Francesco Sassetti, il banchiere dei Medici

Se si immaginano oggi l’economia, la società e la politica che hanno costruito la storia e la cultura del Basso Medioevo italiano ed europeo, figure chiave sono quelle del mercante e del banchiere. Personaggi e famiglie ricche e famose, capaci di movimentare mercanzie di diverso valore attraverso l’Europa o lungo le coste del Mediterraneo, del Mare del Nord o del Baltico, o sovvenzionare queste imprese commerciali, costituendo prima nella pratica e poi nella teoria quel complesso sistema di trasferimento bancario che oggi conosciamo come lettere di cambio.

Al lato spiccatamente economico questi personaggi e le consorterie che ruotano intorno ad essi fanno spesso seguito quello politico e culturale. Specie nei comuni italiani, ma ancor più nelle città delle Fiandre e della lega Anseatica, dove non esisteva una nobiltà cittadina, essi andarono a costituire i membri dei cosiddetti governi larghi, dei quali costituivano il popolo grasso, ossia i maggiorenti più ricchi, divenendo però nei fatti una sorta di nuova aristocrazia urbana. Ad un ruolo centrale nel governo delle loro comunità ne seguiva uno internazionale. Soprattutto i banchieri, anche attraverso i loro vasti contatti, assumevano spesso la funzione di rappresentanti di altre potenze, così come ne diventavano membri attivi, attraverso il ruolo fondamentale di finanziatori dei sovrani, sia attraverso lucrosi appalti, ricevuti in pegno del loro aiuto economico.

Portolano del cartografo anconetano Grazioso Benincasa, datato al 1492. Un quadro dettagliato del panorama economico e politico nel quale i mercanti si muovevano

Uomini capaci di arrivare a risultati ragguardevoli, veri capitalisti internazionali e inseriti nelle loro città, tanto da diventarne, a volte, anche i signori, spesso mascherandosi sotto istituzioni repubblicane precedenti. Personalità capaci di influenzare anche il panorama culturale della propria famiglia e della propria patria, attraverso lo sviluppo di ampi archivi e biblioteche pubbliche, oppure finanziando le arti, sia direttamente con commissioni nei loro luoghi della città o indirettamente promuovendo e sovvenzionando opere pubbliche come cittadini o membri di corporazioni.

Nonostante questo ruolo e potere, la ricchezza e l’influenza di queste personalità dipendono anche da un panorama di personaggi spesso nell’ombra. Tra di loro rappresentanti commerciali, intermediari e direttori delle varie sedi internazionali nelle quali le compagnie commerciali e bancarie agivano. Figure variegate, competenti o meno, che seppero essere veramente parti di una gigantesca ragnatela sparsa tra l’Inghilterra e il Baltico, tra la Spagna e il Vicino Oriente. Personalità che comunque, anche se apparentemente in un ruolo subalterno, non lo sono nei fatti, diventando veri e propri rappresentanti dei loro paesi all’estero, ambasciatori e collaboratori nelle realtà in cui erano inseriti. Personalità coinvolte in tal senso anche a livello artistico, favorendo con ciò la conoscenza e l’influenza tra scuole e realtà diversi distanti parecchi chilometri.

In questo contesto molti sono i nomi che si possono fare, soprattutto nella compagine italiana e toscana, che coinvolgeva nei suoi affari tutto il bacino del Mediterraneo, ma anche diverse realtà del Nord Europa. Un catalogo ricco in tal senso è dato da quella che è oggi vista come il prototipo dell’attività bancaria, soprattutto per i successivi eventi che li videro protagonisti, ossia la famiglia Medici e il corrispettivo Banco Mediceo, creato ad inizio ‘400 da Giovanni di Bicci, padre di Cosimo il Vecchio. Il Banco nacque proprio con Giovanni nel 1397, partendo da associazioni familiari precedenti, dai quali seppe in particolare recuperare la sede romana, utile per sovvenzionare la corte pontificia. Ad essa seguì all’inizio del nuovo secolo quelle di Venezia, Gaeta e Napoli, sostituita poi con quella di Ginevra, vicina alle ricche fiere regionali. Sedi molto redditizie per la società costruita intorno alla famiglia, capace di sfruttare la grande apertura commerciale e la minore concorrenza delle ricche banche travolte dalla crisi del secolo precedente. Un ulteriore sviluppo si ebbe sotto Cosimo il Vecchio, tra la fine degli anni ’30 e gli anni’40 del XV secolo, con la nascita delle sedi a Bruges, nelle Fiandre, prima come ufficio e poi come sede ufficiale nel 1446, ad Ancona, sostenuta dal capitano di ventura Francesco Sforza, a Londra, a Pisa, ad Avignone, ex sede pontificia e grande centro mercantile dell’area del Rodano e a Lione, divenuta sede privilegiata nell’area rispetto all’originaria posizione di Ginevra. Ultima in ordine di tempo fu quella di Milano, costituita tra il 1452 e il 1453, con il sostegno proprio del nuovo duca di Milano Francesco Sforza, che era stato aiutato nella sua impresa proprio dal Banco Mediceo. I Medici intrattenevano anche rapporti con le altre sponde del Mediterraneo, in particolare con l’Egitto mamelucco, dai quali Lorenzo otterrà ricchi abiti di foggia orientale e addirittura una giraffa durante un’ambasceria.

L’Hof Bladelin, sede del Banco Mediceo nella città fiamminga di Bruges

L’epoca d’oro del Banco purtroppo non durò a lungo, soprattutto sotto la supervisione di Piero il Gottoso e di Lorenzo il Magnifico. Tale condizione, che porterà al fallimento del Banco in concomitanza con la cacciata da Firenze del 1494, fu dettata da molti fattori, tra i quali il sempre maggior intervento della famiglia sull’agone politico e diplomatico, che non permettevano un controllo attento sull’attività della banca e un deflusso costante di denaro da essa, cui seguirono perdite contingenti in ambito commerciale e soprattutto l’abbondanza di crediti insoluti che i direttori delle varie sedi avevano per incapacità o per necessità del Banco concesso soprattutto a sovrani, come Edoardo IV d’Inghilterra o Carlo il Temerario, duca di Borgogna.

La vastità di questa ragnatela economica portò quindi la direzione medicea a creare una serie di personaggi capaci di guidare le singole filiali, in collaborazione le une con le altre e con la sede principale. La scelta di questi personaggi fu molto variegata, coinvolgendo sia membri di famiglie importanti fiorentine in affari con i Medici sia personalità meno appariscenti ma capaci di fare carriera all’interno del Banco, passando da ruoli contabili a posizioni più altolocate. Ad unire questi uomini alla famiglia erano rapporti di parentela o economici, laddove i direttori entravano in società acquisendo una quota di minoranza sulla sede diretta. A questi però si univano rapporti di familiarità più profondi, legati a vicende di amicizia o di affetto tra loro e i Medici, un elemento non sempre positivo, perché spingeva la famiglia ad affidarsi molto su di loro e non avere una visione lucida delle loro capacità. Tra di essi si possono ricordare Antonio Tani, per anni attivo a Bruges e Giovanni Tornabuoni, zio di Lorenzo e direttore della filiale romana. Accanto ad essi, grazie anche ai forti rapporti personali con casa Medici, si trovano altre figure, spesso indicati come modello del direttore mediceo. Da una parte Francesco Sassetti, dall’altra i fratelli Pigello, Acerrito e Tommaso Portinari, ragazzi orfani del padre e cresciuti sin dall’adolescenza da Cosimo il Vecchio, che li renderà poi direttori a Milano e a Bruges.

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Il trittico Portinari, commissionato da Tommaso Portinari nel 1477/78 al pittore Hugo van der Goes, giunto a Firenze nel 1483

Al pari dei Medici essi non furono solo attori economici e politici, ma anche importanti finanziatori delle arti. Il loro legame con ambienti non fiorentini e italiani è in tal senso interessante. Le loro committenze infatti, realizzate per la loro sede o inviate a casa per decorare i propri luoghi cittadini, favorirono sia l’arrivo di artisti stranieri in Italia per loro tramite ma anche l’influenza che l’arte di questi paesi poteva portare al rinnovamento di quella italiana. Il loro intervento permetteva inoltre di creare ricchi cantieri misti dove le idee e le maestranze toscane potessero mescolarsi con le maestranze locali. A Pigello e Acerrito Portinari ad esempio si devono alcune delle architetture più famose del ‘400 milanese, come la nuova sede del Banco, realizzato dall’architetto toscano Filarete e decorato con elementi tardogotici in terracotta a stampo di tradizione lombarda o l’omonima cappella nella basilica domenicana di Sant’Eustorgio, modellata con l’intervento di Filarete e Michelozzo sull’esempio della Sacrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze e dipinta da Vincenzo Foppa, artista legato a Padova e caposcuola del Rinascimento lombardo. La commistione tra queste importanti realtà e la città lombarda influenzerà in contemporanea anche i cantieri sforzeschi, tra i quali la Ca’ Granda, ospedale maggiore di Milano. Al terzo fratello Portinari, Tommaso, e al Tani, si legano invece importanti committenze di scuola fiamminga tra le quali un doppio ritratto dei coniugi Portinari, una Passione di Cristo e un Giudizio Finale di Hans Memling, inviato dal Tani a Firenze e rubato dai pirati di Danzica lungo il tragitto, ma soprattutto il cosiddetto Trittico Portinari, grande macchina d’altare di Hugo van der Goes, collocata nella chiesa di Sant’Egidio nell’ospedale di Santa Maria Nuova di patronato della famiglia e che fu una delle vie di scoperta tra i toscani della nuova maniera del Nord Europa. Accanto ad essi però si trovano anche altre committenze. La ricchezza e la centralità di questi personaggi anche in patria li spingeva infatti a costruirsi dei propri luoghi e ad acquistare il patronato di cappelle gentilizie, ove alla fine farsi seppellire. Di questi luoghi, alla cui realizzazione sono chiamati importanti artisti locali, fanno ad esempio riferimento il grande cantiere della cappella maggiore di Santa Maria Novella, decorata dalla bottega del Ghirlandaio con le storie di Cristo e della Vergine per Giovanni Tornabuoni e la cappella Sassetti, commissionata sempre al Ghirlandaio da Francesco Sassetti.

La figura del Sassetti, di cui ricorre quest’anno l’anniversario della nascita, ha nel suo campo una posizione interessante. La sua carriera si sviluppa infatti come impiegato ad Avignone e direttore della banca a Ginevra, favorendo poi il suo trasferimento a Lione. L’esperienza su campo, sviluppa anche a Pisa, lo portò a essere promosso dal giovane Lorenzo nel 1469 a direttore generale dell’intero Banco Mediceo. Una posizione illustre ma anche scomoda, che lo portò, in collaborazione ad Antonio Tani a dover districare le crisi di diverse filiali, tra le quali proprio quella di Lione, quella di Londra e quella di Bruges, che aveva assorbito i debiti della precedente e per la quale il Sassetti fu accusato, pochi anni prima della morte, di aver avuto eccessivo credito verso Tommaso Portinari, nonostante la sua prodiga politica.

Francesco Sassetti inginocchiato davanti alla pala dell’Adorazione sulla parete di fondo della cappella di famiglia

A questo lato professionale di prestigio la figura di Francesco Sassetti fece seguito un profondo profilo di carattere culturale. Anche attraverso i suoi rapporti personali con casa Medici infatti seppe entrare in contatto con esponenti di primo piano di quello che è definito Umanesimo volgare, cresciuto nella Firenze laurenziana del secondo Quattrocento. Tra di essi alcuni esponenti dell’Accademia Neoplatonica, che legava il Cristianesimo con il Platonismo e il Plotinismo in continuità con la scuola tardo-bizantina di Mistrà di Gemisto Pletone e Giovanni Bessarione, tra i quali il caposcuola Marsilio Ficino, insieme con letterati ed umanisti di primo piano tra cui Agnolo Poliziano, vicinissimo al Magnifico e precettore dei suoi figli, nonché autore delle famose Stanze, e Bartolomeo della Fonte, o Fonzio, strettamente legato al Sassetti e che fu un suo fervido collaboratore sia negli studi che nella creazione di una vasta biblioteca, formata proprio attraverso acquisizioni durante i lunghi soggiorni in giro per l’Europa. Agli interessi filosofici e letterari Francesco Sassetti, come i personaggi della sua posizione, univa anche quelli per le arti. Legati al suo nome si collocano infatti le trasformazioni del suo palazzo di città e delle sue due ville in collina, oggi Villa La Pietra e Villa Sassetti, ma anche un ritratto di mezzo busto di Antonio Rossellino. Ma il rapporto più intenso il banchiere lo ebbe con uno dei pittori più attivi nella Firenze del suo tempo, ossia Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio.

Domenico, cresciuto tra gli insegnamenti pittorici e orafi del padre e di Alesso Baldovinetti e influenzato dal magistero di Benozzo Gozzoli e Filippo Lippi, si costruitosi in seguito una propria realtà con i fratelli David e Benedetto, nella quale si formarono personalità centrali della Maniera moderna del primo Cinquecento, da Francesco Granacci a Michelangelo, fino al figlio Ridolfo, amico, collaboratore e “compagno d’arme” di Raffaello. L’operato del Ghirlandaio, che si sviluppò tra gli anni settanta e gli anni novanta del XV secolo, seppe rivolgersi ad ambiti molto diversificati, che spaziarono dalle tele con Madonne col Bambino di devozione privata alle pale e polittici di destinazione pubblica, fino a soggetti di tipo laico, in particolare ritrattistica. Si concentrò però soprattutto sui grandi cicli monumentali ad affresco, sparsi in diverse realtà fiorentine e toscane, ma anche in un contesto più internazionale.

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Ritratto di Francesco Sassetti e del figlio Teodoro datata al 1488, oggi al Metropolitan Museum di New York

Tra di essi intere cappelle come quella Vespucci in Ognissanti, quella di Santa Fina a San Gimignano e quelle maestose dei Sassetti in Santa Trinita e dei Tornabuoni in Santa Maria Novella, accanto alle quali si interessò sia a cicli profani, oggi in gran parte scomparsi, come quello per la villa di Spedaletti di Lorenzo de’Medici a Lajatico o l’affrescatura della Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio, ma anche a grandi murali singoli, contribuendo alla tradizione fiorentina dei Cenacoli in Ognissanti e nel convento di San Marco, arrivando a committenze prestigiose nella Roma pontificia, come nell’equipe toscana autrice della decorazione della Cappella Sistina per Sisto IV.

Il rapporto tra il Sassetti e il Ghirlandaio si sviluppò quindi all’inizio degli anni’80, legato ai grandi successi da lui ottenuti a Roma e tra le più importanti famiglie gentilizie fiorentine, in particolare presso Lorenzo il Magnifico, con il quale Francesco intratteneva rapporti professionali ma soprattutto personali e quasi familiari, un contatto che il banchiere e l’artista intrattennero per tutto il decennio, quando Domenico realizzerà un ritratto del Sassetti seduto in un interno con sulle ginocchia il suo figlio più giovane Teodoro. Il risultato più importante di tale collaborazione fu però proprio la decorazione pittorica della cappella di famiglia di cui Francesco Sassetti aveva acquisito il giuspatronato a destra della cappella maggiore in Santa Trinita a Firenze.

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Veduta d’insieme della cappella Sassetti

Francesco Sassetti in origine aveva preventivato di acquistare il patronato della cappella maggiore della Basilica di Santa Maria Novella, casa madre fiorentina dei domenicani e luogo di sepoltura degli antenati del banchiere. La sua decisione, che puntava a rinnovare il ciclo trecentesco qui esistente, trovò però l’opposizione proprio dei frati, anche se non è ben chiaro se questo dissidio sia dovuto ad un contrasto generico tra loro e il committente o per un elemento contingente del progetto, ossia la volontà del Sassetti di dedicare il ciclo e la cappella al proprio patrono, San Francesco d’Assisi, proposta irricevibile per il presbiterio dei frati predicatori. Tale condizione spinse quindi il banchiere ad acquisire una delle cappelle affacciate sul transetto della chiesa vallombrosiana di Santa Trinita, inserita nell’omonimo quartiere affacciato sull’Arno e direttamente collegato con l’omonimo ponte. La basilica era una delle più importanti e rinomate della città, affidata ai monaci di Vallombrosa, congregazione benedettina riformata che aveva avuto origine nel contesto della Riforma della Chiesa dell’XI secolo. Dal primo nucleo protoromanica i monaci avevano provveduto ad un grande rinnovamento gotico, parallelo nei tempi ai grandi cantieri della città, tra la metà del XIII secolo e gli anni successivi alla Grande Peste. A tale rinnovamento contribuirono nel corso del tempo anche le ricche famiglie mercantili che decisero di costruire qui le loro cappelle gentilizie, aiutati da maestranze artistiche di primo livello. Esemplare è in tal senso la cappella Salimbeni, dipinta in origine dal pittore giottesco Spinello Aretino e poi rinnovata negli anni ’20 del ‘400 da Lorenzo Monaco, pittore a cavallo tra Tardogotico e Rinascimento. Significativa in questo contesto è però la cappella Strozzi, fatta costruire dal mercante Palla di Onofrio Strozzi, il quale si pose come vero punto di connessione tra antico e moderno, commissionando la costruzione a Lorenzo Ghiberti e Michelozzo, ma inserendovi opere più legate al mondo gotico precedente, come la Deposizione di Lorenzo Monaco e Beato Angelico o l’ancor più famosa Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano.

In questo frangente si inserì il nuovo giuspatronato del Sassetti, capace di coinvolgere il Ghirlandaio, ma anche altri artisti, in particolare Giuliano da Sangallo. Tema centrale della decorazione è la vita di San Francesco, ricorrente anche in altre cappelle fiorentine come la Bardi affrescata da Giotto, al quale si collega anche il tema cristologico dell’epifania di Cristo, mescolando in ciò un sottofondo capace di parlare alla Firenze del suo tempo. Un progetto che si sviluppo per circa cinque anni, tra il 1480 e il 1485.

Un primo elemento iconico si viene a trovare nel soprarco della cappella e sopra il pilastro che la definisce rispetto a quella alla sua diretta sinistra. Su di esso trova spazio una scena inusuale, slegata dal tema francescano ma che introduce invece, in un ambiente paganeggiante caro al mondo laurenziano, alla venuta di Cristo. In esso infatti si trovano rappresentati sulla sinistra l’imperatore Augusto e il suo seguito, affrontato, sulla destra, dalla sibilla Tiburtina, immaginata mentre indica un grande sole raggiante al cui interno si trova il cristogramma IHS. Questo episodio, conosciuto da testi paleocristiani, ricorda quando la sibilla aveva profetizzato all’imperatore la futura venuta di Cristo e la successiva nuova età dell’oro. Tale episodio, che il cristianesimo vedeva come una prefigurazione pagana dell’Incarnazione, non era però del tutto disgiunto dalla realtà francescana, in quanto sarebbe avvenuto presso un altare, definito da allora come Ara Coeli, presso il quale i successori di Francesco avrebbero costruito la loro casa madre romana, l’omonima basilica sul Campidoglio.

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La sibilla Tiburtina preannuncia ad Augusto l’inizio di una nuova età dell’oro

Ad accompagnare la scena, Ghirlandaio dipinse sopra il pilastro della cappella una rappresentazione del re David, raffigurato come una statua classica sopra un pilastro con iscrizioni e realizzato a monocromo e parti dorate, come se fosse fatta realmente di marmo. Il suo ruolo qui è molteplice. Da un lato infatti esso è usato come pretesto antiquario per la rappresentazione dell’eroe classico, soprattutto per il valore simbolico che il re aveva per l’identità fiorentina. Dall’altra egli svolge sia il ruolo di precursore e precognitore di Gesù, sia di protettore della famiglia Sassetti, il cui scudo araldico troneggia al fianco del santo, ripreso inoltre in una terracotta robbiana al centro dell’arco d’accesso.

Il significato cristologico della cappella si estende quindi sulle quattro vele gotiche, dove vengono figurate, sedute sopra coltri di nubi, altre quattro sibille, tre delle quali riconoscibili attraverso i loro attributi. Esse sono la sibilla Cumana, la sibilla Eritrea, la sibilla Agrippa e la sibilla Cimmeria. La presenza di queste figure pagane, apparentemente incongrua in un ambiente sacro, nasce dal fatto che esse siano viste in ottica cristiana come le annunciatrici pagane della discesa sulla Terra di Dio, in diretto parallelo con i profeti di tradizione giudaica. Se ad essi sono di solito alternate, questa specifica raffigurazione è presente anche in altri casi quattrocenteschi, come la volta della cappella Carafa, affrescata tra il 1488 e il 1493 da Filippino Lippi in Santa Maria sopra Minerva a Roma. A differenza di questo caso però Ghirlandaio qui dimostra un minore aggiornamento, raffigurando le figure in una prospettiva piana e frontale e non aprendosi invece, come farà Filippino, alla resa di scorcio dal basso che asseconda l’effetto ottico della visione dal sotto in su. Il significato cristologico delle sibille, in diretta continuità con l’esterno, dialoga tuttavia anche con l’ambiente umanistico del committente. Tra le mani di tre delle sibille infatti scorre un cartiglio, ritagliato in tre frammenti, nel quale si trova riportato non un riferimento ad un testo teologico ma una citazione diretta dalla quarta ecloga delle Bucoliche di Virgilio, in particolare al brano nel quale il poeta augusteo si riferisce all’arrivo di un bambino che darà origine ad una nuova età dell’oro. Tale discorso, che Virgilio riferiva al nuovo avvento di Augusto e del principato, era stato riferito in ambito cristiano proprio alla nascita di Gesù e alla Nuova Legge. Al pari però delle scene sul soprarco Francesco Sassetti può aver inserito questo concetto anche nella realtà del suo tempo, immaginando e rappresentando Lorenzo de’ Medici e il clima culturale da lui costruito come una nuova età aurea, in cui Firenze sarebbe diventata la nuova Roma.

Le quattro sibille che decorano la volta

Al di sotto, entro un doppio registro, si estendono le vicende francescane. Il ciclo comincia in alto a sinistra con la scena della Rinuncia ai beni terreni. Tale episodio si riferisce naturalmente al momento nel quale Francesco, dopo una vita giovanile dedicata alla guerra, decise di darsi alla Povertà abbandonando la vita e i beni agiati della famiglia. Fin da questa scena Ghirlandaio mostra quelle che sono le sue caratteristiche più peculiari. In particolare l’artista toscano modella la sua pittura ad un’attenta e viva rappresentazione narrativa nella quale i personaggi, ben definiti e forniti di una propria fisicità classica, si dispongono ordinatamente all’interno dello spazio, costruendo l’ambiente stesso, ma anche riuscendo ad inserirsi in modo naturale e verosimile nel paesaggio. In questo caso in particolare i protagonisti sono disposti come in due semicerchi, nei quali, all’avvicinarsi del santo di profilo al vescovo di Assisi, corrisponde quello più composto del padre, trattenuto da un membro del suo seguito e, a differenza dell’irruento modello giottesco, ormai rassegnato alla scelta del figlio.

La rinuncia ai beni paterni, in alto alla parete sinistra

A questa attenzione spaziale e psicologica dei personaggi fa seguito anche una cura del paesaggio. Esso infatti, grazie ai contatti che il pittore riuscì ad avere con le opere fiamminghe giunte in città, come il Trittico Portinari, riesce ad unire sia la tradizione italiana, di cui è indice l’attenzione prospettica della composizione, ma anche una rappresentazione lenticolare e particolareggiata di ogni elemento raffigurato, di chiara tradizione nordeuropea. In questo primo episodio sullo sfondo troneggia una grande città murata affacciata su un mare o un fiume. Se apparentemente questa riassume un’iconografia piuttosto generica, in essa si è nel corso del tempo riconosciuta o Lione, grande città mercantile nella quale Sassetti aveva operato, sia l’Oltrarno, del quale si riconoscerebbe la torre di San Nicolò.

Al di sotto di questo episodio, trova spazio la vicenda del miracolo delle stimmate, avvenuto nel 1224 presso l’eremo de La Verna, nell’Aretino. In essa i soli personaggi rappresentati sono Francesco, stimmatizzato da un crocefisso sorretto da cherubini e frate Leone, impaurito dall’evento. Elemento particolare rispetto all’iconografia tradizionale, oltre alla sua immersione in un luogo totalmente naturale, è il paesaggio. In esso, come nel caso precedente, alla rappresentazione dell’eremo sopra un’altissima montagna rocciosa al centro, si accosta la rappresentazione di una città, in questo caso riconoscibile come Pisa, attraverso la presenza del duomo e della torre pendente.

Miracolo delle stimmate di Francesco a La Verna

Tale scelta iconografica può spiegarsi in modi diversi. Se da una parte Pisa era stata uno dei luoghi di  lavoro del Sassetti e rappresentava per la Firenze medicea uno dei punti di riferimento politici ed economici più importanti, dall’altra il suo accostarsi al monte de La Verna potrebbe simboleggiare anche il corso dell’Arno, che partendo dalle montagne casentinesi giunge nel Tirreno attraverso Pisa.

Il ciclo procede quindi nella parte alta della parete frontale con una scena cardine, sia per la vicenda del santo sia per quella del committente. In essa infatti viene rappresentata la prima accettazione della regola francescana compiuta a voce da papa Innocenzo III, essenziale per mantenere il francescanesimo nell’alveo della Chiesa. La scena è quindi organizzata entro una grande architettura voltata come una loggia entro cui i cardinali e il papa si inseriscono entro un coro. Al progetto originario che prevedeva uno spazio chiuso, Ghirlandaio ne preferisce invece uno aperto, capace di aprirsi su un paesaggio urbano, che è ben identificabile nel luogo civico più sacro della città, ossia piazza della Signoria, della quale si vedono Palazzo Vecchio, la Loggia della Signoria, la chiesa di San Pietro Scheraggio, demolita poi per costruire gli Uffizi, ma anche le prime statue, in particolare il Marzocco di Donatello.

L’accettazione della Regola da parte di Innocenzo III. Ai lati Lorenzo de’ Medici, Francesco Sassetti e i loro figli maschi

A questa scelta compositiva, che propone Firenze come la Nuova Roma dell’Umanesimo, entro cui è lecito inserire scene pontifice, fanno seguito i personaggi in primo piano, vero manifesto della Firenze laurenziana. Partecipanti all’evento infatti sono, sulla destra, Antonio Pucci, Gonfaloniere di Giustizia e cognato del Sassetti, lo stesso Francesco Sassetti, accompagnato dal suo figlio più giovane Teodoro, e Lorenzo il Magnifico, riconoscibile dal suo caratteristico naso, cui fanno da controcampo a sinistra i figli maggiori di Francesco, Galeazzo, Teodoro I e Cosimo. Ingegnosa è poi la resa della parte centrale. Per evitare che un gruppo centrale offuscasse la scena sacra, un piccolo corteo è teatralmente introdotto mentre entra salendo delle scale. A comporlo, creando un parallelo con la famiglia Sassetti e un chiaro rimando alla continuità dinastica, sono i figli maschi di Lorenzo, Pietro il Fatuo, Giovanni, il futuro Leone X, e Giuliano, duca di Nemours. Ad accompagnarli si stagliano membri importanti del mondo culturale cresciuto intorno al Magnifico, dal Poliziano, posto di profilo in testa, a Luigi Pulci, autore del Morgante, e Matteo Franco, insegnante di grammatica latina dei giovani Medici, in fondo al gruppo.

La chiave dinastica e famigliare, oltre che le vicende del clan Sassetti alla base della storia della stessa cappella si allungano anche sul riquadro successivo, che nell’economia del ciclo si troverebbe invece nel finale. In esso infatti è rappresentato un episodio successivo alla morte di San Francesco, quando il santo sarebbe apparso per resuscitare un bambino di una famiglia romana morto cadendo dalla finestra. Questa scelta non era prevista sin dal contratto iniziale, ma fu modificata proprio su volontà del Sassetti. All’iniziale apparizione di Arles, dove Francesco ancora vivo sarebbe apparso al capitolo francescano pur non essendo fisicamente presente, il Sassetti preferì l’episodio romano, da lui connesso con la recente morte del figlio Teodoro I, cui sarebbe seguita dopo alcuni mesi la nascita di un nuovo figlio, chiamato con lo stesso nome.

Il miracolo del ragazzo risanato. Attorno alla scena sacra si riconoscono esponenti della famiglia Sassetti e della buona società fiorentina, ambientati nel reale scenario fiorentino di Santa Trinita

Dal punto di vista pittorico Ghirlandaio usa qui un escamotage non presente in altri punti della cappella, ossia la rappresentazione entro un medesimo riquadro narrativo di due episodi in successione. Alla caduta del giovane in secondo piano, fa seguito la sua rinascita sopra un letto, circondato dalla madre e dai frati in preghiera, mentre Francesco lo benedice dall’alto. Ai lati della scena si dispongono quindi due gruppi di astanti. In essi in particolare la critica ha voluto riconoscere l’intento familiare e politico della scena, dove sono rappresentati i figli di Francesco Sassetti ma anche i rispettivi consorti, membri di importanti e potenti famiglie fiorentine, come Neri di Gino Capponi o Alessandro di Antonio Pucci, cui si aggiungono personaggi di altissimo livello come Maso degli Albizi, Palla Strozzi, Agnolo Acciaiuoli e Filippo Strozzi, committente dell’omonimo palazzo. Nel gruppo di destra si inserisce anche il Ghirlandaio, analogamente al ciclo successivo per i Tornabuoni, insieme con il fratello David, il cognato Sebastiano Mainardi e forse il suo maestro Baldovinetti. A questo grande quadro sociale e politico si accosta anche la scelta del paesaggio, che ambienta la scena proprio sulla via di Santa Trinita, subito fuori della chiesa, della quale si riconosce la facciata dell’epoca, ancora romanica, e diversi palazzi nobiliari, come il merlato palazzo Spini, ora Spini Feroni, o il palazzo Gianfigliazzi e le case abitate all’epoca dai Sassetti, affacciate sul ponte di Santa Trinita, ancora in forme gotiche, oltre che le botteghe dei legnaioli, che proprio qui operavano.

Terminano il ciclo sulla parete destra altre due vicende, La predicazione davanti al sultano e la morte di San Francesco. La prima, che ricorda il confronto avuto da Francesco con il sultano Al Malik Al Kamil durante la Settima Crociata, è rappresentato secondo una modalità tradizionale, con il sultano sotto una tenda a tabernacolo. Interessante dal punto di vita artistico sono sia la posizione di schiena di uno dei personaggi, che aumenta la spazialità della scena rendendo l’osservatore partecipe alla scena sia la resa del fuoco, molto realistica e che manifesta effetti cangianti sulle vesti dei personaggi circostanti.

Morte di San Francesco. Si vedono sulla destra il committente con i figli, sulla sinistra Fonzio e Poliziano

Più innovativa è la scena della morte del santo. Il soggetto è infatti ambientato ina struttura ecclesiastica, chiusa al centro da un’abside ma aperta sui lati con logge classicheggianti sul paesaggio verdeggiante, riprendendo qui sia il suo precedente della morte di Santa Fina a San Gimignano e, in uno spazio totalmente chiuso, nel ciclo di Filippo Lippi nel duomo di Prato, simbolo probabilmente del concetto della nuova vita che supera la morte. Esemplare è in questo il fatto che, tra i religiosi e i frati che circondano sconvolti il santo, Ghirlandaio inserisca lo stesso Sassetti accompagnato da due figli Teodoro, uno raffigurato post mortem e l’altro vivo. Il legame con la famiglia è ribadito anche dalla presenza degli uomini di cultura più vicini al banchiere, vere e proprie menti e ideatori dello stesso ciclo, ossia Poliziano e Fonzio, raffigurati a sinistra.

A conclusione della cappella si trova il livello più basso, dove si trovano la pala d’altare e le tombe dei committenti. Ai lati, entro arcosoli scolpiti in pietra serena, si trovano i due sepolcri in pietra di paragone, entro cui si trovano Francesco Sassetti, a destra, e la moglie Nera Corsi. I sarcofagi, scolpiti da Giuliano da Sangallo, grandissimo architetto della fine del secolo e strettamente legato a Lorenzo, che gli farà progettare la villa di Poggio a Caiano, sono accompagnati da una serie di riferimenti paganeggianti in linea con la cultura della famiglia. Tra di essi un adventus di Germanico, rappresentazioni di consoli e un’adlocutio, il cui significato è ancora ignoto, realizzati tutti a monocromo.

Sarcofago sepolcrale di Francesco Sassetti, accompagnato da scene antiquarie romane

Sui fregi dell’arco invece si trovano cortei di Nereidi, che giocano sul nome della moglie, o un corteo funebre, forse riferito allo stesso Francesco ma costruito all’antica, o cortei di amorini classici, accompagnati da centauri armati di fionde e pietre, riferimento al nome della famiglia, e reggenti lo stemma bipartito dei coniugi. Tale scelta iconografica nasceva probabilmente dalla cultura umanistica di Francesco, che credeva che il centauro rappresentasse la forma umana perfetta, capace di unire la forza fisica all’intelletto, le attività pratiche alla speculazione filosofica.

Cuore della cappella è infine la pala d’altare, rappresentante l’Adorazione dei pastori e dei magi. In essa confluiscono molti elementi del resto dell’edificio. Da una parte infatti esso è il diretto riferimento cristologico della volta e del soprarco, simbolo anche di quel processo di morte e resurrezione, ben visibile dalla mangiatoia a forma di sarcofago classico. Dall’altra il tema evangelico si riempie di riferimenti umanistici, come quello a Pompeo Magno vincitore in Palestina, sull’arco attraverso cui passano i magi o l’iscrizione, ideata dal Fonzio, che si legge sulla mangiatoia, trasformata qui in un sarcofago antico. In essa si riporta la profezia di un augure Fulvio ucciso a Gerusalemme da Pompeo e che avrebbe predetto la nascita di un dio dalla sua tomba.

Adorazione dei pastori , pala d’altare della cappella e capolavoro del Ghirlandaio

Da un punto di vista artistico poi la pala mescola e cita anche letteralmente i vari riferimenti su cui Ghirlandaio si era formato e su cui si era aggiornato, mescolando colonne classiche che sorreggono la capanna e un’accurata prospettiva a caratteri tipicamente fiamminghi, dalle piante in primo piano, che citano nella loro resa naturalistica i fiori in primo piano del Trittico Portinari, alla resa dei volti, da cui traspare sia un’attenzione alle espressioni e ai gesti sia una cura lenticolare e fisiognomica ai tratti più minuti e a volte antidealizzati. In questa direttrice si pongono quindi i ritratti dei committenti, affrescati di profilo in ginocchio in adorazione del bambino su fondi in finto marmo, seguendo in ciò sia la tradizione italiana all’antica del ritratto di profilo sia quella fiamminga che rende perfettamente riconoscibili e naturalistici i tratti degli effigiati. Ai loro piedi si trova infine la data di realizzazione, che riporta il 5 dicembre 1480, che non va riferito alla conclusione del ciclo quanto al suo inizio e alla sua committenza. Esemplificativo di ciò è invece la datazione di conclusione della pala, al di sopra di un capitello, che riporta invece il 1485.

Un organismo complesso, la cappella Sassetti. Un luogo capace di rappresentare a pieno le mille anime del suo tempo, dalla cultura umanistica ai temi cristiani, argomenti che ben dialogavano sia nella letteratura che in quella filosofia neoplatonica che vibrava nella Firenze laurenziana. Un luogo importante, lontano dai circuiti più noti, che ricorda anche come la grande macchina della fortuna dei Medici si sostenesse sull’opera, le relazioni e il lavoro di personaggi importanti come Francesco Sassetti.

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