Tripoli bel suol d’amore!

LA CONQUISTA ITALIANA DELLA “QUARTA SPONDA” LIBICA

Il 1911 fu un anno molto speciale per il nostro Paese: il giovane Regno d’Italia, sorto nel 1861, si apprestava infatti a festeggiare il suo primo mezzo secolo di vita. Nell’Italia che si affacciava al nuovo secolo risuonavano ancora l’eco delle cannonate fatte esplodere dal generale Bava Beccaris sugli scioperanti di Milano nel maggio 1898 e i colpi di pistola con cui l’anarchico Gaetano Bresci aveva assassinato Re Umberto I il 29 luglio 1900 a Monza.

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Il regicidio di Umberto I costituì il momento culminante della “crisi di fine secolo”.

Non bisogna poi dimenticare il tragico epilogo dell’avventura coloniale italiana in Africa Orientale cominciata negli Anni Ottanta: il 1° marzo 1896 le truppe italiane al comando del generale Oreste Baratieri vennero completamente sbaragliate dai guerrieri abissini nella conca di Adua, mettendo fine sia al sogno italiano di costituire un impero nel Corno d’Africa sia alla carriera politica del Primo Ministro Francesco Crispi, principale fautore della campagna africana. La sconfitta di Adua contribuì ad alimentare ulteriormente la disaffezione verso lo Stato da parte dell’opinione pubblica, da sempre in gran parte contraria alle imprese coloniali.

Quella che usciva dalla difficile “crisi di fine secolo” era dunque un’Italia lacerata dai conflitti sociali nella quale il governo era espressione di una ristretta classe dirigente mentre le grandi forze popolari, cattolici e socialisti, erano estranee od ostili allo Stato liberale risorgimentale. L’allentamento delle tensioni fu favorito certamente dall’atteggiamento conciliante del Governo Saracco, che rinunciò ai metodi repressivi del precedente esecutivo guidato dal Generale Luigi Pelloux, inaugurando una fase di distensione della vita politica italiana. L’azione del governo fu agevolata dall’ascesa al trono del nuovo sovrano Vittorio Emanuele III, il quale si dimostrò assai più disposto del padre ad assecondare l’affermazione delle forze progressiste.

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Una trafficata Piazza Duomo a Milano nei primi anni del ‘900. Allora l’Italia stava vivendo un primo boom economico.

Un altro fattore che indubbiamente favorì la pace sociale fu il buon andamento dell’economia nazionale. A partire dagli ultimi anni del XIX secolo infatti, l’Italia conobbe il suo primo autentico decollo industriale potendo anche approfittare della favorevole congiuntura economica internazionale cominciata nel 1896. Il primo “miracolo economico” italiano fu favorito dagli investimenti infrastrutturali effettuati dallo stato nel primo quarantennio di vita unitaria oltre che dal riordino del sistema bancario attuato a seguito dello scandalo della Banca Romana. Particolarmente importante fu la costituzione di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano, avvenuta nel 1894 con l’apporto di capitali tedeschi e per interessamento del Governo allora guidato da Crispi.

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Manifesto pubblicitario della fabbrica di biciclette Prinetti Stucchi. In quegli anni la bicicletta conobbe una diffusione di massa.

Le due banche, entrambe ispirate al modello della “banca mista”, svolsero un’azione decisiva nel facilitare l’afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali, sopratutto nei settori più moderni. In pochi anni nacque il primo nucleo dell’industria pesante, quello attorno al quale ruoterà negli anni successivi gran parte dell’economia nazionale.

In termini complessivi tra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita dell’Italia fu del 6,7% annuo, superiore a qualunque altro Paese europeo nello stesso periodo. Il volume della produzione industriale raddoppiò mentre la quota dell’industria alla formazione del prodotto nazionale passò dal 20% del periodo compreso tra il 1880 e il 1900 al 25% nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra mondiale. Parimenti crebbe anche il reddito medio pro capite, che salì a 2.259 lire contro le 1.906 del decennio precedente. L’accresciuto benessere consentì agli italiani di destinare una parte del proprio reddito all’acquisto di beni durevoli come biciclette, macchine per cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che timidamente facevano capolino sul mercato nazionale.

Nonostante tutto però il livello di vita dei nostri connazionali nel primo quindicennio del secolo scorso restò di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi più sviluppati come Regno Unito, Germania o Stati Uniti. Infine, come sarebbe accaduto anche nel secondo “boom economico”, anche a inizio Novecento si registrò un “baby boom”: la popolazione aumentò di 3 milioni di individui (4 contando anche coloro che lasciarono l’Italia per trasferirsi all’estero) portando il numero degli abitanti della Penisola a 35 milioni di persone.

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Copertina della rivista satirica L’Asino, che mette alla berlina il trasformismo di Giolitti.

L'”Italietta” liberale di inizio Novecento era dunque una nazione giovane, oggi diremmo “in via di sviluppo”, che, seppur a fatica e in mezzo a mille contraddizioni, procedeva a passo deciso verso la modernizzazione. L’uomo che più di ogni altro fu protagonista di questa fase della nostra Storia fu senza dubbio il piemontese Giovanni Giolitti, al punto che ancora oggi nei manuali di Storia si usa indicare il periodo compreso fra l’inizio del secolo e lo scoppio della Grande Guerra col nome di “Età giolittiana”. Tra il 1903 e il 1914 Giolitti ricoprì per ben tre volte la carica di Presidente del Consiglio, attuando una politica di neutralità nelle lotte tra lavoratori e padronato industriale e mettendo in cantiere una serie di importanti riforme in campo economico, sociale, e politico, con la progressiva estensione del diritto di voto a strati sempre più larghi della popolazione. L’azione politica giolittiana non fu tuttavia esente da soluzioni trasformistiche nonché dal ricorso a pratiche corruttive che fecero guadagnare allo statista di Dronero il soprannome di “ministro della malavita” da parte dell’intellettuale pugliese Gaetano Salvemini.

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Gaetano Salvemini (1873-1957). Lo storico pugliese fu strenuo oppositore della guerra di Libia e di Giolitti, da lui definito “ministro della malavita”.

Anche per quanto riguarda gli orientamenti della politica estera gli anni dell’età giolittiana furono forieri di importanti cambiamenti. La sconfitta di Adua del 1896 e la conseguente uscita di scena di Crispi avevano apportato un’inversione di rotta nelle scelte dei governi successivi. Pur senza rinnegare la propria appartenenza alla Triplice, l’alleanza stretta nel 1882 con Germania e Austria-Ungheria, l’Italia attenuò la linea rigidamente filotedesca seguita nel precedente decennio.

Nel 1898 venne quindi firmato un nuovo trattato commerciale con la Francia, ponendo fine alla “guerra doganale” iniziata da Crispi mentre nel 1902 si giunse ad uno scambio di note fra il nostro ministro degli esteri Giulio Prinetti e l’ambasciatore francese a Roma Camille Barrère con cui l’Italia ottenne il riconoscimento dei suoi diritti sulla Libia lasciando nel contempo mano libera alla Francia in Marocco.

Naturalmente il riconoscimento dei diritti francesi sul Marocco non piacque ai tedeschi. Ulteriori tensioni con gli alleati austro-tedeschi scoppiarono nel 1908 quando l’Austria, senza alcuna preventiva consultazione con l’Italia e quindi in aperta violazione al patto della Triplice, procedette all’annessione della Bosnia Erzegovina.

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La copertina de Le Petit Journal che mostra l’annessione della Bosnia da parte dell’Austria, che causò risentimento nell’opinione pubblica italiana.

L’episodio, che mostrava in modo lampante come l’Italia fosse il partner più debole dell’alleanza, provocò uno strascico di malumore nell’opinione pubblica nostrana determinando un clima di riscossa nazionale in cui le vecchie e mai del tutto sopite rivendicazioni irredentistiche sul Trentino e la Venezia Giulia si mescolavano a richieste di una più energica affermazione in campo coloniale. Fu proprio in questo contesto che maturarono i presupposti per la successiva campagna di Libia.

In seguito all’inaugurazione del Canale di Suez nel 1869, il Mediterraneo riacquistò l’importanza strategica persa nel XVI secolo in seguito all’apertura delle rotte oceaniche in quanto esso tornava ad essere un passaggio obbligato per le comunicazioni tra Europa ed Estremo Oriente. l’Italia avrebbe potuto giocare un ruolo nel controllo del Mediterraneo se fosse riuscita ad assicurarsi il controllo di almeno una parte della costa africana. In effetti il nostro Paese aveva lungamente nutrito ambizioni coloniali sulla Tunisia, terra nella quale era presente una numerosa e attiva minoranza di nostri connazionali. Nonostante ciò nel 1881 la Francia occupò il Paese nordafricano ponendo la nostra diplomazia davanti al fatto compiuto. L’episodio, passato poi alla Storia come lo “Schiaffo di Tunisi” generò in Italia un terremoto politico costringendo il Governo Cairoli alle dimissioni.

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Antonino Paternò di San Giuliano (1852-1914), due volte Ministro degli Esteri tra il 1905 e il 1914. Fu tra i più strenui sostenitori dell’impresa libica.

Quando infine, nel 1911, il Governo italiano decise di occupare la Libia, quasi tutta l’Africa settentrionale si trovava già sottoposta in un modo o nell’altro alla dominazione coloniale europea, in particolare francese e britannica. La Francia, dopo la conquista dell’Algeria nel 1830, aveva esteso il suo controllo sulla Tunisia e poi sul Marocco, mentre la Gran Bretagna nel 1882 aveva imposto il proprio protettorato all’Egitto a seguito della repressione della rivolta nazionalista del colonnello Urabi Pascià.

La decisione del Governo italiano di conquistare le regioni della Tripolitania e della Cirenaica, allora sottoposte al dominio dell’Impero Ottomano, maturò in seguito alla seconda crisi marocchina, scoppiata nel luglio del 1911 quando la Germania si oppose all’annessione francese del Marocco. Poiché la questione libica era, come si è detto, legata a quella marocchina, era opportuno che l’Italia cogliesse la palla al balzo e realizzasse i suoi propositi mediante un tempestivo sbarco in Libia. La preoccupazione del ministro degli esteri Antonino Paternò di San Giuliano era dettata dal timore che la Francia, una volta occupato il Marocco, avrebbe potuto rimangiarsi il suo benestare ad un nostro intervento in Libia. 

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Cartolina di propaganda che inneggia alla conquista armata della Tripolitania.

Nonostante la riluttanza e la prudenza di una parte della classe dirigente, l’entusiasmo per l’imminente impresa coloniale contagiò rapidamente la popolazione a riprova di come il Paese avesse ormai dimenticato il trauma delle prime, sfortunate imprese in Africa Orientale. Numerosi intellettuali del resto si domandavano da tempo perchè l’Italia dovesse accontentarsi del rango di potenza di seconda classe e del perchè ogni anni così tanti italiani fossero costretti ad abbandonare la patria in cerca di fortuna all’estero.

Fu allora che il giornalista e scrittore toscano Enrico Corradini formulò una teoria che verrà in seguito sposata anche dal fascismo, quella dell’Italia “nazione proletaria” (dotata cioè di una popolazione eccedente le proprie risorse economiche), in contrapposizione alle “nazioni plutocratiche” come Francia e Gran Bretagna, già padrone di sterminati imperi coloniali.

Corradini, che nel dicembre 1910 era stato tra i fondatori dell’Associazione Nazionalista, dalle colonne del settimanale romano “L’Idea Nazionale” diede inizio ad una martellante campagna di stampa in favore dell’impresa libica nel corso della quale il Paese africano venne presentato ai lettori come una vera e propria terra promessa, fertile e dotata di grandi ricchezze, non mancando di sottolineare gli sbocchi che essa avrebbe potuto fornire ai nostri emigranti.

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Cartina che raffigura il teatro della guerra italo-turca del 1911-12.

I nazionalisti si trovarono alleati con i gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma, che da anni era impegnato in un’operazione di penetrazione economica in Tripolitania e Cirenaica. A questa spinta interventista si aggiunsero anche voci precedentemente insospettabili, come il Premio Nobel per la pace Ernesto Teodoro Moneta e persino il poeta Giovanni Pascoli, che in gioventù aveva pagato col carcere le proprie simpatie socialiste. Quest’ultimo anzi si unì al coro bellicista pronunciando un celebre discorso intitolato “La grande proletaria si è mossa”.

Poche furono invece le voci contrarie alla guerra coloniale, tra cui una delle più autorevoli fu quella di Salvemini, che definì la Libia “uno scatolone di sabbia”. L’opposizione più intransigente al conflitto venne dagli ambienti del sindacalismo rivoluzionario e dai socialisti radicali, come ad esempio Amedeo Bordiga, ma anche Benito Mussolini, oltre che dai repubblicani guidati da Pietro Nenni, che tentarono di bloccare la guerra con dimostrazioni e scioperi di massa.

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Sbarco dei marinai italiani a Tripoli agli inizi di ottobre del 1911.

Ormai ebbra di ardori bellici, tutta l’Italia cantava in coro “Tripoli bel suol d’amore” canzone di propaganda scritta da Giovanni Corvetto destinata a diventare la colonna sonora di quella guerra. A farne un successo fu Gabriele d’Annunzio che ebbe l’idea di farla interpretare alla cantante Gea della Garisenda, che la sera dell’8 settembre 1911 la intonò per la prima volta al Teatro Balbo di Torino presentandosi sul palco vestita unicamente del tricolore, suscitando scandalo nella perbenista società dell’epoca.

La decisione di dare inizio al conflitto con la Turchia per la Libia venne infine presa in gran segreto dal Re Vittorio Emanuele III e da Giolitti in un colloquio al castello di Racconigi il 17 settembre 1911. Venne pertanto allestito un corpo di spedizione di 35 mila uomini al comando del generale Carlo Caneva.

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Mappa che mostra gli scontri italo-turchi nell’autunno del 1911.

Il 28 settembre l’ambasciatore italiano a Istanbul consegnò alla Sublime Porta un ultimatum che fu seguito dalla dichiarazione di guerra il giorno seguente. Già il 3 ottobre ebbe inizio il bombardamento navale di Tripoli e grazie alla maggiore gittata dei nostri cannoni rispetto a quelli avversari, due giorni dopo i primi 1.600 marinai italiani al comando del capitano di vascello Umberto Cagni poterono sbarcare senza incontrare alcuna opposizione. Il comandante tuttavia dovette fare muovere in continuazione le proprie truppe per dare al nemico l’impressione che fossero più numerose ed evitare così un possibile contrattacco in forze in attesa dello sbarco del corpo di spedizione principale, avvenuto l’11 ottobre.

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Ufficiali turchi in Libia. Tra loro, quarto da sinistra, si trova anche Mustafa Kemal, il futuro Ataturk.

Per il 21 gli italiani si erano impadroniti dei principali centri costieri come Homs in Tripolitania e Derna e Tobruch in Cirenaica. Soltanto a Bengasi i reparti guidati dal generale Giovanni Amaglio incontrarono un’accanita resistenza.

La spedizione libica tuttavia dimostrò presto di non essere quella passeggiata militare pronosticata dai fautori dell’intervento. Le tribù arabe dell’interno infatti, fomentate dagli stessi ottomani, si unirono alle poche forze turche di stanza in Libia (appena 5 mila uomini in Tripolitania e 2 mila in Cirenaica) nella resistenza contro gli italiani. Già il 23 ottobre, presso il villaggio di Sciara Sciat i ribelli arabi sorpresero e sterminarono due compagnie di bersaglieri. La reazione delle truppe occupanti fu brutale con rastrellamenti indiscriminati, esecuzioni sommarie e deportazioni, azioni che vennero duramente condannate sulla stampa internazionale. Si infranse così la fallace convinzione diffusa nello Stato Maggiore e ripresa dalla propaganda bellicista, secondo cui l’occupazione italiana avrebbe potuto essere agli occhi degli indigeni libici, se non gradita, comunque accettata come il male minore.

Ribelli senussi impiccati dagli italiani a Tripoli nel 1911.

La feroce guerriglia messa in atto dalla popolazione locale costrinse gli italiani a trincerarsi lungo la costa ma nonostante ciò il 5 novembre un regio decreto, poi convertito in legge il 23 febbraio 1912 proclamò la sovranità italiana sulle regioni di Tripolitania e Cirenaica. Per venire a capo della resistenza, che in particolare nella Cirenaica venne coordinata dalla confraternita musulmana dei Senussi, l’Italia arrivò a schierare nel teatro africano 100 mila soldati e una gran quantità di mezzi militari tra cui i primi aerei, che per la prima volta trovarono impiego in un conflitto armato svolgendo missioni di ricognizione e anche di bombardamento.

Le difficoltà incontrate sul fronte africano indussero infine il governo italiano a spostare l’offensiva nell’Egeo contando che la superiorità della nostra flotta avrebbe indotto il governo sultaniale a rinunciare alle province africane. Il 18 aprile 1912 la Regia Marina bombardò i forti sugli Stretti mentre il mese successivo un corpo di spedizione navale occupò Rodi e le altre isole del Dodecanneso.

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Durante il conflitto in Libia gli italiani impiegarono i primi, rudimentali apparecchi. Si trattò del primo impiego in assoluto dell’arma aerea nel corso di una guerra.

I successi italiani nell’Egeo indussero l’Impero Ottomano a intavolare trattative di pace a partire dall’estate del 1912 che portarono il 18 ottobre dello stesso anno alla firma del Trattato di Pace di Losanna. In base ai termini dell’accordo il governo turco, pur non riconoscendo la sovranità italiana sulle province libiche, si impegnava a ritirare le proprie truppe e i propri funzionari dalla Tripolitania e dalla Cirenaica in cambio del ritiro italiano dal Dodecanneso, che tuttavia non avrà luogo per l’inadempienza dei turchi, che lasceranno alcuni loro presidi nella Cirenaica dove avrebbero continuato a combattere contro i nostri soldati sotto il comando del colonnello Ismail Enver. Il Trattato di Losanna, quindi, non prevedeva “la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia” sulla Tripolitania e la Cirenaica, come dichiarato unilateralmente dal nostro governo nel decreto del 5 novembre 1911, bensì la sola amministrazione civile e militare italiana – una sorta di protettorato – su un territorio che giuridicamente continuava a far parte dell’Impero Ottomano.

La firma del trattato di Losanna (18 ottobre 1912) da una copertina della Domenica del Corriere.

La guerra era costata all’Italia 3.431 morti, dei quali quasi 2 mila per malattia, 4.200 feriti, la perdita o al logorio di una gran quantità di materiale bellico, che farà sentire le sue conseguenze qualche anno dopo al momento dell’ingresso nella Grande Guerra, oltre ad una spesa complessiva di 1 miliardo di lire che aveva aperto una voragine nei nostri conti pubblici. Nonostante l’impegno profuso la Libia si rivelò davvero lo “scatolone di sabbia” preannunciato da Salvemini: contrariamente a quanto affermato dalla propaganda nazionalista alla vigilia della guerra, si capì presto che la nuovo colonia era sostanzialmente arida, inospitale e priva di risorse (nessuno allora poteva immaginare che sotto quelle sabbie si nascondessero vasti giacimenti petroliferi).

Le regioni appena conquistate poi, al momento della firma della pace con l’Impero Ottomano erano tutt’altro che pacificate: la presenza italiana in terra libica si ridusse per anni alla sola fascia costiera anche a causa del successivo intervento del nostro Paese nel primo conflitto mondiale, che comportò il ritiro di gran parte delle truppe di presidio. Dopo la fine della Grande Guerra l’Italia, prima liberale e poi, dal 1922, fascista, intraprese una vera e propria riconquista dei territori in mano agli insorti libici facendo uso di metodi brutali, che inclusero il ricorso ai gas tossici, nonché a esecuzioni sommarie e alla deportazione in appositi campi di concentramento di intere popolazioni accusate di appoggiare i guerriglieri.

Poster celebrativo della Lega balcanica che recita: “I Balcani uniti contro il tiranno”

Le operazioni militari si conclusero nel gennaio 1932 quando il generale Pietro Badoglio, Governatore della Tripolitania e della Cirenaica, poté comunicare a Mussolini l’avvenuta pacificazione di entrambe le province.

Mentre l’Italia era impegnata a contare le perdite e a fare un bilancio dell’avventura africana le piccole nazioni balcaniche, Grecia, Serbia, Bulgaria e Montenegro, galvanizzate dalle nostre azioni navali contro gli ottomani, l’8 ottobre 1912 dichiararono guerra alla Turchia che si arrese il 30 maggio dell’anno successivo. Al tavolo della pace i turchi furono espulsi definitivamente dall’Europa, conservando unicamente la regione della Tracia orientale. Dopo la prima, i vincitori si scannarono fra loro per la divisione del bottino in una seconda guerra balcanica. Questi conflitti rafforzarono in particolare l’agguerrito Regno di Serbia che ormai non faceva mistero di voler riunire tutti gli slavi del sud sotto il proprio scettro il che non poteva che inasprire i già difficili rapporti con l’Austria. Non c’è dunque da stupirsi che la scintilla destinata a incendiare l’Europa esplose proprio nel Balcani, a Sarajevo, quel fatale 28 giugno 1914.

Bibliografia:

  • N. Labanca, La guerra italiana per la Libia. 1911-1931
  • G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi
  • G. Mammarella & P. Cacace, La politica estera dell’Italia – Dallo Stato unitario ai giorni nostri
  • I. Montanelli, L’Italia di Giolitti 1900-1920

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