Hannibal ad portas!

DALLA CONQUISTA CARTAGINESE DELLA SPAGNA (237-229 a.C.) ALLA BATTAGLIA DI CANNE (216 a.C.)

La sconfitta nella prima guerra punica e la successiva ribellione dei mercenari avevano inferto un profondo scossone allo stato punico. Parimenti l’economia cartaginese, su cui continuava a gravare come un macigno il peso delle riparazioni dovute a Roma, languiva in seguito alla perdita delle risorse agricole e minerarie della Sicilia e della Sardegna oltre che per la fine della talassocrazia sul Mediterraneo occidentale, che era stata alla base della prosperità del commercio cartaginese.

Iberia 237-218BC-it.png
I possedimenti cartaginesi in Spagna tra il 237 e il 218 a.C.

In una Cartagine umiliata e sull’orlo della bancarotta, Amilcare ebbe buon gioco a convincere i suoi concittadini della necessità di costruire un dominio territoriale vero e proprio attraverso la conquista della penisola iberica. Il controllo diretto da parte di Cartagine delle ricche miniere d’oro e d’argento della Spagna avrebbero infatti consentito da una parte di pagare l’indennità di guerra dovuta a Roma e dall’altra fornito le risorse necessarie a preparare quella guerra di rivincita che nei piani di Amilcare, già contrario alla pace nel 241, appariva inevitabile.

In questo senso l’oro e argento iberici avrebbero consentito ai punici di arruolare ancora una volta migliaia di mercenari. Privata a seguito del trattato di pace della possibilità di levare soldati in Italia e in Sicilia, per Cartagine la penisola iberica si sarebbe allora rivelata anche un prezioso serbatoio di reclute: guerrieri valorosi e tenaci, gli indigeni ispanici vanno senza dubbio annoverati tra i più letali combattenti di tutto il mondo antico. L’avventura di Amilcare ebbe inizio nel 238 a.C. quando il condottiero cartaginese sbarcò alla testa di un piccolo esercito presso l’antica colonia punica di Gades (Cadice).

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è f21012cbbe7d4839d485f449bf713e26.jpg
Guerrieri iberici. Tra i più letali combattenti del mondo antico, i montanari spagnoli formarono una delle colonne portanti delle armate puniche.

In quell’occasione era certamente accompagnato dal fidato genero Asdrubale e dal figlioletto Annibale, allora novenne. Nel corso della sua azione di conquista Amilcare si mosse con grande abilità, alternando sapientemente l’uso della forza a quello della diplomazia. Con l’aiuto dei Bastetani, una tribù stanziata nei dintorni dell’odierna Malaga, mosse infatti verso nord sconfiggendo i Turdetani, che abitavano la valle del Guadalquivir, e i loro alleati Celtiberi, la più selvaggia ma anche la più potente fra tutte le stirpi iberiche.

Amilcare proseguì ancora la propria avanzata verso nord-est giungendo fino all’Akra Leuke (il “Capo bianco”), dove i cartaginesi fondarono una città che portava lo stesso nome, centro che i romani chiamarono Lucentum e che oggi è la città di Alicante. Preoccupato dalle manovre cartaginesi in Spagna, in quello stesso 231 a.C. il senato romano decise di inviare una prima missione diplomatica presso il Barcide, il quale riuscì a convincere gli emissari della Res Publica della bontà dei propri intenti: egli, dichiarò, sfruttava le ricchezze dei territori conquistati per pagare l’indennità di guerra, il che in parte era anche vero. Malgrado questa rassicurazione, i romani iniziarono a stringere rapporti con a città di Sagunto, che venne dichiarata “amica del popolo romano”.

Asdrubale morì nel 229 a.C. durante la ritirata del suo esercito dopo il fallito assedio di Helike.

Due anni dopo, nel 229 a.C., Amilcare perse la vita. Spintosi verso l’interno con l’obbiettivo di assediare la città iberica di Helike, il cartaginese fu attaccato da un esercito di Oretani, una potente tribù dell’interno. Assalito al guado di un fiume durante la ritirata, Amilcare vi annegò mentre combatteva in retroguardia per coprire il ripiegamento del suo esercito e proteggere i due figli adolescenti, Annibale e Asdrubale, che egli aveva imprudentemente portato con sè in quella sciagurata spedizione. A seguito della scomparsa del loro amato generale, le truppe cartaginesi di stanza in Iberia acclamarono come loro nuovo comandante il genero del defunto, Asdrubale il Bello, il quale nominò a sua volta il diciottenne cognato Annibale come comandante della cavalleria. Più politico e amministratore che soldato, Asdrubale si prodigò non tanto ad estendere ulteriormente i possedimenti punici quanto a dare forma e istituzioni a ciò che suo suocero Amilcare aveva conquistato. Ammiratore della cultura greca, sull’esempio di questa Asdrubale probabilmente coltivava l’ambizione di fondare una signoria personale di tipo ellenistico.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 9137a03ed4f70df6865842d92084a1b7.jpg
Asdrubale il Bello succedette al suocero Amicare nel governo della Spagna cartaginese atteggiandosi come un sovrano ellenistico.

Tali ambizioni monarchiche di cui lo tacciavano i suoi avversari politici a Cartagine egli ritenne di poterle mostrare liberamente in Spagna. Qui infatti Asdrubale compì quello che nel mondo ellenistico era considerato l’atto regio per eccellenza ovvero fondò, lungo la costa occidentale della Penisola iberica, una nuova città destinata a diventare la sua nuova capitale, a cui conferì, con ardire quasi sacrilego, lo stesso nome della madrepatria, Qart Hadasht, la Cartagine di Spagna (che i romani chiameranno Carthago Nova, ovvero l’odierna Cartagena). Questo gesto aveva lo scopo di presentare Asdrubale come un rifondatore dello stato cartaginese, accostandolo idealmente alla figura di Didone e ponendolo in una posizione di preminenza assoluta, addirittura al di sopra delle leggi.

Asdrubale in effetti si comportò a tutti gli effetti come un sovrano, cingendo persino il diadema e facendo erigere nella sua capitale un vero e proprio palazzo reale nel quale viveva secondo il protocollo tipico delle corti ellenistiche. Come già Alessandro Magno, anche Asdrubale volle trasformarsi da conquistatore straniero a capo nazionale delle genti indigene pertanto attuò una politica mirante alla fusione tra l’elemento punico e quello iberico il cui cardine furono i matrimoni misti. Egli stesso prese in moglie una principessa iberica e combinò le nozze tra il cognato Annibale e Imilce, aristocratica indigena esponente di una potente famiglia famiglia punicizzata di Castulo (Linares). Creò poi un consiglio in cui riunì i delegati di tutte le tribù iberiche sottomesse o alleate di Cartagine a cui, in cambio del riconoscimento della propria autorità, offrì di partecipare al governo del territorio. La fedeltà dei capi iberici era ad ogni modo assicurata dalla consegna di ostaggi e dal sistematico ricorso al terrore: agenti punici sotto copertura percorrevano il territorio sorvegliando l’operato dei principi ed eliminando quelli più riottosi.

Il Mediterraneo occidentale nel 226 a.C. dopo il trattato dell’Ebro tra Roma e Cartagine

Per quanto riguarda la politica estera Asdrubale mantenne nei confronti di Roma un contegno assai meno aggressivo rispetto ad Amilcare. La stessa Res Publica in quel momento non aveva intenzioni bellicose nei confronti di Cartagine: a partire dal 232 a.C. i romani erano infatti impegnati in una vasta opera di conquista e colonizzazione della Pianura Padana che la portò a scontrarsi con i Celti della Cisalpina, i quali chiesero aiuto ai loro consanguinei che vivevano al di là delle Alpi. A quel punto il Senato temette che i cartaginesi volessero sostenere direttamente l’attacco gallico in Italia o, almeno, approfittarne per riconquistare la Sardegna e la Corsica. Pertanto, spinta anche dall’alleata Massalia (Marsiglia), che vedeva avvicinarsi il pericolo di una possibile alleanza cartaginese con le vicine popolazioni dei Liguri, Roma inviò in Spagna un’ambasceria. Il senato chiedeva ad Asdrubale di limitare le proprie azioni belliche ai territori posti a sud del fiume Ebro, che divenne la linea di demarcazione tra le sfere di influenza romana e cartaginese. Il patto poi, con ogni probabilità, impegnava i contraenti a rispettare l’autonomia e l’allineamento politico delle comunità che, al momento della firma del trattato, erano vincolate da accordi con la controparte.

Un Annibale ancora bambino giura per volere del padre che non sarà mai amico dei romani di fronte all’altare di Eracle-Melqart

Tuttavia di lì a cinque anni, nel 221 a.C., Asdrubale fu assassinato. L’omicida,un indigeno servo di un principe iberico ribelle pubblicamente crocefisso, riuscì nottetempo a eludere la sorveglianza e introdottosi nelle stanze di Asdrubale lo pugnalò a morte vendicando così il proprio signore. A seguito della sanguinosa uscita di scena di Asdrubale, il non ancora ventiseienne Annibale venne allora acclamato comandante supremo dalle truppe puniche presenti in Spagna. Nato intorno al 247 a.C., anno in cui suo padre era stato inviato in Sicilia a combattere i romani, l’infanzia di Annibale era stata segnata da un episodio celeberrimo vale a dire il voto pronunciato per volere del padre  dinnanzi all’altare di Eracle-Melqart, con il quale un Annibale ancora bambino (aveva appena nove anni) giurò che mai sarebbe stato amico del popolo romano. Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Annibale furono dedicati alla preparazione intellettuale e fisica necessaria per poter un giorno ricoprire il ruolo di comandante a cui era predestinato.

Che tipo di istruzione ricevette Annibale? Certamente essa fu a un tempo punica e greca. Da buon cartaginese fu iniziato certamente ai rudimenti dell’economia e della scienza agronomica, attraverso la lettura delle opere di Magone, autore di un apprezzato trattato sull’agricoltura. Tipicamente punica era poi la propensione di Annibale nell’apprendimento delle lingue straniere: oltre al greco, insegnatogli dal suo precettore, lo spartano Sosilo, il Barcide con ogni probabilità conosceva anche il latino e aveva forse appreso alcuni dei dialetti ispanici e celtici. Greca fu invece la formazione militare di Annibale.

Sotto l’attenta supervisione del padre Annibale crebbe soldato fra i soldati imparando innanzitutto ad obbedire prima ancora che a comandare.

Oltre che dalla lettura dei poemi omerici egli elesse suoi modelli di riferimento il macedone Alessandro e il Re dell’Epiro Pirro, antico avversario di Roma. Spartano come il suo maestro era poi un altro modello di Annibale: Lisandro, il vincitore della guerra del Peloponneso, l’uomo dall’astuzia proverbiale capace di coniugare l’areté, il valore, con la metis, ossia l’intelligenza applicata alla guerra. Fu proprio il continuo ricorso a stratagemmi di ogni tipo a fare guadagnare ad Annibale quella fama di perfidia, attribuitagli dai romani per la sua costante violazione della fides, cioè di quella lealtà che, nella loro antiquata concezione cavalleresca della guerra, era dovuta anche al nemico.

Di pari passo con l’educazione dovette procedere l’apprendistato militare di Annibale. Cresciuto come valletto di truppa in mezzo ai soldati del padre, di essi fu alumnus prius omnium vestrum quam imperator, ossia allievo di tutti loro prima che loro condottiero. L’addestramento fisico ricevuto negli anni della giovinezza fece di lui un uomo dallo straordinario vigore fisico, che mantenne fino agli anni della maturità. Abituato ai rigori della vita militare, Annibale diede sempre prova di una capacità di autocontrollo a dir poco monacale. A tal proposito scrisse di lui lo storico romano Tito Livio:

«Tollerava, allo stesso modo, il caldo e il freddo; la misura dei cibi e delle bevande era determinata dal desiderio naturale, non dal piacere; né di giorno né di notte vi erano per lui ore fisse per il sonno e per la veglia; quel tempo che restava, compiute le imprese, era dato al riposo, che non era procurato né da silenzio né da soffice letto; molti, infatti, scorsero spesso Annibale che giaceva in terra avvolto nel mantello militare, in mezzo alle sentinelle e ai posti di guardia dei soldati»

Fatta la conoscenza del primo dei due massimi protagonisti di questa nostra storia, possiamo procedere nel racconto delle vicende che condussero allo scoppio della seconda guerra punica. Nei due anni successivi all’assunzione del comando nel teatro iberico Annibale condusse una serie di operazioni minori contro alcune popolazioni indigene. Il suo obbiettivo rimaneva in ogni caso Sagunto, la cui indipendenza costituiva una vera e propria spina nel fianco al dominio punico in terra iberica.

La caduta di Sagunto in un dipinto dell’artista spagnolo Francisco Domingo Marqués del 1869

Approfittando di un contenzioso tra i Torboleti, tribù alleata di Cartagine, e la città, Annibale, ottenuta la condanna di Sagunto da parte dell’assemblea delle genti iberiche, si preparò all’assedio. I saguntini, sentendo la guerra imminente, inviarono una delegazione a Roma ma il senato, di fronte alla richiesta di aiuto di un alleato così lontano si mostrò titubante ad agire, atteggiamento da cui è derivata la locuzione latina Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur che significa “Mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata“. La Res Publica, tuttora impegnata contro i Celti nella piana del Po e nell’Adriatico contro i pirati illirici, si risolse a inviare ambasciatori ad Annibale e a Cartagine. Se il primo avesse rifiutato di rispettare Sagunto allora gli inviati romani si sarebbero recati a Cartagine chiedendone la rimozione dal comando iberico. Annibale respinse gli inviati della Res Publica i quali si recarono a Cartagine ma il senato punico, controllato dal partito barcide, rifiuto di accogliere le richieste romane.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 1280px-Mondo_mediterraneo_nel_218_aC.png
Scenario geopolitico dell’intero bacino del Mediterraneo alla vigilia della seconda guerra punica (218 a.C.)

A questo punto, nel marzo del 219 a.C., Annibale diede inizio all’assedio di Sagunto, che dopo una resistenza disperata di otto mesi cadde e fu saccheggiata. Con il suo attacco il generale cartaginese voleva mettere Roma alle strette: o accettare di combattere una guerra nel momento in cui la situazione era più favorevole a Cartagine oppure cedere e rinunciare a quella supremazia conquistata nella guerra precedente e lasciargli mano libera in terra spagnola.

La risposta di Roma giunse di lì a pochi mesi: agli inizi del 218 a.C., mentre i consoli Publio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo preparavano l’offensiva l’uno verso la Spagna e l’altro verso l’Africa, la Res Publica fece un estremo tentativo per salvare la pace inviando a Cartagine una missione diplomatica che pose al senato punico termini ultimativi per evitare il conflitto: sgombero di Sagunto, liberazione dei cittadini superstiti e consegna di Annibale e del suo stato maggiore.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è dbae0dae795903762f0c2246cf782e0f.jpg
Ricostruzione di alcuni soldati dell’armata di Annibale: Fromboliere delle Baleari, cavaliere getulo del Nordafrica e guerriero iberico della tribù degli Edetani.

Si trattava di condizioni chiaramente inaccettabili al punto che durante l’audizione degli ambasciatori anche quei senatori più ostili al clan dei Barca rimasero in silenzio. Soltanto uno di loro, Imilcone, cercò di scindere la responsabilità di Cartagine da quella di Annibale, affermando che i Barcidi non rappresentavano il governo legittimo di Cartagine.

Tuttavia la situazione precipitò quando gli ambasciatori romani invitarono il governo punico a prendere una posizione chiara sconfessando apertamente l’operato del proprio condottiero. Afferrato un lembo della propria tunica, il capo della delegazione, Quinto Fabio Massimo Verrucoso, affermò che essa conteneva ugualmente la pace o la guerra, e invitò i geronti cartaginesi a scegliere. La risposta dell’assemblea venne dal sufeta Bomilcare, cognato dello stesso Annibale, che gli rispose di scegliere lui stesso ciò che preferiva. Fabio a quel punto scelse la guerra, accolta dalle acclamazioni dei senatori cartaginesi.

Torniamo dunque in Spagna dove Annibale e il suo esercito si accingevano a partire alla volta dell’Italia. L’impresa che il generale cartaginese si accingeva a compiere aveva certamente qualcosa di sovrumano: le risorse, soprattutto in termini di riservisti, che la Res Publica avrebbe potuto mobilitare contro di lui erano infatti immense, superiori sia a quelle di cui lui disponeva in Spagna sia di tutte quelle presenti in tutti i possedimenti cartaginesi. Un censimento effettuato pochi anni prima della guerra, nel 225 a.C., in occasione dell’ultima calata dei Celti in Italia centrale, stimava il numero di uomini atti alle armi a disposizione della federazione romana in circa 770 mila unità.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 19e0ed516809ed666f730f7d2429c6b6.jpg
I Celti, in guerra con Roma da secoli, si arruolarono a migliaia nell’esercito annibalico.
Guerrieri valorosi, si dimostrarono tuttavia estremamente refrattari alla disciplina.

Per questo il condottiero cartaginese era perfettamente conscio che una guerra di logoramento sarebbe stata destinata inevitabilmente a concludersi con la sconfitta dei punici. Per questo motivo egli puntava a condurre un vero e proprio “blitzkrieg”, una “guerra lampo” fatta di pochi e risolutivi scontri campali.

Formatosi sull’esempio del suo modello più alto, Alessandro Magno, a cui in fondo erano bastate tre grandi battaglie per annientare l’impero achemenide, Annibale puntava a emularlo, infrangendo il mito dell’invisibilità delle legioni e provocando così la defezione a suo favore dei socii italici di Roma. Perché questa strategia potesse avere qualche chance di successo era però necessario portare la guerra nella stessa Italia, dove Annibale avrebbe potuto umiliare Roma davanti ai suoi stessi alleati. In ogni caso, contrariamente a quel che a volte si sente affermare, il Barcide non era intenzionato a condurre una guerra di sterminio contro Roma: il suo obbiettivo era piuttosto quello di ridimensionarla, riducendola al rango di potenza regionale in ambito italico nel quadro di una ricostituita egemonia cartaginese nel Mediterraneo occidentale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 1b6fb186a404f5be61a93bff7de7a7d4.jpg
L’esercito cartaginese faceva uso sia dell’elefante indiano sia del più piccolo elefante del Nord Africa, oggi estinto.

Ma su che genere di truppe faceva affidamento il Barcide per conseguire la vittoria? Quella di Annibale era un’armata composita, formata da reparti africani, iberici e, dopo il suo arrivo in Italia, celtici. Nel primo gruppo rientravano innanzitutto i sudditi libici di Cartagine, che da tre formavano la spina dorsale della fanteria punica. Dall’Africa venivano poi i Numidi e i Mauri, membri delle tribù berbere dell’interno, i quali formavano una delle cavallerie leggere migliori del mondo antico. Armati unicamente di giavellotti, pugnale e un piccolo scudo, montavano a pelo animali di piccola taglia e grande resistenza che conducevano facendo uso solo di una correggia di cuoio. Estremamente versatili, i cavalieri berberi erano perfettamente in grado di svolgere missioni di esplorazione e manovre di aggiramento, oltre ad essere abili nelle scaramucce e capaci persino di confrontarsi con cavallerie ben più pesanti e corazzate di loro.

Tra gli ispanici non di possono non menzionare i Balearici, famosi in tutto il Mediterraneo per la loro abilità nel tiro con la fionda. Considerati, è stato detto, tra i migliori combattenti individuali dell’antichità, gli Iberi fornirono ad Annibale contingenti sua di fanteria, leggera e pesante, sia di cavalleria. Venivano poi i Celti. Guerrieri valorosi e coraggiosissimi, essi erano tuttavia dei pessimi soldati, incapaci di sopportare la disciplina ed estremamente turbolenti e infidi. I Celti poi, in obbedienza a una loro macabra tradizione religiosa, erano cacciatori di teste, cosa che in battaglia li portava spesso a interrompere il combattimento per cercare di guadagnare un prezioso trofeo. Forse anche per questo Annibale li ritenne sacrificabili, schierandoli sempre in prima linea ed esponendoli all’urto della fanteria legionaria, il che, unito all’abitudine dei Galli a combattere senza corazza per non dire nudi, determinò pesanti perdite tra le schiere celtiche.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è c5f09b1566c05c09bf2307008c5ca1e6.jpg
Una scena entrata nell’immaginario collettivo: Annibale con il suo esercito e i suoi elefanti attraversa le Alpi.

Infine venivano gli elefanti, il cui uso i cartaginesi avevano appreso dal mondo ellenistico. Spesso definiti i “carri armati” dell’antichità, gli elefanti erano tuttavia un’arma a doppio taglio: se spaventati i pachidermi tendevano facilmente a imbizzarrirsi diventando pericolosi anche per le truppe amiche. In questo caso il cornac (il conducente) era fornito di uno scalpello e di un martello per colpire la spina dorsale e uccidere l’animale. Gli elefanti che Annibale condusse con sè in Italia erano esemplari africani appartenenti ad una sottospecie oggi estinta nota come elefante del nord Africa (Loxodonta africana pharaohensis), più piccolo di quelli indiani impiegati da Pirro contro i romani. Stando a quanto riportato da Plinio il Vecchio, Annibale disponeva di un solo elefante indiano, il leggendario Surus (“il siriano”), così chiamato per la sua origine.

Intenzionato ad anticipare le mosse di Roma Annibale, affidato il comando spagnolo al fratello minore Asdrubale, mosse alla volta dell’Italia al comando di un’armata forte di 50 mila fanti, 9 mila cavalieri e 37 elefanti. La sua avanzata fu estremamente rapida e colse di sorpresa Scipione, che aveva raggiunto via mare con le sue legioni Marsiglia, nella speranza di intercettare il Barcide al guado del Rodano. Tuttavia, rallentato da una rivolta dei galli cisalpini, forse sobillata da agenti punici, il console arrivò quando Annibale aveva già varcato il fiume e si avviava in gran fretta verso i passi alpini prima che arrivasse la cattiva stagione. La traversata delle Alpi fu resa penosa dalle avverse condizioni ambientali nonché dai ripetuti assalti degli indigeni. Quando, dopo stenti e privazioni spaventose, Annibale giunse nella pianura piemontese il suo esercito era ridotto a 20 mila fanti e 6 mila cavalieri soltanto.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 1920px-MARCIA_DI_ANNIBALE_DA_NOVA_CARTHAGO_A_ITALIA_218_aC.png
Il percorso di Annibale dalla Spagna all’Italia e quello del console Publio Cornelio Scipione fino a Marsiglia nel tentativo di intercettare l’esercito punico.

Nel frattempo il console Scipione, lasciato il comando delle truppe al fratello Gneo, rientrò in tutta fretta a Pisa per assumere il comando delle legioni di stanza a sud del Po. A sua volta, l’altro console Sempronio Longo, rinunciò definitivamente a passare in Africa e dalla Sicilia si diresse verso nord a marce forzate per unire le sue forze a quelle del collega. Scipione marciò verso la pianura padana, deciso ad affrontare Annibale prima che questi potesse unire le proprie forze a quelle dei Celti cisalpini. Il condottiero punico dal canto suo, una volta fatte riposare le truppe esauste dopo la traversata delle Alpi, distrusse Taurasia, capitale dei Taurini, una tribù che aveva tentato di sbarrargli la strada, e, verso la fine di settembre del 218 riprese la marcia verso est.

Passato il Po all’altezza di Placentia (Piacenza), Cornelio Scipione andò allora incontro al nemico. I due eserciti vennero a contatto per la prima volta nei pressi del fiume Ticino, in una località che Tito Livio chiamò Victumulae, probabilmente non lontana dall’odierna Lomello. Scipione mandò avanti i suoi cavalieri ausiliari celti appoggiati dalla fanteria leggera dei veliti ma questi, aggirati e aggrediti alle spalle dalla cavalleria numidica di Annibale, furono costretti a ripiegare in disordine. Lo stesso console, ferito, scampò a stento alla morte grazie all’intervento del figlio diciassettenne Publio, il futuro Africano.

218 aC GALLIA CISALPINA.png
La Gallia cisalpina con le operazioni dell’autunno del 218 a.C.

Scipione si ritirò verso Piacenza mentre in tutta la pianura padana divampava la ribellione delle tribù celtiche e la fortezza di Clastidium (Casteggio), nella quale erano ammassate grandi quantità di grano, cadde nelle mani di Annibale. L’arrivo di Sempronio Longo e del suo esercito non valse a risollevare la situazione. Con il collega tuttora ferito, Sempronio assunse il comando di tutte le forze consolari ma, smanioso com’era di battersi, cadde nel tranello tesogli da Annibale: indotto ad attaccare da un’azione diversiva della cavalleria numidica, il console ordinò ai suoi di guadare la Trebbia, gelida e gonfia per le piogge autunnali. Quando giunsero sulla riva opposta gli intirizziti legionari, che a malapena riuscivano a tenere in mano le armi, vennero dapprima accerchiati dalle cavallerie berbere e dagli elefanti, poi aggrediti alle spalle da un reparto che Annibale aveva schierato in agguato agli ordini del fratello Magone. La battaglia della Trebbia fu un’autentica disfatta: 15 mila romani rimasero sul campo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è d0be9c7208805d788c3a272cb26f00ba.jpg
Al Trasimeno le legioni romane furono attaccate a sorpresa dagli uomini di Annibale sbucati dalla nebbia e massacrate.

Terminava così un anno, il 218, a dir poco disastroso per gli eserciti della Res Publica. Con la Gallia Cisalpina ormai in preda alla ribellione, le legioni andarono a rischierarsi a sud dell’Appennino tosco-emiliano. Con l’arrivo del nuovo anno Publio Scipione fu inviato in Spagna come proconsole a combattere i punici e vennero eletti i nuovi consoli: Gneo Servilio Gemino e Caio Flaminio Nepote, i quali si schierarono rispettivamente ad Ariminum (Rimini) e ad Arretium (Arezzo), allo scopo di bloccare l’avanzata punica. Le due armate consolari si trovavano quindi distanti l’una dall’altra e questo fu un errore che avrebbe pesato sugli sviluppi successivi della guerra perché in caso di attacco ciascuna avrebbe potuto essere distrutta senza poter che l’altra potesse intervenire in tempo a dare manforte.   

Dal canto suo Annibale, con il sopraggiungere del disgelo, ai primi di maggio riprese la sua marcia verso il cuore dell’Italia. Alla testa di un esercito che grazie ai rinforzi celtici contava ormai 50 mila uomini, il Barcide attraversò l’Appennino puntando verso il medio corso dell’Arno, incappando tuttavia nelle paludi di Fiesole, il cui attraversamento di rivelò alquanto faticoso e tormentato.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Battaglia_del_Trasimeno_-_Teoria_Brizzi-Gambini_2008.jpg
La battaglia del Trasimeno secondo la teoria di Brizzi e Gambini

Dopo avere perso quasi tutti gli elefanti nel corso dell’inverno, in quel frangente i punici ci rimisero moltissimi cavalli e una grande quantità di salmerie. Lo stesso Annibale, colpito da una forma di oftalmia purulenta, perse la vista dall’occhio destro e percorso l’ultima parte della traversata sul dorso del fedele Surus, l’ultimo pachiderma rimastogli.

Giunto in Etruria, Annibale prese a devastare sistematicamente il territorio allo scopo di indurre a battaglia Flaminio ma il console, saggiamente, evitò lo scontro e prese a tallonare da vicino l’armata punica in attesa dell’arrivo da Rimini del collega Servilio. A quel punto Annibale sospese le scorrerie e, dopo essere riuscito a distanziare i romani, una volta giunto in prossimità del lago Trasimeno scomparve all’improvviso attraverso una strettoia dove preparò la sua trappola che scattò implacabile nella nebbiosa mattinata del 21 giugno del 217 quando Flaminio si avventurò con i suoi uomini nella conca di Tuoro senza prima avervi inviato reparti in avanscoperta.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 005fe8374f87591934ee3d049f4bbbc8.jpg
Annibale sul campo di Canne circondato dal suo stato maggiore. Il condottiero punico aveva perso l’occhio destro durante l’attraversamento delle paludi di Fiesole.

Sorpresi in assetto di marcia, con il Trasimeno a chiudere ogni possibile via di fuga, i romani vennero assaliti su ogni lato e massacrati: 10 mila legionari rimasero sul terreno e tra essi vi fu lo stesso console Flaminio, trapassato dalla lancia di un capo insubre. Poco dopo, mentre Servilio Gemino scendeva da Rimini percorrendo la via Flaminia, aperta pochi anni prima dal suo sfortunato collega, la sua avanguardia venne assalita dagli squadroni numidi, perdendo tra morti e prigionieri 4 mila soldati.

Nonostante i successi conseguiti Annibale non riuscì a provocare l’auspicata defezione dei socii centro italici di Roma pertanto scelse di dirigersi ancora più a sud, dove più forte era il sentimento antiromano. Intanto, scossa delle disfatte subite, la Res Publica ricorse ad una pratica tanto antica quanto estrema vale a dire la nomina di un dittatore, un magistrato investito di pieni poteri con un mandato semestrale. A ricoprire questa delicata carica fu chiamato Quinto Fabio Massimo Verrucoso, già due volte console. Fabio, non a caso passato alla Storia col soprannome di Temporeggiatore, attuò nei confronti di Annibale una strategia di logoramento evitando di concedere al cartaginese la possibilità di nuove battaglie campali.

Gli schieramenti romano e cartaginese alla battaglia di Canne. Il centro di Annibale, indietreggiò permettendo alle ali di sorprendere sui fianchi le legioni.

I sistematici saccheggi causati dalle truppe puniche nelle campagne dell’Italia meridionale provocarono tuttavia forti proteste fra gli alleati di Roma rinforzando la posizione di quanti chiedevano una soluzione rapida della guerra. Scaduto il tempo della dittatura di Fabio Massimo, con l’arrivo del 216 a.C. vennero eletti nuovi consoli il patrizio Lucio Emilio Paolo e l’homo novus Caio Terenzio Varrone.

Allo scopo di affrontare Annibale la res Publica mise in campo un esercito di dimensioni mai viste prima: ben otto legioni per un totale di circa 80 mila soldati. Annibale, dopo avere svernato nella Puglia settentrionale, si accampò nella piana dell’Ofanto, non lontano dell’odierna frazione di Canne della Battaglia, nel territorio del comune di Barletta. Qui, il 2 agosto del 216 a.C. andò in scena il capolavoro tattico di Annibale. Il cartaginese dispose i suoi uomini in formazione a mezzaluna con la convessità rivolta verso il nemico al cui centro pose i Celti e gli Iberici mentre ai lati schierò la fanteria pesante africana. Sulle ali poi il Barcide collocò a sinistra la cavalleria numidica e a destra quella celtica e iberica.

Il massacro finale dell’esercito romano nella piana di Canne.

Come previsto da Annibale il centro del suo schieramento cedette di fronte all’urto delle legioni arretrando e assumendo una forma concava, a lama di falce. Il fronte punico resistette senza spezzarsi mentre le fanterie libiche alle estremità attaccarono il nemico su entrambi i fianchi scoperti, chiudendolo in una morsa e arrestandone definitivamente lo slancio. A quel punto, a completare l’accerchiamento degli sventurati legionari intervenne la cavalleria punica, la quale, disfattasi rapidamente di quella romana, assai meno numerosa, piombò alle spalle della fanteria avversaria, chiudendo ogni via di scampo. Allora ebbe inizio il massacro: avviluppato dalla magistrale manovra avvolgente di Annibale l’esercito romano fu praticamente distrutto: la Res Publica lasciò sul campo di Canne circa 50 mila uomini. Caddero inoltre, oltre a uno dei consoli in carica, anche il console superstite dell’anno prima, Servilio Gemino, il magister equitum Minucio Rufo, entrambi i questori, 29 tribuni militari e 80 senatori. Caddero poi in mano cartaginese circa 19 mila prigionieri. Soltanto 15 mila superstiti riuscirono a sfuggire alla morte o alla cattura e a mettersi in salvo. Dal canto suo Annibale pagò lo strepitoso successo con 6 mila caduti soltanto, gran parte dei quali erano Celti.

Bibliografia:

  • G. Brizzi, Storia di Roma – Dalle origini ad Azio 
  • G. Brizzi, Annibale
  • S. Mazzarino, Introduzione alle guerre puniche
  • A. Frediani, Le grandi guerre di Roma

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...