STORIA DEI LONGOBARDI DALLE ORIGINI ALLA CONQUISTA FRANCA
Verso la fine dell’VIII secolo, quando da ormai diversi anni l’antico regno longobardo era stato assoggettato da Carlo Magno, Paolo Diacono, monaco longobardo dell’abbazia di Montecassino, mise per iscritto la storia del suo popolo. Il risultato fu la stesura della Historia Langobardorum, opera in sei libri redatta in latino.

In essa l’autore risale sino alle leggendarie origini del Longobardi, da collocarsi in un passato dai contorni eroici e mitologici. Per quanto lo stesso autore, ecclesiastico cristiano, definisca questi fatti “cose degne di riso”, è interessante notare come queste storie, legate al passato pagano delle genti longobarde, si siano conservate come parte di una tradizione trasmessa alle generazioni successive a riprova di un sentimento identitario ancora vivo e vitale dopo tanti anni.
Paolo Diacono riferisce che i Longobardi, inizialmente noti con il nome di “Winnili”, erano originari della regione svedese della Scania. I loro primi capi furono i leggendari gemelli duces Ibor e Aio, figli della sacerdotessa Gambara, esponenti di quella numerosa schiera di fratelli semidivini presenti anche in altri racconti mitologici. Sotto la loro guida, i Winnili intrapresero una prima migrazione che li portò ad attraversare il Mar Baltico per stabilirsi nella regione della Scoringa, nell’odierna Germania settentrionale. Qui i nuovi arrivati entrarono presto in conflitto con i Vandali. Paolo Diacono prosegue il suo racconto narrando che questi ultimi rivolsero le loro preghiere a Odino, nume della guerra, affinché concedesse loro la vittoria in battaglia. Il padre degli dei rispose affermando che avrebbe attribuito la vittoria al popolo che avrebbe visto per primo il giorno dello scontro.

Gambara, sacerdotessa di Freya, moglie di Odino, si rivolse allora alla dea, la quale consigliò di presentarsi sul campo di battaglia tutti insieme, uomini e donne, e che queste ultime si sciogliessero i capelli fin sotto il mento come fossero barbe. Al sorgere del sole Freya fece sì che Odino si girasse dalla parte dei Winnili e il dio, quando li vide, chiese “Chi sono questi lunghe-barbe?” al che la dea rispose “Poiché hai dato loro il nome, dai loro anche la vittoria!”. E così avvenne. Così, da allora i Winnili presero il nome di Longobardi, da langbart, che significa appunto “lunga barba”.
A livello storiografico, la prima menzione del popolo dei Longobardi risale alla fine del I secolo d.C. ed è contenuta nell’opera Germania dello storico latino Tacito che li citò tra le popolazioni barbariche affrontate dai Romani al tempo dell’Imperatore Augusto. I Longobardi fanno nuovamente la loro comparsa alcuni decenni dopo tra le tribù germaniche protagoniste delle cosiddette guerre marcomanniche (166-189 d.C.) combattute all’epoca di Marco Aurelio. I Longobardi vennero descritti come un popolo essenzialmente nomade: nel corso dei secoli migrarono attraverso l’Europa centrale dal bacino del fiume Elba a quello del Danubio. Nel 489, guidati da Re Godehoc, della dinastia dei Lethingi, si stabilirono nel Rugiland, regione in gran parte spopolata corrispondente all’attuale Austria settentrionale. Di qui, agli inizi del VI secolo, i Longobardi si spostarono nella vicina regione del Feld. Sotto la guida di Tatone si ribellarono agli Eruli, sconfiggendoli e uccidendone il sovrano. La vittoria consentì ai Longobardi di rafforzarsi, integrando i guerrieri nemici superstiti nei propri ranghi e occupando una vasta area lungo il medio corso del Danubio.

Nel 510 il principe Vacone spodestò lo zio Tatone e si proclamò Re, estromettendo dalla successione il cugino Ildichi, costretto a riparare presso i Gepidi. Paolo Diacono fa risalire a questo fatto l’inimicizia tra i due popoli. A quest’epoca risalgono pure i primi contatti con l’Impero Romano d’Oriente, con il quale i Longobardi strinsero legami di alleanza, diventandone foederati. Contingenti di guerrieri longobardi verranno quindi integrati nelle armate imperiali, combattendo sia in Italia durante la guerra greco – gotica (535-553) sia in oriente nel corso delle campagne contro la Persia sassanide. Sempre guidati da Vacone, intorno al 520 i Longobardi si stabilirono nella ex provincia romana della Pannonia (odierna Ungheria nord-occidentale). I Longobardi sarebbero rimasti in questa regione per circa mezzo secolo prima di migrare alla volta dell’Italia. La loro permanenza in Pannonia fu segnata dal conflitto con i vicini Gepidi. Durante queste guerre emerse la figura di Alboino, figlio di Re Audoino, della stirpe dei Gausi, sovrano dei Longobardi tra il 547 e il 560.

Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum ci ha trasmesso la memoria delle imprese di Alboino. Il nostro autore racconta come nel 551 si combatté una grande battaglia tra Gepidi e Longobardi, che vide la vittoria di questi ultimi. Nel corso dello scontro Alboino uccise di sua mano il principe gepida Torrismondo, figlio del Re Turisindo. Nonostante il valore dimostrato in combattimento, Audoino negò al figlio il diritto di sedere alla sua destra durante il banchetto organizzato quella sera poiché secondo “il costume del suo popolo” non poteva ammetterlo alla sua mensa se prima non avesse “ricevuto le armi dalle mani di un Re straniero”. Allora Alboino con quaranta armati si recò dal Re dei Gepidi a chiedergli di ricevere da lui le armi del figlio defunto. Dopo una prima, pacifica, accoglienza, esplose tuttavia la rabbia dei nobili gepidi contro i Longobardi. Solo l’intervento di Turisindo valse a evitare che il principe longobardo e suoi guerrieri venissero linciati. Alboino ricevette allora le armi di Torrismondo e poté tornare incolume dal proprio padre.
Divenuto Re intorno al 560, Alboino affrontò ancora i Gepidi guidati allora da Cuniperto, fratello minore di Torrismondo. La battaglia si risolse in una nuova vittoria longobarda e Cuniperto cadde ucciso. Alboino decapitò il cadavere del rivale e dal suo cranio ne ricavò una coppa. A seguito della disfatta la figlia del sovrano gepida, Rosmunda, fu fatta prigioniera dai Longobardi e costretta a sposare Alboino. Attraverso questo matrimonio i Gepidi vennero assorbiti completamente dal popolo vincitore. A seguito della vittoria i Longobardi si trovarono a diretto contatto con i temibili Avari, una popolazione affine agli Unni che aveva costituito un forte regno nell’area del basso Danubio. La pressione di questi bellicosi dirimpettai fu probabilmente la ragione che determinò nei Longobardi il proposito di cercarsi una nuova sede. La scelta della destinazione cadde sull’Italia, probabilmente favorita dai racconti dei veterani che avevano preso parte alla guerra greco – gotica nei ranghi dell’esercito bizantino.

Così, il giorno successivo alla Pasqua, nell’anno del Signore 568, guidato da Alboino, l’intero popolo dei Longobardi diede inizio alla sua marcia verso l’Italia. Oltre a loro giunsero nella Penisola anche altre popolazioni, da essi precedentemente vinte e assorbite come i Gepidi, ma anche Sarmati, Svevi, Pannonici, Norici, oppure alleate, come i Sassoni. Quanti fossero gli invasori non lo sappiamo con certezza: le stime vanno dalle 80 alle 200 mila persone per arrivare fino alla cifra inverosimile di 400 mila individui. Più probabilmente il numero delle persone coinvolte nella migrazione era vicino alle 150 mila, con una forza combattente di 60-80 mila guerrieri. Si tratta in ogni caso di cifre di tutto rispetto per le elementari strutture logistiche di queste popolazioni. Paolo Diacono riporta che i Longobardi vennero attirati in Italia dall’esarca di Ravenna Narsete, già vincitore della guerra contro i Goti, il quale era in urto con l’imperatore Giustino II e la corte di Costantinopoli. Tuttavia gli storici moderni tendono a considerare questa storia priva di fondamento e che essa sia soltanto un’invenzione tesa a legittimare la conquista longobarda della Penisola.
Con ogni probabilità la migrazione prese le mosse a partire dall’area del lago Balaton per poi proseguire verso sud-est sino alle Alpi Giulie seguendo il tracciato delle strade romane. È verosimile che lo spostamento dell’orda sia stato preceduto da un contingente d’avanguardia incaricato di sgombrare ogni ostacolo. Lo spostamento dell’intero popolo, comprendente interi nuclei famigliari con bestiame e masserizie, deve essere stato comprensibilmente lento. È improbabile che i Longobardi abbiano intrapreso il passaggio dei valichi alpini nel corso della cattiva stagione, motivo per cui si suppone che essi siano giunti in Italia già nell’autunno del 568 o nella primavera dell’anno successivo.

Una leggenda riporta che Alboino avrebbe contemplato dall’alto del monte Matajur la terra che lui e la sua gente si accingevano a conquistare, in un biblico parallelo fra il sovrano e Mosè sul monte Nebo e fra i Longobardi e il popolo d’Israele. In ogni caso vent’anni di conflitti sanguinosi uniti a devastanti epidemie di peste avevano fatto sì che alla metà del VI secolo l’Italia non fosse certo una “terra promessa” in cui scorresse latte e miele: le città e la vita sociale erano in serio declino, l’economia agricola distrutta e i traffici commerciali malridotti anche a causa della generale insicurezza delle vie di comunicazione terrestri e marittime.
La prima tappa degli invasori fu la città fortificata di Forum Iulii (l’odierna Cividale del Friuli). Gli studiosi hanno escluso una resistenza armata ai nuovi venuti, data la mancanza di fonti documentarie o archeologiche in tal senso. Questo si accorderebbe anche con quanto scritto da Paolo Diacono, il quale afferma che la conquista longobarda del Friuli avvenne “senza ostacolo alcuno”. A quel punto Alboino assegnò la regione al nipote e scudiero Gisulfo, che divenne così il primo dei duchi longobardi.

Allo scopo di meglio difendere gli strategici passi alpini a Gisulfo venne assegnato il comando sulle migliori farae, ossia quei clan di famiglie legate tra loro da vincoli di parentela e costituiva la struttura di base su cui si reggeva l’organizzazione sociale e militare del popolo longobardo. Lo stanziamento di questi gruppi sul territorio è testimoniato ancora oggi da toponimi (es. Farra di Soligo, Fara Gera d’Adda, Farra d’Isonzo) sparsi per tutta l’Italia settentrionale.
L’irruzione dei Longobardi in Italia incontrò diverse reazioni da parte degli indigeni italici e delle gerarchie ecclesiastiche: ondate di profughi fuggirono verso territori ancora sotto controllo bizantino come avvenne nel caso di coloro dalla terraferma cercarono scampo nelle paludi della laguna veneta dando vita ad una serie di piccoli insediamenti dai quali ebbe origine la città di Venezia. Anche taluni presuli scelsero di lasciare le proprie sedi trasferendosi altrove come fecero ed esempio il vescovo di Aquileia Paolino e quello di Milano Onorato, fuggiti rispettivamente a Grado e a Genova. Il vescovo di Treviso Felice, invece, andò incontro ad Alboino sul Piave e gli consegnò la sua città evitando inutili spargimenti di sangue.

Con la restante parte del suo popolo in armi, Alboino proseguì verso ovest conquistando rapidamente Aquileia, Vicenza e Verona. Successivamente aprirono le porte agli invasori Milano e Lucca mentre nel 572, dopo tre anni di assedio, si arrese anche Pavia, che divenne la capitale del regno. Se si esclude il caso di Pavia, la cui prolungata resistenza farebbe presupporre un sostegno da parte imperiale, nel complesso le guarnigioni bizantine offrirono poca resistenza. Probabilmente ciò era dovuto al fatto che il governo imperiale considerava l’area padana come “sacrificabile” in caso di invasione da Oltralpe. In ogni caso, con le forze romane già impegnate su altri fronti, Alboino poté mantenere l’iniziativa superando gli Appennini e penetrando in Toscana. Successivamente bande longobarde si sarebbero spinte ancora più a sud, gettando le basi di quelli che sarebbero diventati i ducati di Benevento e Spoleto. Rimasero così in mano imperiale soltanto le zone costiere come la Liguria, il litorale delle Venezie, la Puglia, la Calabria, le isole maggiori, oltre alla Pentapoli (territorio sulla costa marchigiana comprendente le città di Fano, Rimini, Pesaro, Senigallia e Ancona), alla Romagna e alla zona di Roma, collegata a Ravenna dal cosiddetto “corridoio bizantino”, una linea di fortificazioni tra Marche e Umbria. l’Italia insomma con l’arrivo dei Longobardi perse la sua unità politica, che non avrebbe più ritrovato fino alla conclusione delle campagne risorgimentali, negli Anni Sessanta dell’Ottocento!

Poco dopo la presa di Pavia Alboino restò ucciso in una congiura di palazzo ordina dalla regina Rosmunda e del suo amante Elmichi, fratello di latte dello stesso Alboino. Il coinvolgimento bizantino nel regicidio pare confermato dalla successiva fuga degli assassini a Ravenna, dove poi l’esarca Longino tentò di sposare Rosmunda. La morte di Alboino, privo di eredi maschi, segnò la prematura fine della dinastia dei Gausi dopo appena due generazioni. I duchi longobardi a quel punto acclamarono come loro sovrano Clefi, del casato di Beleos, che però venne assassinato dopo nemmeno due anni di regno. Così nel 574 i Longobardi abbandonarono del tutto la regalità operando alla stregua di una libera confederazione di duchi. Questa situazione è imputabile con ogni probabilità alla corruzione degli stessi duchi da parte dell’Imperatore d’Oriente Tiberio II. Il suo successore, Maurizio (r. 582-602) invitò il sovrano franco Childeberto II ad attaccare i Longobardi nel Nord Italia.

Di fronte alla minaccia di un’offensiva congiunta franco-bizantina i Longobardi tornarono a darsi un capo unitario nella persona di Autari figlio di Clefi. Questi affrontò e sconfisse i Franchi, ricacciandoli al di là delle Alpi mettendo inoltre a tacere le ultime sacche di resistenza bizantine ancora attive nell’Italia settentrionale come quella facente capo al magister militum Francione, operante nella zona del Lario e avente come base l’isola Comacina. Autari agì con pugno di ferro anche contro quei duchi longobardi ribelli alla sua autorità come Grasulfo del Friuli.
Autari cercò di presentarsi come sovrano non solo dei suoi Longobardi ma di tutti gli abitanti del suo regno, motivo per cui assunse il titolo di Flavius, continuando una tradizione che risaliva a Odoacre da Teodorico il Grande. Sempre allo scopo di rafforzare la propria autorità prese in moglie la principessa bavara Teodolinda, discendente in linea femminile dalla prestigiosa casata longobarda dei Lethingi.

Teodolinda era cattolica, a differenza del marito che come gran parte dei suoi duchi era invece ariano, ossia seguace di una dottrina cristiana eretica che riteneva il Figlio inferiore rispetto al Padre. Autari in ogni caso non si convertì al cattolicesimo e anzi, il giorno di Pasqua del 590, emanò un decreto nel quale faceva divieto ai Longobardi di battezzare i propri figli secondo il rito cattolico.
Di lì a poco, il 5 settembre del 590, Autari morì improvvisamente. Secondo Paolo Diacono infatti il Re sarebbe stato avvelenato. Rimasta vedova, Teodolinda ebbe la possibilità di scegliersi il futuro marito, che sarebbe diventato il nuovo sovrano dei Longobardi. La scelta della regina cadde su Agilulfo, Duca di Torino, appartenente al clan degli Anawas, cognato del predecessore in quanto a sua volta vedovo di una sorella di Autari della quale tuttavia ignoriamo il nome. Valoroso guerriero, Agilulfo, dopo avere stipulato una pace con i Franchi, guerreggiò vittoriosamente contro i bizantini, allora impegnati ad oriente con i persiani. Le campagne di Agilulfo, che giunse persino a minacciare Roma nel 593 salvo poi ritirarsi dietro versamento di un tributo, indussero il neo imperatore bizantino Foca (r. 602-610) a stipulare una tregua con il sovrano longobardo.

Forte dei successi conseguiti, nel 604 Agilulfo associò al trono il figlioletto Adaloaldo, di appena due anni, nato dal matrimonio con Teodolinda. La cerimonia si svolse secondo un cerimoniale di tipo bizantino all’ippodromo di Milano. La città, antica capitale imperiale d’Occidente, fu scelta da Agilulfo come propria sede al posto delle “barbariche” Verona e Pavia, mentre Monza divenne la residenza estiva della corte longobarda. Come già Autari, anche Agilulfo volle presentarsi come sovrano di tutti gli abitanti del suo regno, ragion per cui designò sé stesso “Gratia Dei rex totius Italiae” (Re di tutta Italia per grazia di Dio). Accanto alla rivendicazione dell’unità tra Longobardi e Latini, per la prima volta nella storia longobarda compariva un riferimento alla volontà divina nella legittimazione del monarca. Sotto Agilulfo, grazie all’influenza di Teodolinda e di Papa Gregorio Magno, ebbe inizio il processo di conversione dei Longobardi al cattolicesimo romano, testimoniato fra l’altro dal battesimo dell’erede Adaloaldo secondo il rito cattolico.
Agilulfo scomparve nel 616, al termine di un regno durato venticinque anni. Fatto non trascurabile, fu il primo sovrano longobardo a morire di morte naturale. Gli succedette l’ancora minorenne erede designato Adaloaldo, assistito negli affari di stato dalla regina madre, Teodolinda. Ella proseguì la sua politica filo-cattolica e di pacificazione con i bizantini, suscitando però una sempre più decisa opposizione da parte della componente ariana della nobiltà longobarda.

La ribellione esplose infine nel 624 e fu capeggiata da Arioaldo, Duca di Torino e cognato di Adaloaldo in quanto marito di sua sorella Gundeperga. Adaloaldo venne così deposto e il trono fu usurpato da Arioaldo. Quest’ultimo, nel corso degli undici anni del suo regno dovette fare fronte alle minacce esterne rappresentate dai Franchi e dagli Avari. Riportò inoltre la capitale a Pavia, tradizionale sede dei monarchi longobardi fin dai tempi di Alboino. Alla sua morte, nel 636, similmente a quanto accaduto con Teodolinda, la regina vedova Gundeperga ebbe la facoltà di scegliersi un nuovo sposo destinato a diventare il futuro sovrano. La scelta cadde sull’ariano Rotari, già Duca di Brescia.
Rotari fu senza dubbio uno dei maggiori sovrani longobardi. Valoroso guerriero, guidò il suo esercito in una serie di vittoriose campagne militari che valsero ai Longobardi il pressochè totale controllo dell’Italia settentrionale, sconfiggendo le forze bizantine in una sanguinosa battaglia combattuta nei pressi del fiume Panaro nel corso della quale cadde lo stesso esarca di Ravenna Isacio. La memoria di Rotari è tuttavia legata all’Editto che porta il suo nome, emanato nel 643 probabilmente alla vigilia della spedizione che portò alla conquista longobarda della Liguria. L’opera, redatta in latino, raccoglieva l’intero corpo delle leggi longobarde, che fin lì erano state tramandate soltanto oralmente. L’Editto tuttavia introduce anche una significativa novità costituita dalla proibizione della faida, ossia la vendetta privata.

Nel tentativo di porre fine alla spirale di delitti generata da questo primitivo sistema di giustizia, fu introdotto il guidrigildo, un risarcimento monetario volto a indennizzare il danneggiato e i suoi parenti. Tale somma variava a seconda dell’offesa e naturalmente dello status sociale della vittima: un uomo libero valeva, ad esempio, meno di una donna, ma più di un servo. Occorre specificare che a differenza di quel che potremmo pensare noi moderni l’Editto non si applicava a tutti gli abitanti del regno bensì solamente ai sudditi di stirpe longobarda mentre gli indigeni italici restavano soggetti al diritto romano, codificato a quell’epoca nel Digesto promulgato dall’imperatore Giustiniano I nel 533. Soltanto diversi decenni dopo, con la piena integrazione tra Longobardi e Romani, l’Editto venne applicato anche a questi ultimi, perdendo le sue caratteristiche di diritto personale. Dopo la morte di Rotari, avvenuta nel 652, il trono passò a suo figlio Rodoaldo, il quale dopo appena cinque mesi di regno fu ucciso per vendetta da un uomo a cui il sovrano aveva stuprato la moglie.
La successione fu allora raccolta da Ariperto, Duca di Asti, imparentato con la dinastia bavarese in quanto cugino della Regina Gundeperga e nipote di Teodolinda, sorella di suo padre Gundoaldo. L’elezione del cattolico Ariperto significò di fatto il definitivo tramonto dell’arianesimo tra i Longobardi: probabilmente esagerando Paolo Diacono scrisse che il Re “eliminò l’eresia ariana”. Di Ariperto sappiamo inoltre che quando morì nel 661, egli, unico fra i monarchi longobardi, divise il regno tra i due figli maschi, Pertarito e Godeperto, seguendo una consuetudine in voga tra i Franchi.
Pertarito stabilì la propria capitale a Milano mentre Godeperto scelse Pavia. La diarchia in ogni caso entrò in crisi già l’anno successivo, nel 662, quando Godeperto venne spodestato e ucciso dal cognato, il Duca di Benevento Grimoaldo, il quale fu eletto Re di tutti i Longobardi dopo avere costretto Pertarito all’esilio presso i vicini Avari. Con Grimoaldo tornava sul trono la stirpe dei Gausi: il nuovo Re era infatti discendente di Gisulfo I del Friuli, a sua volta nipote del grande Alboino. Un altro elemento di discontinuità con la precedente dinastia era rappresentato dal fatto che Grimoaldo non fosse cattolico bensì ariano.
Alla morte di Grimoaldo, nel 671, Pertarito rientrò dall’esilio e pose fine all’effimero regno di Garibaldo, erede minorenne di Grimoaldo. Pertarito diede un forte sostegno all’opera evangelizzatrice della Chiesa cattolica nei confronti delle minoranze religiose ariane e pagane. A livello di politica estera nel 680 concluse una “pace eterna” con l’impero bizantino, ottenendo il formale riconoscimento della sovranità longobarda su gran parte della Penisola in cambio della cessazione di ogni attacco verso quei territori italiani ancora in mano bizantina (l’Esarcato, Roma, la Pentapoli, Puglia e Calabria). Quello stesso anno associò al trono il figlio Cuniperto.
L’investitura del figlio da parte di Pertarito non venne gradita da una parte della nobiltà, che non vedeva di buon occhio l’affermarsi della soluzione ereditaria per la successione al trono a discapito di quella tradizionale elettiva. Gli oppositori si sentivano al tempo stesso privati della prospettiva, tradizionalmente imperante tra i Longobardi, di ulteriori operazioni militari di conquista a causa della politica di pacificazione. Per questi motivi scoppiò una rivolta guidata dal Duca di Trento Alachis. Pertarito riuscì a rintuzzare la ribellione seppur a prezzo di grosse concessioni territoriali. In ogni caso dopo la sua morte, avvenuta nel 688, Alachis tornò a sollevarsi, coalizzando nuovamente intorno a sé gli oppositori alla politica filo-cattolica della dinastia bavarese. Il nuovo Re, Cuniperto, fu inizialmente sconfitto e costretto a rifugiarsi sull’Isola Comacina; soltanto nel 689 riuscì a venire a capo della ribellione, sconfiggendo e uccidendo Alachis nella battaglia di Coronate, presso il fiume Adda.

Dopo la morte di Cuniperto (700) si aprì una fase di instabilità che determinò, in ultima analisi, la fine del dominio della dinastia bavarese. Nel 712 l’ultimo sovrano della casata, Ariperto II, venne sconfitto in battaglia dal Duca di Asti Ansprando, rientrato in Italia dall’esilio bavarese alla testa di un esercito. Ariperto diede prova di viltà e fu abbandonato dai suoi stessi sostenitori. Morì annegato nel Ticino spianando la strada verso il trono ad Ansprando, uno dei tutori del figlio di Cuniperto, Liutperto (r. 700-702). A lui succedette il figlio Liutprando, il cui regno, durato trentadue anni, dal 712 al 744, fu il più lungo della storia longobarda. Liutprando venne descritto da Paolo Diacono come “uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà e amante della pace, fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto, virtuoso, instancabile nel pregare, largo nelle elemosine, ignaro sì di lettere ma degno di essere paragonato ai filosofi, padre della nazione, accrescitore delle leggi”.

Al di là del carattere agiografico e celebrativo della descrizione, Liutprando fu senza dubbio il più grande dei sovrani longobardi. La sua estesa attività legislativa, scandita in sessioni annuali che avevano luogo a partire dal 1° marzo, contribuì ad completare e aggiornare l’Editto di Rotari. Risulta evidente come il sovrano svolgesse regolarmente le funzioni di giudice, poiché molte delle leggi da lui emanate sono generalizzazioni di specifiche sentenze su quesiti giuridici alquanto particolari, come per esempio su chi ricadesse la responsabilità se un uomo fosse stato ucciso per effetto della caduta sulla testa di un contrappeso di un pozzo mentre la vittima stava attingendo l’acqua, o a quanto dovesse ammontare la multa da comminare a un uomo reo di avere rubato i vestiti a una donna mentre questa faceva il bagno.

Liutprando poi fece guerra con una regolarità quasi pari a quella del suo celebre contemporaneo Carlo Martello. Suoi avversari non furono soltanto i bizantini ma anche i Duchi longobardi del Meridione. Mentre Spoleto, entro il decennio 740-50, fu assorbita nella struttura di potere del regno, Benevento, più ricca e più lontana, conservò una certa autonomia per quanto Liutprando si riservò in diverse occasioni la possibilità di nominarne i duchi.
Nel 720 attaccò Ravenna, distrusse Classe e occupò una serie di fortezze fra cui Bologna e Osimo. Nella sua marcia verso Roma occupò temporaneamente anche il borgo di Sutri e altri castelli del Ducato Romano. Ulteriori successi vennero conseguito nella Pentapoli dopo il 730. Contemporaneamente Bisanzio non fece nulla per migliorare le proprie posizioni in Italia, anzi, nel 726 il Basileus Leone III emanò un decreto con cui vietava in tutto il territorio dell’Impero il culto delle immagini sacre, provocando numerosi tumulti in tutta Italia, dove invece questa pratica era assai popolare. Un tentativo dell’esarca bizantino Paolo di imporre il divieto imperiale scacciando il Papa fu contrastato da Longobardi, soprattutto in Toscana e a Spoleto. In questo periodo, nel quadro di un tentativo di distensione con la Chiesa, si va a collocare la famosa Donazione di Sutri del 728 con la quale Liutprando cedette appunto Sutri oltre ad altre località nel Lazio a Papa Gregorio II. Questa cessione territoriale secondo la dottrina ottocentesca (che ingigantiva un episodio abbastanza insignificante) sarebbe stata la prima pietra su cui si sarebbe edificato il futuro Stato Pontificio. Sempre per quanto riguarda la politica estera, Liutprando mantenne buone relazioni con il vicino Regno dei Franchi, testimoniate dall’adozione del figlio di Carlo Martello, Pipino, da parte del sovrano longobardo oltre che dal suo intervento in forze a sostegno del vincitore di Poitiers nel 739, in occasione dell’attacco musulmano alla città provenzale di Arles.

Con la scomparsa di Liutprando, avvenuta nel 744, termina la Historia Langobardorum di Paolo Diacono. L’interruzione a questo punto della storia ha dato adito all’ipotesi che Paolo abbia deciso volontariamente di non raccontare le vicende successive al regno di Liutprando, in modo tale da non dover descrivere il periodo della decadenza e la vittoria dei Franchi ai danni del suo popolo. Tuttavia è assai più probabile che l’autore sia semplicemente scomparso prima di poter completare la propria opera. Successori di Liutprando furono i fratelli Rachis (r. 744-749 e 756-757) e Astolfo (r. 749-756), Duchi del Friuli. Astolfo in particolare proseguì la politica espansionistica di Liutprando: nel 751 conquistò Ravenna, ultima roccaforte bizantina nel Nord Italia mentre l’anno successivo marciò su Roma, prendendo alcune fortezze di confine e imponendo al Papa il pagamento di un tributo. A quel punto però la situazione geopolitica era ormai mutata: sentendosi minacciato, Stefano II richiese l’intervento del sovrano franco Pipino III il Breve. Questi nel 751, si era impadronito del trono franco rovesciando l’ultimo esponente della dinastia merovingia, Childerico III. Papa Zaccaria (741-752) avallò quella che era stata a tutti gli effetti un’usurpazione e pertanto Pipino venne unto e incoronato Re dei Franchi a Soissons da San Bonifacio, Vescovo di Magonza. Stefano II quindi non fece altro che presentare all’incasso la cambiale a suo tempo ricevuta dal predecessore.

Pipino scese due volte in Italia tra il 754 e il 756, costringendo in tal modo Astolfo a ritirarsi da Roma e consegnare Ravenna al Papa. Dunque, a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo i Longobardi si trovarono presi in trappola tra la necessità, di cui erano ben coscienti, di assorbire Roma quale chiave del Meridione, e la certezza della punizione franca anche se occorre osservare che con ogni probabilità, data l’accessibilità dell’Italia attraverso i valichi delle Alpi, prima o poi Carlo Magno avrebbe attaccato i Longobardi in ogni caso.
Dopo la morte di Astolfo, suo fratello Rachis tentò di recuperare il suo trono ma dovette amaramente constatare di avere perso il favore di gran parte della nobiltà, che preferì appoggiare l’ascesa del Duca di Tuscia, Desiderio (r. 757-774). Questi si adoperò allo scopo di restituire alla compagine longobarda il potere e il prestigio persi dai suoi predecessori. Innanzitutto, dopo la morte di Stefano II (757), si guardò bene dal restituire le terre dell’Esarcato e della Pentapoli alla Chiesa, facendo soltanto concessioni minime e poi mosse verso il Meridione, dove sottomise al potere regio i ducati di Spoleto e Benevento, affidati rispettivamente al proprio sostenitore Gisulfo e al genero Arechi. Nel tentativo di migliorare i rapporti con la dinastia carolingia concesse in sposa a Carlo, primogenito di Pipino, una delle sue figlie di cui non conosciamo il nome; soltanto nell’Ottocento Alessandro Manzoni ribattezzò questa principessa col nome di Ermengarda.

Intanto nel 768 moriva Pipino il Breve. Come da consuetudine franca il regno venne diviso fra i suoi due figlio, Carlo e Carlomanno. La divisione ebbe termine nel 771 con la prematura scomparsa di Carlomanno (si dice assassinato per ordine del fratello) e la conseguente acclamazione di Carlo a Re di tutti i Franchi. Quello stesso anno Carlo, adducendo alla presunta sterilità della sposa che non gli aveva dato un erede, la ripudiò rimandandola in Italia dal padre e sancendo così la fine dell’alleanza franco-longobarda. Nel 772 morì a Roma Papa Stefano III: il partito filo-longobardo guidato dal nobile Paolo Afiarta venne sconfitto e risultò eletto Adriano I (r. 772-795), un uomo saggio e pieno di risorse, molto simile a Gregorio Magno. Desiderio reagì invadendo i territori papali nell’Esarcato per poi marciare su Roma, il che fornì ad Adriano il pretesto per invocare l’intervento di Carlo e dei suoi Franchi. Il giovane erede di Pipino, che aveva ridato unità e compattezza al suo regno, decise di dare sfogo alle proprie ambizioni espansionistiche tanto più che l’Italia appariva come una preda allettante e le vittorie di Pipino avevano fornito la prova della relativa debolezza della macchina militare longobarda. Carlo inoltre si risolse a dichiarare guerra all’ex suocero anche perché era a conoscenza del fatto che Desiderio aveva dato asilo alla moglie e al figlio di Carlomanno.

Nella primavera del 773 Carlo radunò il suo esercito a Ginevra, superò gli sbarramenti difensivi longobardi e scese nella Pianura Padana dove circondò Pavia a partire dall’autunno. Nel giugno del 774, dopo nove mesi di assedio, la città si arrese. Desiderio ebbe salva la vita ma venne rinchiuso in un monastero francese mentre suo figlio Adelchi si ritirò in esilio a Costantinopoli. Carlo non abolì il regno longobardo ma assunse il titolo di Rex Francorum et Langobardorum cingendo l’antica Corona Ferrea. La politica del sovrano fu conciliante: egli consentì ai Duchi longobardi di conservare la propria carica, favorendo una graduale integrazione dei Longobardi nella nuova compagine franca. Con la conquista franca calava il sipario sulla dominazione longobarda in Italia. In ogni caso, dopo la fine della Langobardia Maior, Arechi II di Benevento assunse il titolo di princeps e trasferì la corte a Salerno, proponendosi come l’erede delle tradizioni, della cultura e dell’identità nazionale del popolo longobardo. Malgrado l’incessante ostilità dei Carolingi, il Principato avrebbe continuato a prosperare toccando l’apice dello splendore nel IX secolo e sopravvivendo sino all’XI secolo, quando cadde sotto la spada del normanno Roberto il Guiscardo.
Bibliografia:
- N. Bergamo, I Longobardi. Dalle origini mitiche alla conquista del regno in Italia
- N. Christie, I Longobardi. Storia e archeologia di un popolo
- S. Gasparri, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato
- C. Wickham, L’eredità di Roma. Storia d’Europa tra il 400 e il 1000 d.C.
- Paolo Diacono, Historia Langobardorum