STORIA DELLA SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA ITALIANA (APRILE-LUGLIO 1859)
È l’alba del 24 giugno 1859. Ci troviamo nella Lombardia orientale. Qui, e più precisamente tra la Bassa mantovana e le colline digradano verso il lago di Garda sta per consumarsi uno scontro il cui esito sarà decisivo per le sorti della guerra in quel momento in corso. L’esercito franco-piemontese sotto il comando unificato del Re di Sardegna Vittorio Emanuele II e dell’Imperatore dei francesi Napoleone III avanza verso est, alla volta di Venezia, determinato a chiudere una volta per tutte la campagna sino a quel momento vittoriosa e scacciare gli austriaci dall’Italia. A sbarrare agli alleati la strada c’è però l’esercito asburgico, per l’occasione guidato personalmente dal ventinovenne Imperatore Francesco Giuseppe.

Il fatto d’arme consumatosi quel 24 giugno 1859 tra Castel Goffredo e il lago di Garda, culmine della cosiddetta seconda guerra d’indipendenza, fu decisivo per le future sorti della Penisola italiana, dando inizio a quel processo di unificazione che di lì a due anni sarebbe sfociato nella nascita del Regno d’Italia. L’esito fallimentare del conflitto con l’Austria del 1848-49, entrato nei manuali scolastici col nome di “prima guerra d’indipendenza”, aveva evidenziato come, da solo, il piccolo Piemonte non fosse assolutamente in grado di confrontarsi militarmente con l’impero asburgico su un piano di parità. La svolta si verificò nel novembre del 1852, quando, per rimediare alla precaria situazione dello Stato sabaudo Re Vittorio Emanuele II, pur nutrendo nei suoi confronti una certa avversione, affidò l’incarico di formare un nuovo esecutivo al Conte Camillo Benso di Cavour che aveva già dato prova delle sue capacità prima come ministro dell’agricoltura e poi come ministro delle finanze.

Fin dal suo approdo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Cavour aveva perseguito due obbiettivi paralleli: mentre in politica interna si era adoperato per favorire lo sviluppo economico e civile del Regno sabaudo, in politica estera il Conte mirava a guadagnare l’alleanza delle potenze europee più avanzate, vale a dire la Gran Bretagna vittoriana e la Francia dell’autoproclamato Imperatore Napoleone III. Il fine ultimo dell’azione politica del Conte era la ripresa delle ostilità contro l’Austria per quanto, almeno negli anni cinquanta dell’Ottocento, Cavour come molti statisti non pensasse all’unità d’Italia quanto piuttosto alla creazione di un Regno sabaudo esteso alle sole regioni settentrionali della Penisola, mediante l’annessione al Piemonte del Lombardo-Veneto austriaco, dei ducati emiliani e delle legazioni pontificie della Romagna. La grande occasione per ottenere l’amicizia delle grandi potenze arrivò nel 1853, con lo scoppio della guerra di Crimea che vide gli anglo-francesi intervenire in appoggio agli ottomani per porre un freno alle velleità espansionistiche dello Zar di Russia. Due anni dopo, nel 1855, sollecitato dalle richieste inglesi e francesi, Cavour, con il pieno appoggio del Re Vittorio Emanuele II, acconsentì all’invio di un corpo di spedizione piemontese di 15 mila soldati in oriente.
Il pur modesto contributo alla causa alleata diede al Conte la possibilità di partecipare tra i vincitori al congresso di pace di Parigi dove ebbe per la prima volta la possibilità di denunciare di fronte ai grandi d’Europa la situazione italiana e in particolare il malgoverno pontificio e borbonico, presentati da Cavour come una delle cause principali dell’instabilità della Penisola. A mostrarsi particolarmente interessato alla situazione italiana si dimostrò Napoleone III. L’Imperatore, pur attuando una politica decisamente conservatrice sul piano interno, intendeva condurre una politica estera dinamica, mirante a mutare gli equilibri scaturiti dal congresso di Vienna del 1815.
Appoggiando la causa sabauda contro l’Austria, Napoleone III mirava in sostanza a sostituire l’egemonia asburgica con quella francese sulla nostra Penisola, riaffermando nel contempo la potenza della restaurata dinastia dei Bonaparte. Inoltre, giunto al potere sfruttando la popolarità del mito del suo inarrivabile zio, il Grande Corso, Napoleone III, pur non essendo un militare, intendeva seguirne le orme dando prova delle sue qualità di condottiero.

Per raggiungere il suo scopo quindi, Cavour poté contare non solo sul desiderio dell’Imperatore di riprendere la politica italiana dell’illustre predecessore, ma anche sulla paura suscitata in lui dal ripetersi di agitazioni di stampo mazziniano. Paradossalmente fu proprio il gesto isolato di un mazziniano, desideroso di vendicare la repressione ordinata nel 1849 da Napoleone contro la Repubblica Romana ad accelerare i tempi dell’alleanza franco-piemontese. La sera del 14 gennaio 1858 a Parigi il romagnolo Felice Orsini, che aveva partecipato alla difesa di Roma nel 1849, lanciò tre bombe contro la carrozza imperiale – blindata- provocando morti e feriti tra la folla. Immediatamente arrestato assieme ai complici (Andrea Pieri, Carlo Di Rudio e Antonio Gomez), Orsini fu poi processato e condannato a morte. Prima di finire sulla ghigliottina scrisse una lettera a Napoleone, dichiarandosi pentito del suo gesto e scongiurandolo di fare propria la causa italiana.

L’intesa franco-sabauda venne formalizzata il 21 luglio 1858 nel corso di un incontro segreto tra Cavour e Napoleone III tenutosi nella cittadina termale di Plombieres, nei Vosgi. In cambio della cessione di Nizza e della Savoia la Francia si impegnava a entrare in guerra a fianco del Piemonte qualora quest’ultimo fosse stato attaccato dall’Austria. Gli alleati avrebbero schierato un esercito di 300 mila soldati (200 mila francesi e 100 mila piemontesi), posto sotto il comando supremo di Napoleone III. A suggello dell’intesa vennero combinate le nozze tra il principe Napoleone Gerolamo Bonaparte, cugino dell’Imperatore, e Maria Clotilde di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II.
Durante i colloqui, i due statisti organizzarono inoltre il futuro assetto politico dell’Italia. Si prevedeva, una volta sconfitti gli austriaci, di creare una confederazione la cui presidenza sarebbe spettata al Papa. Essa avrebbe compreso un Regno d’Alta Italia, affidato ai Savoia, che avrebbero ottenuto il controllo del Lombardo – Veneto, dei ducati emiliani e della Romagna pontificia, un Regno dell’Italia Centrale che avrebbe riunito il Granducato di Toscana e i restanti territori papalini (tranne Roma e il Lazio, che sarebbero rimasti sotto la sovranità pontificia) mentre il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto inalterato. Napoleone III mirava a insediare suo cugino Gerolamo a Firenze e un altro suo congiunto, il principe Luciano Murat, sul trono di Napoli, in modo da estendere la propria influenza sull’intera Penisola italiana.

Una volta rientrato a Torino iniziarono per Cavour giorni di trepidazione a tratti angosciosa e nel contempo di febbrile attività. Avrebbe dovuto infatti preparare il Regno alla guerra, mobilitandone tutte le risorse senza dire nulla a nessuno e, contemporaneamente, incoraggiare le iniziative dei patrioti affiliati alla Società Nazionale negli altri Stati della Penisola e nello stesso tempo eventualmente frenarle per non allarmare l’alleato a provocare prematuri, spiacevoli incidenti. Infine, il Conte avrebbe dovuto inasprire i rapporti con l’Austria senza tuttavia provocarne l’intervento almeno fino a quando non fosse stato concluso il trattato con la Francia. L’alleanza fu infine siglata il 26 gennaio 1859, precedendo di pochi giorni le nozze fra la principessa Clotilde e Napoleone Gerolamo.
Intanto il 10 gennaio 1859, in occasione della riapertura del Parlamento subalpino, nel corso del discorso della corona il Re Vittorio Emanuele II pronunciò una frase destinata a infiammare gli animi dei patrioti «Noi non possiamo restare insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!». Tutto sembrava procedere verso la guerra quando, il 18 marzo 1859, la Russia avanzò la proposta di una conferenza per dirimere la questione italiana alla quale invitò Francia, Austria, Gran Bretagna e Prussia, ma non il Regno di Sardegna.

Per Cavour la notizia fu un’autentica doccia fredda: la convocazione di un congresso avrebbe significato la rovina di tutta la sua politica, togliendo ogni scopo all’alleanza con la Francia. Secondo la testimonianza del segretario dell’ambasciata francese a Torino, d’Aquin, disperato, il Primo Ministro sabaudo avrebbe persino meditato il suicidio. Tuttavia, quando tutto sembrava perduto, il 23 aprile giunse il tanto sospirato ultimatum austriaco, con cui il governo di Vienna intimava di disarmare l’esercito e smobilitare i volontari entro tre giorni dal ricevimento della sua lettera, minacciando in caso contrario la guerra. Pare che quando ricevette la notizia, Cavour, per la gioia, saltò sul letto e intonò a squarciagola un motivo d’opera stonando maledettamente. Tre giorni dopo, il 26, dopo che il Piemonte ebbe respinto l’ultimatum, l’Austria, così come aveva minacciato, dichiarò la guerra. La parola ora passava agli eserciti!
L’Armata Sarda, questo il nome ufficiale dell’esercito sabaudo, poteva contare allo scoppio delle ostilità su 65 mila uomini raggruppati in cinque divisioni. Durante il periodo fra la prima e la seconda guerra di indipendenza l’esercito piemontese, era stato oggetto di un profondo ammodernamento condotto sotto la regia del ministro della guerra, Generale Alfonso la Marmora. A seguito delle riforme la fanteria si arricchì di reparti di bersaglieri e cacciatori mentre la cavalleria divenne più leggera e mobile. Venne inoltre rafforzati i corpi dell’artiglieria e del genio.

In ogni caso le truppe piemontesi, almeno fino all’arrivo degli alleati francesi, avrebbero dovuto vedersela con la 2° Armata austriaca, la quale, suddivisa in cinque corpi d’armata, contava circa 110 mila uomini. L’esercito asburgico era rimasto sostanzialmente quello, estremamente affidabile, che aveva combattuto in Italia nel 1848-49. La novità più grossa era costituita dal fatto che ora Radetzky non c’era più: l’astuto Feldmaresciallo si era infatti spento a Milano l’anno precedente alla veneranda età di novantadue anni e al suo posto era stato nominato l’ungherese Ferencz Gyulai, un ufficiale decisamente privo della tempra e delle capacità di comando del suo illustre predecessore.

Pur godendo di una schiacciante superiorità numerica, nei primissimi giorni che seguirono l’apertura delle ostilità Gyulai rimase fermo sulle sue posizioni, probabilmente a causa del maltempo che infuriava in quei giorni di fine aprile. Finalmente il 30, dopo essere stato tempestato dai dispacci provenienti da Vienna nei quali era stato esortato dal governo a passare all’azione, il Feldmaresciallo prese l’iniziativa attraversando il Ticino e invadendo il Piemonte. Il 1° maggio gli austriaci occuparono Novara e il 2, una volta passato anche il fiume Sesia, entrarono a Vercelli. A questo punto, per scongiurare una possibile avanzata nemica su Torino, Cavour prese una decisione drastica ordinando l’apertura delle chiuse e allagando il Vercellese. Bloccato dagli allagamenti e informato del prossimo arrivo dei francesi, Gyulai venne così costretto a fermarsi.
Impossibilitato ad affrontare il nemico in campo aperto, l’esercito sabaudo, sotto la guida dello stesso sovrano Vittorio Emanuele II, si schierò a sud del Po, tra le fortezze di Alessandria e Casale Monferrato. Qui, protetti dallo sbarramento costituito dal grande fiume, i piemontesi rimasero fermi aspettando con trepidazione l’arrivo degli alleati francesi. Ormai in procinto di partire per la guerra, Napoleone III aveva ordinato la costituzione di un corpo di spedizione – significativamente denominato Armée d’Italie – composta da 110 mila uomini, 11 mila cavalli e 360 cannoni, suddivisi in sei corpi d’armata (cinque più la Guardia Imperiale).
Le truppe di Napoleone III giunsero in Piemonte attraversando a piedi il passo del Moncenisio fino a Susa oppure via mare imbarcandosi a Marsiglia e sbarcando a Genova. A quel punto i soldati francesi salirono a bordo dei treni che li trasportarono fino ad Alessandria. Quella del 1859 in effetti si segnalò come la prima campagna militare nel corso della quale le tradotte ferroviarie svolsero un ruolo decisivo nello spostamento degli eserciti impegnati nelle operazioni. Così già per la metà del maggio 1859 il congiungimento degli eserciti francese a sabaudo poteva dirsi concluso.

L’arrivo sul campo dell’esercito francese mutò gli equilibri di forze a favore degli alleati. Intanto però, mentre Vittorio Emanuele e Napoleone erano fermi per decidere il da farsi, Gyulai decise di effettuare una ricognizione in forze verso Voghera, nel tentativo di scoprire le intenzioni del nemico. Il 20 maggio le forze austriache vennero in contatto con un’avanguardia franco-piemontese nei pressi del paesino di Montebello (PV). Fu la prima battaglia della seconda guerra d’indipendenza e la vittoria arrise agli alleati.
A questo punto i franco-piemontesi diedero il via alla loro controffensiva, con l’obbiettivo di riconquistare il territorio novarese per farne la base del successivo attacco alla Lombardia. Il 30 maggio, gettati alcuni ponti sulla Sesia, i piemontesi e alcuni reparti francesi iniziarono a costituire una testa di ponte tra Novara e Mortara. La divisione sabauda del generale Enrico Cialdini attaccò gli austriaci attestati nel villaggio di Palestro ma il giorno successivo, il 31, Gyulai ordinò il contrattacco che dopo un primo fallimento costrinse i piemontesi a indietreggiare. A quel punto intervennero gli zuavi francesi che con un efficace contrattacco obbligarono il nemico a sloggiare le posizioni. Nel corso dell’azione si distinse per il suo coraggio lo stesso Re Vittorio Emanuele II, che diresse in prima persona alcuni assalti, incurante delle pallottole e che pertanto fu proclamato dagli zuavi loro caporale d’onore.

Negli stessi giorni, guidati da Garibaldi, nominato generale dell’esercito sabaudo, i Cacciatori delle Alpi erano passati in Lombardia attraversando il Ticino a Sesto Calende. Dopo aver difeso Varese da un attacco di superiori forze austriache guidate dal generale Urban, il 27 maggio i volontari sconfissero il nemico alla battaglia di San Fermo occupando Como.
Il successo di Palestro, intanto, aprì agli alleati la possibilità di attraversare il Ticino. Una volta passato il fiume nei pressi di Turbigo, i soldati francesi del maresciallo Mac Mahon e quelli piemontesi del generale Fanti avanzarono verso Magenta, presidiata dal 1° corpo austriaco. Gyulai, attestato tra Vigevano e Garlasco inviò allora verso Boffalora e Magenta il 2°, il 3° ed il 7° corpo e una divisione di cavalleria. Nello stesso tempo Napoleone III faceva passare oltre il Ticino reparti della Guardia imperiale oltre al 3° ed al 4° corpo che furono arrestati dagli austriaci a Boffalora. Mac Mahon, respinto il 1° corpo austriaco a Robecchetto attaccò Magenta penetrando nell’abitato dopo furiosi combattimenti seguito dai piemontesi di Fanti. Gyulai vistosi sconfitto preferì ritirarsi a oriente verso le fortezze del Quadrilatero rinunciando a difendere Milano nella quale Napoleone III e Vittorio Emanuele II fecero il loro ingresso trionfale l’8 giugno passando attraverso l’Arco della Pace tra applausi e bandiere tricolori.

Tuttavia, spentosi l’entusiasmo dei festeggiamenti iniziarono a palesarsi i primi malumori fra gli alleati. Per i francesi in particolare la campagna italiana si stava rivelando più sanguinosa e difficile del previsto. Non solo i piemontesi erano scesi in guerra con un esercito molto meno numeroso di quanto stabilito negli accordi (65 mila anziché 100 mila soldati) ma i lombardi, probabilmente memori di quanto avvenuto nel ’48, si erano ben guardati dall’insorgere, circostanza che toglieva ogni giustificazione all’intervento francese, ossia liberare delle popolazioni oppresse dal giogo straniero. Contemporaneamente Napoleone III riceveva preoccupanti dispacci da Parigi inviatigli dalla moglie Eugenia, la quale, già contraria all’intervento in Italia, mise in guardia suo marito contro un possibile intervento prussiano nella guerra in corso. È quindi probabile che durante l’avanzata verso il Veneto, Napoleone già pensasse ad un a qualche forma di compromesso con l’Austria.

I franco-piemontesi intanto superavano il fiume Chiese marciando senza ostacoli verso il Mincio, convinti che gli austriaci si fossero trincerati nelle fortezze del Quadrilatero. Invece l’esercito asburgico, ora sotto il diretto comando del suo giovane imperatore, andò ad attestarsi sulle alture ad ovest del Mincio, attorno al paese di Solferino. Il piano di Napoleone III prevedeva di muovere le proprie truppe con il favore delle tenebre – già alle 3 del mattino del 24 giugno il suo esercito era in marcia – per sorprendere quella che lui credeva essere soltanto l’avanguardia dell’esercito nemico. Era invece l’intera armata asburgica ad essere concentrata nella zona con il risultato che la battaglia scoppiò per caso, senza che nessuno dei due contendenti la volesse davvero. Lo scontro si sviluppò su un fronte di circa 20 km tra la bassa mantovana e il lago di Garda. Gli alleati franco-piemontesi schierarono quasi 114.600 soldati, 10.700 cavalli e 320 cannoni a cui gli austriaci contrapposero 120 mila soldati, 6.100 cavalli e 417 cannoni.

Lo scontro principale ebbe luogo al centro dello schieramento, a Solferino, dove 2 brigate austriache e 4 battaglioni di kaiserjäger avevano preso posizione tra le case del paese, tra le rovine del vecchio castello e persino nel cimitero. Per tutto l’arco della mattinata essi respinsero ben quattro assalti francesi fino a quando, a mezzogiorno, Napoleone III gettò nella mischia i suoi reparti migliori, quelli della Guardia Imperiale. A quel punto la situazione iniziò a mutare: alle 13:30 gli austriaci cominciarono a cedere e alle 17 Solferino venne definitivamente conquistata. Nelle stesse ore cadevano in mano francese le località di San Cassiano, Medole e Guidizzolo, situate a sud di Solferino.

Sull’ala sinistra erano invece schierati i piemontesi, i quali dovettero vedersela con l’8° corpo d’armata del generale asburgico Benedek, attestato tra il santuario di Madonna della Scoperta e il villaggio di San Martino. Esso si trovava su un’altura caratterizzata dalla presenza di scarpate e casolari che facilitarono la difesa della posizione da parte dei soldati imperiali. A partire dalle 7 del mattino fino al pomeriggio inoltrato le brigate sabaude si avvicendarono in ben sette attacchi venendo invariabilmente respinti dalla caparbia resistenza nemica. Nel tardo pomeriggio, verso le 17, Vittorio Emanuele II ordinò un assalto generale. A tal proposito pare che il Re in quella circostanza abbia incitato i suoi uomini dicendo loro in piemontese «Fioeui, ò i pioma San Martin ò i’aoti an fan fé San Martin a noi!» che significa «Ragazzi, o prendiamo San Martino, o i nostri avversari ci obbligheranno a “fare San Martino”», in riferimento all’usanza contadina di traslocare in occasione della festa del santo. Appoggiati da un fitto tiro d’artiglieria, i piemontesi arrivarono finalmente in cima al colle anche perché gli austriaci avevano già cominciato a sgomberarlo avendo ricevuto la notizia della sconfitta di Solferino.

Le battaglie gemelle di Solferino e San Martino rappresentarono lo scontro più sanguinoso va cui l’Europa avesse assistito dai tempi della battaglia di Waterloo del 1815. I francesi lamentarono 1.622 morti e 8.530 feriti, oltre a 1.518 fra dispersi e prigionieri; i piemontesi contarono 869 morti, 3.982 feriti e 774 dispersi o prigionieri. In totale le perdite degli alleati ammontarono a 2.431 morti e 12.152 feriti. Dal canto loro gli austriaci ebbero 2.292 morti e 10.807 feriti, oltre a 8.638 dispersi o prigionieri.
Pur avendo indiscutibilmente riportato un successo sul piano militare, l’11 luglio Napoleone III firmò a Villafranca un armistizio con Francesco Giuseppe. In base all’accordo l’Austria rinunciava alla Lombardia consegnandola alla Francia (che l’avrebbe poi “girata” ai Savoia) conservando però il possesso del Veneto e delle fortezze lombarde di Mantova e Peschiera. Cavour, deluso e amareggiato dalla notizia dell’armistizio, si precipitò a Monzambano, dov’era installato il quartier generale di Vittorio Emanuele II. I due ebbero in quell’occasione un colloquio a dir poco tempestoso nel corso del quale Cavour tentò in ogni modo di persuadere il suo Re a non firmare l’accordo, scontrandosi però con la ferma intenzione del sovrano di accettare le condizioni di pace. Cavour allora presentò le proprie dimissioni, subito accettate da Vittorio Emanuele, ben contento di sbarazzarsi del suo ingombrante Primo Ministro. Vi sono testimonianze che riferiscono come durante l’incontro Cavour, fuori di sé dalla rabbia dopo aver preso a calci alcune sedie nella stanza avrebbe addirittura apostrofato il Re come “traditore” ricordandogli che “se i ministri devono sapere quando è ora di dimettersi, i re devono sapere quando è il momento di abdicare”.

Ma perché Napoleone III operò quel clamoroso voltafaccia? I motivi erano vari. Da una parte egli temeva come si è detto un possibile intervento prussiano nel conflitto. Tuttavia l’Imperatore non poteva non tenere conto anche delle reazioni dell’opinione pubblica d’Oltralpe, impressionata dalle pesanti perdite umane della campagna italiana. Ma soprattutto a condizionare le scelte del sovrano francese c’era la situazione venutasi a creare nell’Italia centro-settentrionale, che di fatto vanificava gli accordi di Plombieres. A partire dalla fine di aprile, infatti, sia in Toscana, che a Parma, a Modena e nella Romagna pontificia erano esplosi una serie di moti patriottici che avevano costretto alla fuga i governanti locali. A seguito delle insurrezioni, organizzate e coordinate da moderati affiliati alla Società Nazionale legata a Cavour e al Regno sabaudo, si erano costituiti governi provvisori che avevano richiesto a gran voce l’annessione al Piemonte. L’impasse venne superato nei mesi successivi, dopo la pace di Zurigo del 10 novembre che ratificò il passaggio della Lombardia ai Savoia. Cavour, tornato al governo nel gennaio 1860, poté allora negoziare con Napoleone III un accordo in cui l’imperatore, in cambio dell’assenso all’annessione dell’Emilia Romagna e della Toscana, otteneva la cessione di Nizza e Savoia, a cui il Piemonte non era più obbligato dopo Villafranca.

Ma le battaglie di Solferino e San Martino non furono decisive soltanto per le sorti del processo di unificazione nazionale italiano. Esse ci hanno lasciato un altro, importante lascito. Tutto nacque dall’iniziativa di un mercante ginevrino, Henri Dunant, presente quel giorno di giugno sul campo a Solferino. In quel tragico frangente egli poté toccare con mano la penosa inadeguatezza dei servizi sanitari degli eserciti coinvolti nello scontro. Fino a quel momento, infatti, era normale che un soldato che fosse rimasto ferito in battaglia rimanesse là dove era stato colpito anche per giorni soffrendo per le ferite, la sete e la fame. Poi, soltanto qualora il suo esercito fosse stato vittorioso, avrebbe potuto essere trasportato in un ospedale da campo dove avrebbe ricevuto le prime, sommarie, cure. Vivamente impressionato dalle sofferenze delle migliaia di feriti e moribondi che giacevano dovunque abbandonati a loro stessi, una volta rientrato in patria denunciò le atrocità a cui aveva assistito nel libro intitolato “Souvenir de Solférino” in cui si chiedeva la creazione di un corpo civile volontario di soccorso, che si prendesse cura dei feriti in battaglia. Il progetto di Dunant divenne realtà nel 1863 con la creazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa. L’anno successivo fu adottata la prima convenzione di Ginevra per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra, a cui aderirono dodici stati (fra cui l’Italia). Per la sua meritoria attività Henri Dunant divenne il primo insignito del Nobel per la Pace, nel 1901.
Bibliografia:
- V. Giglio, Il Risorgimento nelle sue fasi di guerra – Vol. I
- I. Montanelli, L’Italia del Risorgimento 1831-1861
- P. Pieri, Storia militare del Risorgimento
- M. Scardigli, Le grandi battaglia del Risorgimento