Carthago delenda est!

LE CONSEGUENZE DELLA SECONDA GUERRA PUNICA, IL DESTINO DI ANNIBALE E LA DISTRUZIONE DI CARTAGINE

Con il trionfo di Zama, Roma uscì alfine vittoriosa dal suo lungo e sanguinoso duello con Annibale. Per la Res Publica calò così il sipario su un incubo durato quindici anni e che aveva seminato in tutta la Penisola una lunga scia di morti, distruzioni e sofferenze. Il tessuto socio-economico dell’Italia romana presentava infatti cicatrici che avrebbero richiesto decenni per essere sanate. Lo storico romano Floro scrisse che lo scontro era stato tanto duro che “il popolo vincitore non era in alcun modo dissimile da quello vinto”.

Il Mediterraneo occidentale al tempo della pace siglata al termine della seconda guerra punica (201 a.C.)

Al di là delle spese enormi sostenute dalla Res Publica, occorre considerare le immani perdite umane subite dalla federazione romana. Alle migliaia di caduti disseminati dalle legioni sui campi di battaglia di Italia, Spagna, Africa e Balcani, bisogna sommare sia le innumerevoli vittime dello spietato terrorismo cartaginese, sia quelle, altrettanto numerose, della furia delle legioni nella fase della riconquista romana: secondo la tavola che celebrava le sue gesta in Italia lasciata da Annibale nel santuario di Era Lacinia, ben quattrocento città state da lui conquistate o erano spontaneamente passate dalla sua parte per poi essere riprese dai romani; molte di queste – come Acerre o Herdonea – erano state date alle fiamme o ripetutamente espugnate e saccheggiate dagli opposti eserciti. I campi e le fattorie del meridione d’Italia vennero sistematicamente devastati mentre intere popolazioni – come quella di Atella o di Calazia – conobbero la deportazione in massa. Infine non possiamo dimenticare tutti quegli infelici che, caduti prigionieri, vennero venduti come schiavi sui mercati dell’Oriente greco e di cui si perse ogni traccia nonostante le ricerche effettuate dal Senato nel dopoguerra.

I continui impegni militari mandarono in rovina i contadini-soldati spianando la strada all’affermazione della grande proprietà latifondista

Ma quante furono, in definitiva, le vittime della guerra scatenata da Annibale? Per rispondere a questa domanda dobbiamo come di consueto affidarci alle fonti disponibili. Tito Livio ad esempio riporta che il censimento del 204 a.C. registrò ben 56 mila cittadini in meno rispetto all’analoga rilevazione effettuata nel 233. Ove alle perdite ad attribuirsi alla guerra si sommi la mancata crescita del corpo civico, sistematica tra un censimento e l’altro, il totale dei cives mancanti all’appello si attesta intorno alle 100 mila unità, cifra che raddoppia se ad essa si sommano le perdite subite dai socii italici, più numerosi dei cittadini romani. Riassumendo, non è azzardato stimare le perdite umane patite dalla Res Publica nel corso della guerra annibalica in circa 200 mila tra morti e dispersi. Sopportate pressoché interamente dalla popolazione maschile, come peraltro era tipico delle guerre dell’antichità, tali perdite rappresentarono un’autentica sciagura per la società romana la quale, ancora essenzialmente contadina, basava proprio sui maschi adulti la maggior parte dei processi produttivi non meno che la sua potenza militare. La cifra appare tanto più spaventosa se la si confronta con il potenziale demografico della Res Publica. In altre parole la confederazione romano-italica perdette circa un terzo degli uomini in età per combattere.

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I fratelli Tiberio e Caio Gracco in un’opera di Eugene Guillaume conservata al Museo d’Orsay di Parigi. Entrambi tentarono invano di realizzare una riforma agraria a favore delle classi più umili.

L’enorme tributo di sangue e di devastazione era poi destinato ad avere conseguenze importanti e durature nel tempo per la società romana. Costretti a prolungate assenze dai propri poderi a causa prima dell’invasione annibalica e poi delle grandi guerre oltremare, i contadini-soldati della Res Publica, autentica spina dorsale delle armate romane, finirono con l’andare in rovina. Il colpo di grazia ai piccoli proprietari e la definitiva acquisizione delle loro terre da parte dei grandi latifondisti fu inflitto nel corso del II secolo a.C. dalla concorrenza insostenibile delle grandi masse di schiavi introdotti in Italia proprio a seguito delle grandi vittorie da loro conseguite in tutto il Mediterraneo. Proprio nel tentativo di ricostruire quella piccola borghesia contadina, tradizionale serbatoio di soldati per la Res Publica, i tribuni Tiberio (163-133 a.C.) e Caio Gracco (154-121 a.C.), nipoti di Scipione l’Africano, avanzeranno delle proposte di riforma volte ad assicurare la redistribuzione delle terre dell’ager publicus ai capite censi (i nullatenenti), scontrandosi però con gli interessi ormai consolidati dei grandi latifondisti, spesso impadronitisi delle terre demaniali occupandole abusivamente.

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Il mondo ellenico alla vigilia della seconda guerra tra Roma e la Macedonia (200 a.C.)

Un altro rilevante cambiamento di rotta si verificò per quanto riguarda la politica estera. La Res Publica, infatti, uscì dal conflitto con Annibale affetta da una vera e propria “sindrome delle Twin Towers”, che ne condizionò a lungo atteggiamenti ed emozioni. Tra queste quella che più di ogni altra orientò le scelte del Senato fu la paura (metus). In altre parole Roma agì per scongiurare lo spettro di una nuova invasione dell’Italia, facendo ricorso sia alla deterrenza (“si vis pacem para bellum”), attraverso ad esempio l’arruolamento continuato delle legiones urbanae, sia alla conduzione di vere e proprie guerre preventive come quella dichiarata a Filippo V di Macedonia.

A partire dagli anni immediatamente successivi alla conclusione della seconda guerra punica la Res Publica condusse una serie di interventi militari nell’oriente ellenistico, che la porteranno a scontrarsi vittoriosamente con la Macedonia antigonide e la Siria seleucide. Tuttavia, rendendosi conto delle difficoltà, peraltro già riscontrate in Sicilia e in Sardegna, derivanti dal controllo di territori posti oltremare, a così grande distanza dell’Italia, Roma, almeno in un primo tempo, rinuncerà a costituire nuove province. Tuttavia, attraverso i trattati di pace, la Res Publica costringerà sistematicamente gli avversari vinti a privarsi delle rispettive flotte come peraltro già imposto alla stessa Cartagine. Questa misura, se da un lato valse a scongiurare un’invasione navale della Penisola, dall’altro, in assenza di un’efficace azione di sorveglianza dei mari svolta da Roma, contribuì a ridare slancio al fenomeno della pirateria, piaga che sarebbe stata debellata soltanto in seguito all’offensiva contro i predoni del mare lanciata da Gneo Pompeo Magno (67 a.C.).

Nel corso delle guerre combattute contro le potenze ellenistiche emerse nettamente la superiorità tattica della legione manipolare sulla falange macedone

Negli stessi anni in cui Roma dava inizio alla sua espansione in tutto il Mediterraneo, Cartagine si riprese dai traumi della sconfitta subita. Le clausole del trattato di pace del 201 erano certamente tale da cancellare per sempre la città punica dal novero delle grandi potenze ma al tempo stesso lasciavano in suo possesso i fertili territori africani, assicurandole inoltre piena libertà di commercio. Così, almeno dal punto di vista economico Cartagine poté nuovamente risorgere.

Lo stesso Annibale, messo a capo delle forze di autodifesa, contribuì alla ritrovata prosperità della sua patria impiegando i veterani superstiti della sua armata nella piantumazione di viti, olivi e alberi da frutto all’interno dei suoi possedimenti agricoli nella Byzacena. Legati così al loro comandante e datore di lavoro anche in tempo di pace, i reduci costituirono il fedelissimo seguito di cui probabilmente Annibale intendeva servirsi per scalare i vertici del potere supremo. La grande occasione giunse nel 195 a.C. quando, approfittando del malcontento generale dovuto a un grave episodio di corruzione, il Barcide fu nominato sufeta a furor di popolo. Nel corso del suo mandato Annibale si scontrò frontalmente con il ceto dirigente oligarchico, responsabile di numerose ruberie e malversazioni. Principale bersaglio dell’azione politica annibalica fu soprattutto il famigerato Consiglio dei Cento, vero e proprio baluardo del sistema oligarchico. Annibale pertanto condusse in porto una riforma che, rendendone il mandato da vitalizio ad annuale e senza possibilità di proroga immediata, toglieva all’organo quel carattere di intangibilità che aveva sin lì consentito ai giudici di operare indisturbati.

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Antioco III il Grande (241-187 a.C.) sovrano dell’Impero seleucide. Accolse Annibale alla sua corte dopo che questi fu costretto all’esilio

Sentendosi minacciati nei loro privilegi e nelle loro prerogative, gli oligarchi punici fecero allora appello a Roma, o meglio alle loro amicizie personali fra gli esponenti della nobiltà capitolina. Nonostante l’intervento in sua difesa pronunciato dal rivale di un tempo, Scipione l’Africano, Annibale continuava ad essere percepito dal Senato come una minaccia per la Res Publica, motivo per cui, con la scusa di dirimere una controversia territoriale fra Cartagine e la Numidia, venne deliberato l’invio in Africa di una commissione con il conto di indagare sulle manovre del Barcide. Temendo allora di essere consegnato ai romani, Annibale preferì prendere la via dell’esilio imbarcandosi per l’oriente. Giunto alla corte di Antioco III il Grande, ormai prossimo alla guerra con Roma, il Barcide fu accolto con grandi onori dal sovrano seleucide. Ammesso tra i più intimi consiglieri del Re, Annibale sottopose ad Antioco un grandioso piano strategico: mentre lui avrebbe occupato la Grecia, il Cartaginese, alla testa di un’armata siriaca sarebbe sbarcato nell’Italia meridionale, dove avrebbe nuovamente cercato di sollevare i socii italici contro la Res Publica. Il sovrano seleucide tuttavia, per quanto stimasse le doti militari di Annibale, non se la sentì evidentemente di assecondarne i disegni.

La battaglia di Magnesia (190 a.C.) nel corso della quale Publio e Lucio Scipione inflissero una decisiva sconfitta alle forze siriache.

Sbarcato in Grecia, Antioco fu così dapprima pesantemente sconfitto alle Termopili (191 a.C.) dall’esercito del console Manio Acilio Glabrone e poi, dopo essere stato costretto a evacuare la penisola ellenica, nuovamente battuto, questa volta dai fratelli Publio e Lucio Scipione, alla battaglia di Magnesia, in Lidia (190 a.C.). Alla stipulazione della pace, firmata nel 188 a.C. ad Apamea, Roma richiese espressamente ad Antioco la consegna di Annibale, ma il Re, con un ultimo gesto di magnanimità, lasciò che il generale cartaginese gli sfuggisse da sotto il naso. Annibale iniziò allora una lunga serie di peregrinazioni che lo condussero certamente a Creta e forse in Armenia per poi stabilirsi definitivamente in Bitinia (odierna Turchia nord-occidentale), alla corte del sovrano locale Prusa, per il quale curò il progetto della nuova capitale, Prusia (l’attuale Bursa). Quando però venne a conoscenza delle intenzioni del suo ospite, il quale, cedendo alle pressioni del Senato, si era deciso a estradarlo a Roma, il Barcide, piuttosto che cadere vivo nelle mani dei suoi mortali nemici preferì darsi la morte ingerendo il veleno che portava sempre con sé.

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Particolare del cosiddetto Patrizio Torlonia, busto identificato con Marco Porcio Catone (234-149 a.C.)

Correva l’anno 183 a.C. e Annibale aveva allora sessantaquattro anni. Le sue ultime parole, secondo quanto riportato da Tito Livio, furono le seguenti «Quanto sono cambiati i romani, da non avere più nemmeno la pazienza di attendere la morte di un vecchio. Orsù, dunque, liberiamoli da questo affanno».

Cartagine sopravvisse al suo più grande comandante per meno di quarant’anni. Dopo essere stata ripetutamente umiliata da Massinissa, di fronte all’ennesimo sopruso del sovrano numida, nel 151 a.C. la città decise di riarmarsi, contravvenendo a una delle clausole più importanti del trattato di pace firmato con Roma mezzo secolo prima. Anche se le ceneri di Annibale giacevano da decenni sulle lontane sponde del Mar di Marmara e la sua figura rappresentava ormai soltanto uno spauracchio, un babau usato per spaventare i bambini disobbedienti, il riarmo cartaginese risvegliò nei romani quel “metus punicus” mai del tutto sopito, circostanza destinata ad avere conseguenze devastanti per la città africana.

Tra i più accesi sostenitori della necessità di farla finita per una volta per tutte con Cartagine vi era Marco Porcio Catone, veterano della guerra annibalica. Catone, arruolatosi poco più che adolescente all’indomani del disastro di Canne apparteneva dunque a quella generazione che aveva vissuto in prima persona gli orrori e le distruzioni dell’invasione cartaginese della Penisola.

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Cartagine sorgeva su di un istmo, in un’eccellente posizione strategica ed era dotata di ottime difese.

Adesso aveva varcato la soglia degli ottant’anni, un’età decisamente veneranda per la sua epoca. Probabilmente molti dei senatori suoi colleghi potevano essergli figli. La volontà punitiva del vecchio Censore, il quale era solito concludere i suoi interventi con il ritornello “Censeo Carthaginem esse delendam!” (Ritengo che Cartagine debba essere distrutta!), era in ogni caso condivisa sia dagli agricoltori italici, desiderosi di impadronirsi delle ricche terre africane, sia dai mercatores, i quali intendevano in questo modo eliminare una pericolosa concorrente. Proprio Catone fu protagonista del celeberrimo aneddoto del cesto di fichi da lui fatti portare in Senato a dimostrazione sia della ritrovata prosperità punica sia della vicinanza di Cartagine, e dunque del pericolo di un attacco contro Roma.

La linea di Catone infine prevalse e al principio del 150 a.C. Roma dichiarò formalmente guerra a Cartagine. Iniziava così la terza guerra punica. L’ultima. Mentre giungeva in Italia una delegazione che recava la resa di Utica, la Res Publica mobilitò quattro legioni e una flotta di 150 navi al comando dei consoli Lucio Marcio Censorino e Manio Manlio Nepote. Pur di evitare la guerra, i punici accettarono le pesanti richieste del Senato romano che impose loro la consegna di trecento ostaggi e di tutto il materiale bellico.

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Particolare del cosiddetto principe ellenistico, scultura bronzea che secondo taluni studiosi ritrarrebbe Scipione Emiliano.

Ma quando fu loro ingiunto di abbandonare la loro città e di trasferirsi a 15 km dal mare, i cartaginesi, in un ultimo sussulto di dignità, opposero un netto rifiuto e anche quanti si erano dichiarati a favore di una sottomissione a Roma scelsero di resistere a oltranza. Approfittando del lassismo dei comandanti romani, i punici diedero inizio ad una frenetica corsa al riarmo fabbricando ogni giorno centinaia di spade, scudi, lance e proiettili per le macchine da lancio.

I consoli romani, lasciata Utica, trovarono quindi una situazione difficile. La sosta aveva dato al comandante punico Asdrubale il Boetarca (ossia “comandante degli ausiliari”) la possibilità di raccogliere circa 50 mila combattenti ben armati. I cartaginesi inoltre potevano fare affidamento sulle imponenti difese della loro città, che contava su una triplice cinta muraria alta quattordici metri e spessa dieci lungo l’istmo che, ad ovest, collegava alla terraferma la penisola entro la quale sorgeva l’abitato. Per il resto, a nord ed a est la lingua di terra dirupava nel mare rendendo impossibile sia l’approdo che la scalata, mentre a sud, dove si trovavano il mercato, il porto e in posizione più arretrata e su un’altura, la Byrsa, ovvero la cittadella, una sottile striscia di terra (l’odierna Kherredine) difesa anch’essa da solide mura delimitava quello che adesso è il lago di Tunisi.

L’assedio ebbe inizio al principio dell’estate del 149 a.C. quando Manio Manilio portò i suoi uomini alle mura della cittadella mentre Censorino tentò di bloccare il porto con la flotta. Iniziò il lancio delle catapulte e i romani riuscirono a produrre una breccia nelle mura che però fu subito richiusa. I difensori contrattaccarono e distrussero parte delle macchine belliche.

L’assalto finale dei legionari di Scipione Emiliano alle mura di Cartagine.

Quando i manipoli furono lanciati all’assalto della breccia, furono sanguinosamente respinti. Censorino cercò di attaccare il borgo di Nefari ma fu anch’egli respinto da Asdrubale. In questi giorni si distinse il giovane tribuno Scipione Emiliano, che riuscì a portare nel campo dei romani Imilcone, uno dei capi della cavalleria cartaginese, con oltre 1.200 cavalieri.

La guerra andò incontro ad uno stallo nel 148 a.C. in quanto i nuovi consoli dell’anno, Lucio Calpurnio Pisone e Lucio Ostilio Mancino si rivelarono ancor più inetti dei predecessori. Così, nel 147, in deroga alla lex annalis, fu deciso di eleggere al consolato Publio Cornelio Scipione Emiliano, nipote del console caduto a Canne e figlio del vincitore di Pidna Lucio Emilio Paolo Macedonico ma in seguito adottato dalla gens degli Scipioni. Con lui l’esercito romano trovava finalmente un comandante all’altezza della situazione. Mentre i numidi passavano dalla parte di Roma, in appena venti giorni venne completata l’operazione di blocco contro Cartagine, che cadde infine nella primavera del 146 a.C. quando le legioni riuscirono a superare le mura della Byrsa.

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La moglie di Asdrubale Boetarca uccise i propri figli e poi si suicidò fra le fiamme che divoravano Cartagine piuttosto che cadere prigioniera dei romani.

Scipione emanò allora un bando che prometteva salva la vita a chi si arrendeva e usciva disarmato dall’acropoli. Deposero le armi in 50 mila fra cui Asdrubale, in seguito deportato in Italia. Dalle mura della cittadella, sua moglie pregò Scipione di punire il marito codardo, poi salì al tempio incendiato, sgozzò i figli e, come l’antica regina Didone, si lanciò fra le fiamme. Il comandante romano a quel punto abbandonò la città e gli ultimi irriducibili al saccheggio dei suoi uomini. Quanti non caddero sotto le spade dei legionari perirono nell’incendio che divorò la città per diciassette giorni. I pochi scampati al macello vennero venduti come schiavi. Cartagine fu completamente rasa al suolo, le sue mura abbattute, il suo porto distrutto. Un celebre aneddoto racconta che una volta spianato, il suolo di Cartagine venne rivoltato con gli aratri e cosparso di sale, affinché nulla vi potesse più crescere. La storicità di questo episodio è tuttavia assai dubbia visto che nessuna fonte dell’antichità menziona questo rituale. Lo storico greco Polibio, che assistette in prima persona alla caduta di Cartagine, narra invece che Scipione Emiliano, osservando quella catastrofe, lungi dal rallegrarsene avrebbe pianto, presagendo in essa il possibile destino di Roma stessa.

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Rovine della Byrsa, la cittadella di Cartagine, nell’odierna Tunisia.

Sulle ceneri dello stato punico sorse la nuova provincia romana d’Africa., separata dai territori numidi mediante un fossato, la fossa scipionis. Fu poi decretata la distruzione di quelle città minori che avevano appoggiato Cartagine (Neapolis, Aspis, Clupea, Nefari e Tunisi) mentre quelle (Utica, Hadrumetum, Thapsus, Leptis Minor, Acholla e Usula), arresesi a Roma, vennero dichiarate liberae et immunes (libere ed esenti da imposta). Con la distruzione di Cartagine terminavano una volta per tutte le guerre puniche, il secolare braccio di ferro che aveva visto Roma opporsi alla metropoli africana per il controllo del Mediterraneo occidentale.

Bibliografia:

fonti storiografiche antiche:

  • Tito Livio, Ab Urbe condita
  • Polibio, Storie

Fonti storiografiche moderne

  • G. Brizzi, Storia di Roma – Dalle origini ad Azio
  • G. Brizzi, Guerre puniche
  • A. Frediani, Le grandi guerre di Roma
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