi di raccordo di un luogo con il suo contesto, in particolare testimonia quanto la Natura possa contaminarsi e creare un’armonia con ciò che è costruito dall’uomo. Quest’arte è la creazione e lo sviluppo dei giardini, vero polmone verde di palazzi, monasteri e ville suburbane. Un elemento non esclusivo del XVII secolo, ma che a partire dalla fine del ‘500 seppe accrescere la sua centralità, sviluppando forme ricche e variegate, oltre che aumentando in dimensione, fino alla propria apoteosi settecentesca a Versailles, Caserta e Peterhof.

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Nettuno e Tritone al Victoria and Albert Museum

E’ in questo ambiente che si inserisce l’opera di cui si vuole parlare. Una scultura importante per molti motivi, legati alla storia del contesto di cui è parte, ma anche alle vicende della sua realizzazione e al suo artefice, soprattutto per il modo in cui essa abbia potuto influenzare la sua crescita e aiutare la sua carriera fino a risultati capitali e vertiginosi. La scultura in questione è il Nettuno e Tritone, realizzata tra il 1620 e il 1621 da Gian Lorenzo Bernini.

Questo capolavoro, che oggi si trova al Victoria and Albert Museum di Londra, appartiene al primissimo momento della carriera dell’artista. L’opera nacque dalla committenza di un cardinale molto importante, Alessandro Damasceni Peretti Montalto, nipote di Papa Sisto V, al secolo Felice Peretti. Il Cardinale era un uomo molto munifico verso le arti, patrono della chiesa teatina di Sant’Andrea della Valle, dove operarono Giacomo della Porta e Carlo Maderno, Lanfranco e Domenichino, e qualche anno dopo avrebbe commissionato allo stesso Bernini un proprio busto di marmo, oggi conservato ad Amburgo.

Il progetto previsto era quello di una grande statua marmorea di Nettuno, da collocarsi scenograficamente in fondo, sopra una cascata, attorniata da altre statue mitologiche, alla peschiera, una grande fontana ellittica, che il cardinale aveva costruito nel magnifico giardino che circondava la sua villa. La grande fontana barocca doveva essere però la vetta di un progetto molto più ampio e complesso. La villa Peretti infatti risaliva già ai tempi di Sisto V, in particolare tra il 1576 e il 1580, quando ancora Papa Peretti era ancora soltanto cardinale. Essa si articolava per diversi ettari tra il Quirinale, il Viminale e l’Esquilino, in un’area tra la Basilica di santa Maria Maggiore e il complesso delle Terme di Diocleziano. In essa, ampliata nel corso del tempo con l’acquisizione di altri terreni circostanti si articolavano una parte costruita ad una naturale, in dialogo tra loro. Centro propulsore del complesso erano due edifici principali, Palazzo Peretti, su di un lato della proprietà e impostato come un vero e proprio palazzo di città, e il Casino Felice, una vera e propria villa su più piani, con logge, altane e una torretta, non dissimile da quella contemporanea che ancora oggi si ammira al palazzo del Quirinale.

Incisione seicentesca di  Gottifredus De Scaichi che mostra il giardino. In primo piano, il Casino Felice e in fondo il Palazzo di Sisto V alle Terme. Sulla sinistra troneggia la Peschiera del Nettuno e Tritone.

A partire da questi edifici si dilatava il giardino, composto di un giardino segreto, ossia privato, attiguo alla villa, ma anche boschetti, terrazze e parterre all’italiana decorati da alberi da frutto e siepi di bosso e circondati da viali di cipressi che si incrociavano tra di loro tramite piazze e slarghi. In esso si manifesta a pieno il modello del giardino detto proprio all’italiana, dove la natura è modellata dall’uomo in senso architettonico, facendo in modo che si creino passaggi piacevoli, belvedere e visuali aperte all’infinito, rivolte ad una o più prospettive del paesaggio, come tipico del barocco. A esso si accompagnavano diverse vigne, con frutteti e vigne vere e proprie. Il giardino era inoltre abitato da elementi antropici, un panorama di decorazioni architettoniche, statue moderne e antiche, raccolte dal mercato antiquario o da nuovi scavi, ma soprattutto fontane, da vasche più semplici a realtà più complesse e narrative, fino a vere e proprie scene teatrali ed edifici abitabili, come per la fontana del Prigione o quella di Ercole alla Venaria Reale. Fontane che, nella villa, ebbero anche ampio rifornimento d’acqua, portata qui attraverso l’acquedotto Felice, primo acquedotto post romano, che andava a concludersi nella Fontana del Mosè, detta Mostra dell’Acqua Felice.

Come si è detto questo grande progetto iniziò alla fine degli anni ’70 del ‘500, partendo da alcune terre del cardinal Peretti. Il progetto dell’intero complesso venne costituito, compreso il giardino, da colui che fu, anche durante il suo pontificato, l’architetto ed ingegnere di fiducia di papa Peretti, Domenico Fontana, artista ticinese attivo poi, con lo spostamento dell’obelisco vaticano, il palazzo del Laterano, i progetti per la Cappella Sistina in Santa Maria Maggiore, nella grande rivoluzione urbanistica di Roma, ancora oggi visibile. Analogo ruolo ebbero anche gli artisti, soprattutto pittori, che lavorarono all’interno degli edifici, tutti legati alla temperie manierista. Tra di essi Cesare Baglione, amico di Annibale Carracci, l’urbinate Antonio Viviani, attivo nelle Marche, ma soprattutto a Roma, nella Biblioteca Apostolica Vaticana e nel complesso della Scala Santa e, più tardi, a Palazzo Barberini, Cesare Nebbia, pittore in San Pietro, nella Cappella Sistina e più tardi per i Borromeo in Lombardia e Giovanni Guerra, cui fu affidata la Sala Grande e che lavorò nei medesimi cantieri papali. Nonostante le difficoltà avvenute durante i lavori, dovute in gran parte alle tensioni con papa Gregorio XIII Boncompagni, che costrinsero il porporato ad “intestare” i terreni alla sorella e, in seguito, a farsi anticipare dal Fontana i soldi per i lavori, il progetto proseguì fino alla sua inaugurazione nel 1589. Il complesso che si venne a costituire fu riconosciuto quello più esteso di Roma all’interno delle Mura Aureliane e divenne per il cardinale, anche durante il pontificato, una vera e propria villa di delizia in città, luogo di studio, riposo e vita culturale e mondana, nel segno dell’otium antico, al pari di altre grandi realtà che i cardinali vennero a costruire nel tempo, da Villa Madama a Villa Gregoriana, poi Palazzo del Quirinale, da Villa Borghese fino alla chimera tra palazzo e villa di Palazzo Barberini.

File:Casino della Villa Peretti - Plate 194 - Giuseppe Vasi.jpg
Fronte del Palazzo Peretti Montalto alle Terme da un’ incisione di Giuseppe Vasi del 1761

In questo contesto si inserisce il Nettuno e Tritone. Alla morte del papa nel 1590, la villa passò alla sorella e ai nipoti Michele, membro laico di casa, e Alessandro, cardinale. Oltre a grandi acquisti di antichità, ospitate nel giardino e nella villa, tra cui l’Auriga dei Musei Vaticani, il porporato decise la costruzione della peschiera e quindi di tutto il suo apparato. L’incontro tra il committente e il giovane artista fu in questo caso biunivoco. Il cardinal Peretti infatti fu un ottimo conoscitore e tra i primi estimatori del giovane scultore barocco, colpito dalle opere da lui già realizzate, tra le quali in particolare il grande gruppo marmoreo della Fuga da Troia (Enea ed Anchise) per il cardinal nipote Scipione Borghese, e volle far in modo di poterne esibire uno anche nella sua villa. Bernini, d’altro canto, ebbe in questo caso il sostegno di quel circolo culturale in cui era entrato insieme al padre e che aveva visto in lui un giovane con un futuro promettente. In esso ebbero voce sia il cardinale Maffeo Barberini, suo “tutore” culturale e letterario, ma soprattutto il suo patrono, Scipione Borghese, che ne sosterrà la crescita con altri incarichi di rilievo, dal David all’Apollo e Dafne. In questo caso, come nel di poco successivo gruppo di Plutone e Proserpina, è probabile che il cardinal Borghese avesse sostenuto il suo giovane artista anche per costruire e rafforzare i rapporti con il potente ex cardinal nipote, posizione sempre in bilico tra il potere assoluto e rapida caduta, che all’epoca Borghese ricopriva.

Fontana del Nettuno in alto.JPG
Fontana del Nettuno di Gianbologna a Bologna

Il tema del dio del mare che governa sulle acque e che ben si ambienta in un ambiente acquatico come una fontana non era di per sé nuovo. Esso aveva coinvolto in più occasioni la cultura manierista, dal Nettuno di Ammannati a Firenze a quelli di Gianbologna nei giardini di Boboli e in piazza Maggiore a Bologna, fino a quello dell’omonima fontana napoletana cui aveva collaborato lo stesso padre di Bernini, Pietro. Elemento comune a tutti questi era però la posizione. Nettuno era di solito rappresentato stante appoggiato al tridente e al centro della fontana, magari in alto sopra la piccola vasca che dava inizio allo spettacolo.

Gian Lorenzo Bernini invece imposta la statua e la fontana in modo differente. Innanzitutto colloca la statua in fondo alla peschiera. Questo elemento, apparentemente banale, segue però una nuova impostazione data proprio dal nascente Barocco. A differenza del Manierismo infatti il nuovo stile tende ad abbandonare la visione a 360 gradi delle statue, tornando ad una visione frontale o comunque dipendente da un determinato punto di vista preferenziale. A questo elemento l’artista inserisce un’impostazione che, se non proprio barocca, ad essa tende sempre più. Nettuno infatti fuoriesce violentemente dal suo spazio con una contorsione violenta protendendosi in avanti sopra la vasca dalla sua conchiglia con il tridente rivolto in avanti, sbilanciando così dinamicamente il gruppo, trattenuto in equilibrio, fittizio e reale, dalla figura di Tritone che, sgusciando tra le gambe del dio del mare, suona una grande tromba a conchiglia, dichiarando agli astanti l’arrivo di Nettuno. La forza di questo movimento è accresciuta da quella espressiva del personaggio, rappresentato come un vecchio pescatore segnato dal tempo e dagli elementi, che lo colpiscono e che danno forma di onde e spruzzi al panno che gli cinge la vita, alla folta barba e baffi e ai capelli, ritratti come scossi dal vento di burrasca, che disegnano un volto serio e aggrottato.

Nettuno e Tritone visti di scorcio

L’energia che promana dalla divinità si deve però, oltre che al lato estetico, anche a quello narrativo che lo ha ispirato. Il cardinale e Bernini infatti traggono quest’immagine non solo dalla tradizione, ma soprattutto da un substrato letterario, evidente soprattutto ai loro contemporanei. Il Nettuno “ritratto” viene fatto derivare infatti da due possibili fonti antiche. Da una parte esso potrebbe far riferimento al mito del Diluvio Universale greco, raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio. In esso Nettuno, su ordine di Giove, avrebbe scatenato l’inondazione colpendo la Terra con il suo tridente per punire gli uomini. Alla fine dell’evento Tritone, figlio di Nettuno, avrebbe suonato la tromba per richiamare le acque nel loro alveo. Altra ipotesi interessante, anche perché casualmente in continuità con il gruppo dell’Enea, si rivolge invece all’Eneide di Virgilio. In essa, dopo la presa di Troia, Enea cerca salvezza imbarcandosi, contrastato da mare in burrasca e da venti contrari. Il dio del mare, che lo sostiene, decide di intervenire, sorgendo dalle acque e minacciando gli elementi con il tridente, dichiarandosi signore dei flutti e rimandando i venti, figli di Eolo, nei loro regni di competenza, portando così alla quiete. Questo atto divino si manifestava bene nella peschiera, “trasformata” idealmente dal dio in un placido bacino.

Il regno di Nettuno sui giardini dei Montalto ebbe però la durata di circa solo un secolo, anche se glorioso. Il giardino e soprattutto la statua divennero centro dell’attenzione e dell’ammirazione per tutto il XVII secolo, inserite in disegni, bozzetti, stampe e persino sul fondale di dipinti, cui si aggiungono guide illustrate di Roma e veri e propri cataloghi visivi delle collezioni, soprattutto antiquarie, primo esempio di quel tipo nella Città Eterna.

Il successo si terminò però con la vendita della villa da parte della famiglia. Tale vicenda rimane esemplare per molti aspetti, in particolar modo per la dispersione delle grandi collezioni private avvenute nel corso del ‘700 che i Papi cercarono di contrastare in vari modi, ma anche per la progressiva lottizzazione di questi grandi polmoni verdi che collegavano la campagna al centro storico di Roma. Nel 1655 la villa passò in eredità al cardinale Paolo Savelli, discendente per via materna, che la tenne intatta fino al 1696 quando, espropriata per debiti, fu comprata dal cardinale genovese Giovanni Francesco Negroni. A partire dalla proprietà Negroni, in particolar modo dalla morte del cardinale nel 1713, la villa entrò nel suo cono d’ombra, con la messa sul mercato antiquario di una parte delle antichità e l’inizio della lottizzazione dell’ampio giardino.

Immagine delle terme di Diocleziano e della Villa prima delle spoliazioni tra ‘700 e ‘800 dalla Nuova Pianta di Roma di Giovan Battista Nolli del 1748. In basso si identificano il Casino Felice e la Peschiera del Nettuno

Momento cardine fu quindi la vendita, nel 1784, di tutto il complesso al mercante Giuseppe Staderini. Il commerciante, volendo ricavare un guadagno da una proprietà tanto vasta, decise di proseguire nelle spoliazioni, vendendo tutti i marmi antichi sul mercato, in particolare ai viaggiatori europei che percorrevano all’epoca il Gran Tour italiano. Anche se una parte fu salvata dai papi Pio VI e Pio VII e inserita nel nuovo museo Pio Clementino, la gran parte andò dispersa, in particolar modo in Inghilterra. Fu in questo momento che il dio perse il suo regno. Il Nettuno infatti fu venduto nel 1786 ad un grande artista del suo tempo, Joshua Reynolds, famoso per i suoi ritratti aristocratici, che ne seppe rilevare il valore. Alla morte dell’artista, l’opera passò al barone Charles Anderson Pelham, che la ospitò nei giardini delle sue ville di Chelsea e nel Lincolnshire. Venne quindi acquistata dal Victoria and Albert Museum nel 1950, dove si trova tutt’ora.

Villa Montalto e il suo rigoglioso giardino ebbero un destino più cupo. Passata già mutila nel 1789 a Francesco Camillo Massimo, esponente della nota famiglia aristocratica romana e coinvolto in vario modo nei moti rivoluzionari della fine del secolo, il complesso venne poco a poco smembrato e lottizzato, sia per volontà dei proprietari sia per le trasformazioni postunitarie, in particolare per la costruzione della Stazione Termini, che si trova su parte dei suoi terreni. I Massimo decisero in seguito di trasformare anche gli edifici rimasti, facendo demolire il Casino Felice e modificando Palazzo Montalto, divenuto oggi Palazzo Massimo alle Terme, una delle sedi del Museo Nazionale Romano. Della villa rimangono solo la Fontana del Prigione, oggi sul Gianicolo, e uno degli ingressi monumentali, traslato a villa Celimontana, sul colle Celio.

La Fontana del Prigione di Domenico Fontana. Originariamente in Villa Montalto, venne trasferita dal 1938 sul Gianicolo vicino alla chiesa di San Pietro in Montorio.

Il Nettuno e Tritone di Gian Lorenzo Bernini è quindi un testimone importante. Elemento significativo del viscerale legame tra ogni opera d’arte e il contesto nel quale è inserita, del quale riesce spesso a conservare in sé un segno profondo. In questo in particolare sottolinea l’importanza di mantenere queste realtà nella loro interezza, specie per quelle più fragili e soggette al passare del tempo, come i giardini. Un’opera importante anche per i suoi artefici, emblema della cultura di uno dei più longevi e influenti cardinali tra il Cinquecento e il primo Seicento e aurora di uno stile e un artista nuovi e rivoluzionari, capaci di cambiare il volto di Roma, dell’Italia e dell’Europa, in special modo proprio grazie all’acqua delle fontane e dei ponti dell’”amico delle acque” Gian Lorenzo Bernini.

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