Quando si pensa al Mediterraneo, alla sua politica e alla sua cultura, si ha di esso una percezione abbastanza precisa, che coinvolge le coste meridionali dell’Europa e quelle settentrionali del Nord Africa, per poi abbracciare l’Anatolia e le ricche coste della Siria e della Palestina. Eppure questo mondo deve molto ad un contesto molto più ampio che attraversa i deserti del Medio Oriente o le montagne della Turchia Orientale, estendendosi poi in tutto l’altopiano iranico, arrivando fino alle steppe dell’Asia Centrale alle spalle del Khorasan. Un rapporto complesso, in cui i legami e i caratteri di entrambi seppero in momenti diversi mescolarsi ed integrarsi, influenzandosi a vicenda.
Tale aspetto può sembrare semplice pensando all’antichità, al tempo di Ciro il Grande e di Alessandro Magno, fino ai contatti economici e culturali pietrificati nelle città carovaniere di Hatra e Palmira. Anche dopo l’islamizzazione però il nastro rosso che collegava la Persia al Mediterraneo fu sempre florido, in modo più diretto, con i principi selgiuchidi e timuridi, ma anche in modo apparente più mediato, con la trasmissione dei testi di Firdusi e Avicenna, o attraverso i pennacchi delle sue cupole, che dai palazzi sasanidi del profondo Fars si distesero nelle moschee abbasidi, fino ai cieli dorati della Palermo normanna.

Tale legame ebbe articolazioni diverse, coinvolgendo la politica, l’economia, la cultura e le arti. Un grande peso ebbero la diplomazia e il commercio, connesso con il grande fervore degli scambi del Mediterraneo nel Basso Medioevo. Da un lato infatti i mercati di Tabriz e Isfahan furono la porta privilegiata verso l’Asia Centrale e il Celeste Impero, la Cina. Una condizione presente anche quando, con la disgregazione del mondo mongolo, vennero a mancare ciò che garantiva nei fatti il pacifico transito tra Pechino e il Levante. Un ruolo in primis per le merci che utilizzavano i caravanserragli come veri e propri hub, nodi di trasmissione tra Samarcanda e le città di Konya, Alessandria e Beirut. Il transito e la permanenza anche di personaggi occidentali non venne però mai meno, coinvolgendo mercanti, intermediari e banchieri italiani ed europei, cui si aggiunsero, sin da principio, figure religiose, come frati domenicani e francescani, attivi sia nell’evangelizzazione che nella diplomazia. Un ruolo mai abbandonato, tanto che ancora oggi l’Ordine dei Predicatori possiede una grande chiesa a Teheran. Figure importanti, che permisero di trasmettere al loro ritorno in Occidente idee, modelli e innovazioni, anche nelle arti.
Un legame anche politico, che pose i principi persiani come interlocutori veri o possibili, in progetti geopolitici tra crociata e politica di potenza. Essi infatti rappresentavano per i loro corrispettivi europei l’immagine dei mitici sovrani cristiani regnanti nel cuore dell’Asia, utili per salvaguardare i potentati europei più coinvolti nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, come i Regni crociati del Levante o l’impero di Bisanzio. Una diplomazia complessa e multiforme, capace di giocare contemporaneamente su più tavoli, nella quale ai francescani e ai templari, ambasciatori con i Sultani d’Egitto, si affiancano proprio i domenicani e gli ospedalieri, la cui attenzione è rivolta proprio all’area iranica, prima al mondo mongolo ilkhanide e poi a principati suoi successori. Un elemento che, all’inizio sostenuto dall’apparente comunanza religiosa, fu perseguito nella maggior parte dei casi in una prospettiva più politica ed economica, dimostrando quanto già allora il mondo musulmano fosse variegato e quanto i rapporti tra realtà diverse non fossero differenti da quelli nel mosaico della cristianità.
Questa logica non si spense neanche in età moderna, con la nascita degli stati nazionali. Lo sviluppo e il rafforzamento del dominio ottomano in Anatolia, nei Balcani e in Medio Oriente e la sua stretta collaborazione con la cristianissima monarchia francese spinsero infatti la Spagna e l’Impero, all’epoca sotto la monarchia asburgica, a cercare un appoggio in quella direzione, capace di tenere impegnato il vicino turco. Ciò permise il contatto con una nuova realtà statuale sull’altopiano, interessante per diversi motivi, dalla politica all’economia e alla cultura, capace di dare forma a caratteri che identificano ancora l’Iran di oggi.

Tale dinastia era quella dei Safavidi, che disegnarono la storia tra la Mesopotamia e il Turkestan afghano tra l’inizio del ‘500 e la seconda metà del ‘700. Seppur di origine turca e provenienti dalla piccola provincia di Ardabil, sul mar Caspio, seppero lasciare il segno nell’identità iraniana. Ad essi si deve in primo luogo la riunificazione dei territori iranici, divisi dopo Tamerlano tra diversi stati turchi, come i sultanati del Montone Nero e il Montone Bianco. Tale opera rese inoltre il governo degli Shah un vero punto riferimento dell’area, sia nei confronti dell’Asia Centrale sia verso i sultanati turchi dell’Anatolia orientale, che venivano già dal ‘400 assimilati entro i territori ottomani. Ciò creò un profondo contrasto proprio con il vicino turco, che ebbe come momento cardine nella battaglia di Caldiran, combattuta nell’odierno Iraq nel 1513 contro Selim I. Il legame costruitosi tra i Safavidi e l’Iran si ripercosse anche nella nascita di una vera e propria identità nazionale, capace di raccogliere e sintetizzare i contributi provenienti dal mondo turco e da quello timuride, ma anche di creare ponti con il glorioso passato preislamico, dagli achemenidi ai sasanidi, di cui la dinastia diceva di discendere.
Ad esso connesso è anche il lato religioso. Se oggi può sembrare abbastanza normale pensare all’Iran come un paese musulmano sciita, tale carattere sarebbe inconcepibile senza la dinastia Safavide. La scelta si deve a dinamiche diverse. Da una parte essa dipese dall’origine della dinastia, proveniente dalla provincia a maggioranza sciita di Ardabil. Tale legame geografico aveva anche un corollario simbolico di presunta parentela, legato a Safi al Din Ardabili, capo di una confraternita sufi sunnita della città e che in questo ambiente aveva sottolineato la sua parentela con il califfo Ali. Tale contatto si mostra in modo evidente nella nuova classe dirigente safavide, legata ai cosiddetti Kizi Bas (Teste rosse), seguaci di Ardabili e caratterizzati da un grande turbante rosso a sette spicchi, ricordo dei Sette Imam dello Sciismo. Dall’altra il nuovo culto, imposto su tutto il territorio del regno, aveva ragioni più prosaiche e politiche. Soprattutto i successori del fondatore Ismail infatti esaltarono questo elemento, sia come carattere peculiare dell’orgoglio iranico sia come elemento di contrasto diplomatico contro coloro che si vedevano come i paladini del sunnismo, ossia gli Uzbeki ad est e soprattutto il califfato ottomano ad ovest.

Tra le figure più emblematiche di questa dinastia si trova quella, accanto al fondatore Ismail e al letterato Tahmasp, di Shah Abbas I, regnante in Persia tra il 1587 e il 1629. Una figura importante, sia perché diede una forma definitiva al ruolo politico ed economico del suo regno come grande potenza sia perché riuscì con le arti a figurare perfettamente la propria dinastia ai posteri.
Un primo elemento d’interesse fu l’organizzazione politica del suo vasto impero. Salito al trono dopo un lungo periodo di sconfitte militari e di cambi al vertice tra i suoi parenti più stretti, egli intervenne ad un’organizzazione più organica e moderna, cercando di limitare il potere proprio dei Kizi Bas, legati alla dinastia regnante ma nei fatti capi tribali sempre pronti alla secessione. In ciò egli fu un intelligente osservatore proprio della realtà ottomana. Sul modello turco infatti istituì il corpo dei ghulam, su modello dei giannizzeri, raccogliendo sotto il diretto controllo dello shah personaggi provenienti dalle comunità cristiane georgiane, circasse ed armene dell’impero, i quali furono inquadrati in corpi di cavalleria armati di moschetti. Ad un primo utilizzo militare, ne seguirà uno politico e burocratico, nel quale i ghulam diverranno membri dell’apparato statale, generali e governatori di province. Ad essi si affiancherà un secondo corpo, detti shah seven, composto in questo caso di contadini di origine iraniana, organizzati come corpo di fanteria e coinvolti come guardia personale dello shah, cui erano legati da un rapporto quasi religioso.

A tali trasformazioni si collega direttamente la compagine militare. Essa ebbe grande importanza nell’immagine di Abbas, che ad essa viene solitamente associata. Rispetto ai suoi superiori infatti lo Shah riuscì a sviluppare numerose campagne militari vittoriose. Verso oriente, ottenne contro gli Uzbeki alla fine del secolo la conquista di Mashhad ed Herat, arrivando fino a Balkh, nel nord dell’Afghanistan. Ad Occidente invece, dopo una prima fase di crisi cui pose fine con la pace di Costantinopoli, si attivò per una nuova campagna, tra il 1603 e il 1618, in parallelo con la fine della Lunga Guerra del Sacro Romano Impero contro gli ottomani. In questo caso riuscì con la pace di Serav del 1618 a riconquistare il Turkestan iraniano e la sua ricca capitale Tabriz, ceduta al sultano ottomano nei patti precedenti, inserendosi militarmente e politicamente nell’area del Caucaso tra il 1614 e il 1616, aiutato dall’appoggio dei principati georgiani, armeni e azeri, in lotta tra loro e sempre in bilico tra le due potenze dell’area. Tale pacificazione, che riconosceva l’egemonia persiana proprio nel Caucaso, portò nei fatti ad una situazione di equilibrio, rotta nei primi anni ’20 dallo stesso Abbas con l’invasione della Mesopotamia e la conquista di Baghdad del 1623. Tale evento, carico di un profondo significato simbolico, ebbe però una durata effimera. Ultimo fronte interessante ed insolito è infine quello meridionale, soprattutto per le sue ragioni economiche e diplomatiche. Shah Abbas riuscì infatti, seguendo una logica di controllo economico del Golfo Persico, a conquistare il Bahrein, aggiungendo ad esso sia la creazione di un nuovo porto a Bandar Abbas sia la conquista dello strategico avamposto di Ormuz, territorio portoghese. Tale manovra coinvolgeva la Persia nell’epopea coloniale europea, elemento dimostrato ancora di più dall’aiuto in questo settore dell’Inghilterra e la Compagnia delle Indie Orientali. Un rapporto molto forte, cementato dalla presenza dei fratelli Anthony e Robert Shirley, nobili britannici dediti nella modernizzazione dell’esercito persiano.
La vicenda di Ormuz mostra un altro elemento importante, ossia le grandi capacità diplomatiche dello Shah. Abbas infatti seppe implementare i rapporti fruttuosi con le potenze europee, spesso in funzione antiottomana. Ad ambasciate più comuni, come quelle rivolte verso la Polonia, l’Impero e Venezia, dove tutt’ora si conserva nel Tesoro di San Marco un tappeto da lui regalato, la Persia organizzò due missioni importantissime, guidate proprio dai fratelli Shirley. La prima, guidata da Anthony, partendo da Mosca nel 1599, visitò la Praga di Rodolfo II, Mantova, Venezia e la Roma di Clemente VIII, per concludersi nella Madrid di Filippo III.

Una seconda invece, tra il 1609 e il 1615, visitò Cracovia, Praga, Firenze e tre grandi capitali europee come la Roma di Paolo V, di nuovo Madrid e infine Londra, tornando in Persia per la via dell’India. Esse ebbero profonde conseguenze politiche, ma soprattutto culturali, come la citazione dello stesso Abbas come Grande Sophi in una commedia di Shakespeare e la loro raffigurazione tra le ambasciate nel Salone dei Corazzieri del Quirinale. Un processo anche inverso, che porterà diversi rappresentanti europei a risiede in Persia, tra i quali in particolare Pietro della Valle, nobile romano che intrattenne rapporti a corte e che li illustrerà in modo attento al suo ritorno in Italia.
Al diplomatico, al militare e all’amministratore fa seguito anche il grande committente d’arte, utile ad una propria autorappresentazione sia alla politica diplomatica, in continuità i propri predecessori. Il ruolo dello Shah è in questo senso fondamentale per la cultura persiana. Partendo dall’esperienza del nonno Tahmasp, il ruolo di Abbas fu capace di valorizzare tutte le arti dell’universo persiano, sia sviluppando e assorbendo gli influssi che la lunga tradizione precedente presentava, sia soprattutto dando forma ad una realtà culturale identitaria molto forte, capace di creare un canone letterario e artistico iraniano e di essere il modello per le dinastie successive.

Da una parte infatti Abbas si adoperò nella creazione di una ricca Kitabkhana, casa del disegno, nella sua capitale Isfahan. Essa seppe ereditare molti caratteri tipici sia delle scuole timuridi di Herat e Shiraz, sia dell’officina formatasi a Tabriz e trasferita a Qazvin intorno a Tahmasp. Da queste infatti essa ereditò sia lo stile, ricco nel colore e nelle sfumature, sia la ricchezza compositiva dinamica, oltre che i temi e i luoghi di ricezione, nella decorazione di Shahname, testi epici destinati a sovrani e principi, sia in diwan di famosi poeti della tradizione persiana, come Hafez e Asadi. Tale tradizione, rappresentata dal pittore Sadiqi, ebbe nuovo slancio con Reza detto Abbasi dal nome dello Shah, artista attivo dalla fine del Cinquecento e noto per le sue rappresentazioni di personaggi su fogli singoli su sfondo monocromo, ricchissime di dettagli e di soggetti estremamente realistici, oltre che per l’inserimento di immagini di origine occidentale.
Altro punto cardine furono i tappeti. Il ruolo dei Safavidi fu in questo caso estremamente importante. Se infatti fino al loro arrivo i tappeti erano considerati oggetti d’uso, caratterizzati da decorazioni semplici e di taglio geometrico, proprio con la dinastia iranica essi vennero ad assumere forme e caratteri più variegati. Si ebbe un’evoluzione nella forma, nella quale si costituì un grande medaglione centrale, circondato da elementi floreali ed arborei e da quattro angoli che riprendono il tema centrale, così come la creazione di temi ricorrenti e figurativi, legati all’immagine del paradiso, giardino quadrato(chahar bagh), temi filosofici e simbolici, o raffigurazioni di caccia, in cui sono inseriti anche elementi di origine cinese, come draghi e fenici.
E’ tuttavia nell’architettura che la corte di Abbas diede ampio respiro alla sua creatività. Un’attività figlia della lunga tradizione turca e mongola, dalle quali seppe dare però una sua interpretazione. Interessanti e simbolici fu in tal senso la serie di interventi compiuti nei grandi santuari nazionali, come quello di Ardabil o quelli di Qom e Mashhad. Progetti particolari, come la Chinikane, casa cinese, di Ardabil, reliquiario della ricca collezione di vasi cinesi inseriti in corrispondenti nicchie in stucco, che Abbas fece costruire ad Ardabil. Lavori che, ad un primo significato religioso, ne facevano seguire uno politico, di esaltazione della dinastia, proprio ad Ardabil, o la volontà di dirottare il grande pellegrinaggio sciita verso questi luoghi importanti, disincentivando quello più tradizionale ma più rischioso e sottoposto a Costantinopoli verso Mecca, Najaf e Kerbala.

Vero simbolo del regno di Abbas si sviluppa però nella sua capitale, Isfahan, se non la stessa città, nella quale lo Shah sviluppa un vero disegno urbanistico e ideale. Isfahan aveva assunto tale ruolo proprio con Abbas, seppure avesse alle spalle una lunga vicenda, ben esemplificata dalla la moschea del Venerdì, nata abbaside su un edificio precedente e diventato imponente tra Selgiuchidi, Timuridi e Safavidi. Proprio lo spostamento della capitale da Tabriz e Qazvin ad Isfahan spinse quindi lo Shah a porre al centro di tale città una grande piazza, attorno alla quale la capitale ruotasse, e che fosse anche il luogo della sua manifestazione. Questa piazza, ancora oggi una delle più importanti, è la Maidan-e Shah, la Piazza dello Shah, oggi nota come Nasq-e Jahan. Questo nome, La metà del mondo, in seguito esteso all’intera Isfahan, si lega proprio alla sua bellezza, che fece pensare ai persiani che metà delle bellezze del mondo si trovassero in quel luogo. Un progetto che però, fin dall’origine, non si racchiuse entro le sue quattro mura. La piazza infatti si pose proprio come nucleo di un percorso ideale e visuale, utile sia per rappresentare il potere dominante sia abbagliare le persone in visita, mercanti e ambasciatori.

Tale via ideale partiva dalla Moschea del Venerdì, infilandosi quindi nel Gran Bazar, per una lunghezza di qualche chilometro. L’effetto di ristrettezza portato dal caotico mercato portava ad un colpo d’occhio scenico di meraviglia all’aprirsi della piazza, caratterizzato da un grande Iwan, ossia un portale monumentale coperto, con in alto un talar, ossia un podio porticato coperto che permetteva di avere una visione d’insieme della piazza.
Superata la piazza, la via attraversava l’accesso all’Ali Qapu, il palazzo reale, percorrendo alle sue spalle il giardino, detto Chahar Bagh. Questo, parte integrante del palazzo in linea con la tradizione mongola del palazzo giardino e dell’Eden iranico, era popolato da porticati e padiglioni, tra i quali il più tardo Chihil Sutun, Le Quaranta Colonne, un edificio di piccole dimensioni affrescato con scene di corte e preceduto da un porticato di venti colonne in legno con capitelli di muqarnas, luogo di manifestazione del sovrano e di vita mondana, specchiato in una lunga vasca, che ne raddoppia apparentemente i sostegni. Un edificio che richiama direttamente i grandi palazzi ipostili di età achemenide, in particolare la grande apadana di Persepoli. Caratteristico del parco è il grande viale, di quasi un chilometro e composto da otto filari di alberi, tra i quali si trovano viali di passeggio, aiuole, fontane e vasche, nel quale un giorno alla settimana l’ingresso era dedicato esclusivamente alle donne. Il viale termina con il fiume Zayanda Rud, superato da un grande ponte, il Si-o-se Pol, un ponte sasanide ammodernato da Abbas su due livelli, il primo in contatto con l’acqua e utile per l’irrigazione e il secondo, comunicante con il primo, con una strada centrale chiuso ai lati da botteghe e da iwan affacciati sull’acqua.
Il progetto della grande piazza nasce alla fine del Cinquecento, prendendo a modello una seconda piazza serraglio a Kerman realizzata dal governatore Ganj Ali Khan. L’idea essenziale deriva soprattutto dai caravanserragli e le moschee di età selgiuchide, costruiti su base quadrata, con un alzato di due piani e definiti al centro di ogni lato da grandi Iwan, di cui quello di fondo, spesso quello della moschea, era di maggiori dimensioni. A questo segue, nella sua monumentalità, le orme del periodo timuride, visibili a Samarcanda, ma anche in luoghi più familiari per Abbas, come i complessi religiosi di Herat e Mashhad. Nel caso di Isfahan i quattro ingressi davano accesso a quattro luoghi centrali della vita politica ed economica della capitale. Al bazar si contrappone sul lato opposto la grande moschea congregazionale, detta moschea dello Shah, costruita tra il 1612 e il 1637. Si lati più lunghi si trovano invece i due edifici più direttamente dipendenti dalla corte. Sulla destra si trova l’Ali Qapu, la Soglia Reale, il palazzo dello Shah, a sinistra la moschea dello sceicco Lotfollah, in nome di un mistico imparentato con lo Shah, che svolgeva lo scopo di cappella privata. Sia il palazzo che la cappella però non sono posti perfettamente al centro del loro lato, ma più verso il fondo, di modo da creare uno schiacciamento visivo dall’accesso principale e portare quindi a un’unica fronte scenica multicolore. A congiungere questi quattro fuochi la corte si sviluppa in una serie di arcate su due livelli, delle quali quelle superiori sono iwan affacciati sullo spazio aperto. Questa parte era destinata alle attività commerciali, botteghe e centri artigianali. A completare l’insieme era infine la pavimentazione che, a differenza di oggi, era in terra battuta.

Tale condizione, che venne modificata all’inizio degli anni’30 del 1900 con un moderno giardino quadrato alla persiana, si deve al valore polivalente che il luogo manifestava. Innanzitutto un’attitudine al commercio che qui permetteva un secondo mercato, dove si raccoglieva il variegato cosmo della capitale, dai musulmani iraniani a quelli turchi del Turkestan e dell’Azerbaijan, dalla comunità armena, invitata a rifondare ad Isfahan la loro nuova capitale, Nuova Julfa, meno coinvolta dell’omonima città caucasica nei teatri di guerra, ai Kafir, ossia gli zoroastriani, dalle comunità europee occidentali agli indu dell’occidente indiano. Accanto a questa si accostava quella politica e sociale. Nella Maidan-e Shah si svolgevano feste e celebrazioni, tra le quali giochi pubblici, come il polo, di cui rimangono tuttora le mete, ma anche veri e propri atti di politica attiva, come l’ingresso trionfale delle ambasciate straniere, il festeggiamento di eventi cardine della dinastia o la semplice manifestazione pubblica del sovrano. Un aspetto anche militaresco, che trasformava il luogo pubblico in una nostra piazza d’armi. Modalità, queste, che avvicinavano la piazza ad un vero teatro civile e che la rendeva simile alla vita pubblica nell’Ippodromo di Costantinopoli sotto i sultani ottomani.

Entro la piazza quindi un ruolo eminente ha la moschea dello Shah. Il grande edificio, costruito in più di vent’anni, fu impostato seguendo le moschee selgiuchidi, il cui iwan principale, incorniciato da due minareti, era seguito da una grande cupola a decoro floreale, a copertura del vano del mihrab. Accanto ad essa due piccoli cortili accessori e una madrasa, una scuola coranica. A ornare l’intera moschea un ricco decoro colorato, realizzato tutto a mattonelle policrome smaltate, diffuse in Iran al tempo dei mongoli, con pennellate di blu, celeste, azzurro, viola e pervinca, oltre che verde, giallo e bianco, intervallate da versi coranici bianchi su fondo blu. Ad unire la piazza e la moschea si sviluppa il pishtaq, ossia l’ingresso monumentale, un capolavoro composto da una grande nicchia decorata da muqarnas geometriche e su cui troneggiano altri due minareti, con decori di ascendenza nomade. Particolari in questo edificio sono due caratteri. Da una parte il fatto che esso, allineato con la piazza, non corrisponda all’orientamento della moschea, in direzione della Mecca, problema risolto dagli architetti in modo armonioso. Dall’altra la sua decorazione, realizzata in questo caso con mosaico ceramico policromo, una tecnica più fine della precedente ed erede dell’evoluzione in quell’arte del ‘400,come nella moschea di Yazd.
Alla sua sinistra si pone l’Ali Qapu, organizzato come un grande agglomerato a più piani con un soffitto piano. Se all’interno si articolano ambienti affrescati con danzatrici o stanze come quella della Musica, costruita come ad Ardabil da nicchie sagomate in gesso che richiamano la forma di strumenti musicali, esso si apre sulla piazza attraverso un grande arco d’ingresso simile a un arco trionfale, coperto da un altro talar su colonne in legno, una vera e propria tribuna di corte coperta avanzante sulla piazza, da dove lo Shah poteva manifestarsi sullo spazio pubblico, in modo analogo all’ apadana di Susa e alle porte monumentali di Pechino.
Affrontata a esso si trova la moschea dello Sceicco Loftollah, cappella palatina unita al palazzo attraverso un passaggio sotterraneo alla piazza. Essa, la prima ad essere costruita tra il 1602 e il 1619 e realizzata dall’architetto Ustād Moḥammad Reżā Iṣfahānī, è il vero capolavoro nella piazza. Essa, non essendo pubblica, non possiede né minareti né corte interna, aprendosi sulla piazza attraverso un pishtaq a mosaico ceramico ad U, in linea con i precedenti di Samarcanda, che risponde visivamente all’avanzare del talar. Centro dell’edificio è la sala di preghiera, segnalata da una poderosa cupola, orientata anch’essa verso Mecca. Il suo decoro esterno ed interno è realizzato tutto in mosaico ceramico. All’esterno esso sviluppa sfumature cromatiche particolari, rivolte al blu nel pishtaq, e che si aprono sulla cupola ad una maggiore ricchezza, che mescola il blu al giallo, bianco e soprattutto il nocciola, tanto da essere detta la “Cremosa”.

Entrando nel luogo di culto, il visitatore è spinto in un corridoio a 90 gradi, necessario ad armonizzare i due orientamenti. La sala di preghiera si costruisce in un vano quadrato, che si sviluppa in forma ottagonale attraverso archi ogivali su colonne tortili celesti, sui quali si innesta il tamburo circolare a finestre e la cupola. La ricchezza delle cromie interne all’edificio trova la sua apoteosi proprio nella cupola. Qui infatti, partendo dal centro, si viene costituendo un decoro detto a coda di pavone a base stellata che partendo da un andamento ad otto lati, aumenta scendendo a sedici e poi a trentadue, secondo un modello matematico. Un risultato che imita il modello che stava diventando la struttura compositiva standard dei nuovi tappeti persiani, come quello detto di Ardabil, ora a la Victoria and Albert Museum di Londra.

La decorazione di questa moschea, come pure di quella principale, assumono quindi un profondo senso estetico nella mentalità iranica. Se nel caso dei selgiuchidi l’architettura dava centralità alla pulizia delle linee e delle geometrie, qui la ricchezza e la luminosità del mosaico spingono invece in senso contrario, deformando e demolendo visivamente il costruito ed eliminando la percezione precisa dello spazio. Al dato decorativo, la moschea si accosta qui anche un dato politico e identitario. Essendo di fatto un luogo aperto alla sola corte, lo Shah fece quindi scrivere attorno alla conca del mihrab i nomi dei sette imam sciiti, cui si aggiungono sure coraniche antisunnite e testi poetici dello scrittore sufi Shaykh Bahai. Tali elementi hanno quindi un significato ambiguo: da una parte esaltare la scelta sciita e la profonda contrarietà al vicino sunnita ottomano, ma anche l’apertura meno ortodossa al mondo mistico e sufi, che all’interno dell’Islam è sempre stato molto diffuso.
Un progetto esemplare, quello di Shah Abbas. Un programma capace di disegnare gli spazi della sua vita, della sua corte e della sua capitale. Un’immagine potente capace di impressionare gli abitanti del suo impero ma soprattutto i suoi ospiti stranieri, con idee non dissimili dal nostro nascente barocco. Un elemento che li meraviglierà per secoli, da Pietro della Valle, che lo considererà più bello di Piazza Navona, allo scrittore inglese Robert Byron, che lo descriverà entusiasta nel 1934. Una pietra miliare per l’arte sull’Altopiano, che modellerà quella dei tre secoli successivi. Davvero la metà delle bellezze del mondo.