La Vergine delle Rocce, la storia oltre la fiction

La grande fama per gli artisti, sia essa nazionale o internazionale, legata a singole opere o all’intero corpus, può essere molto ambigua nelle sue conseguenze. Essa infatti, se dà rilevanza e peso al ruolo di quel pittore e scultore nello sviluppo delle arti, la sua influenza sui contemporanei e sui posteri, la sua capacità di accogliere stimoli e idee nuove, porta anche a costruire intorno ad essi un alone di miti, leggende e fiction. Se spesso esso testimonia l’interesse e la volontà di epoche diverse nel conoscerne la vita e l’operato, altre volte queste pratiche seguono invece quasi il desiderio di sfruttare il nome di tali artisti, mescolando fatti inventati, scene sensazionalistiche e travisamenti. Un destino che coinvolge personaggi diversi, da quelli meno noti di cui le fonti sono scarne, ma soprattutto i più titolati, la cui fortuna garantisce una maggior risonanza e apparentemente un maggior interesse del pubblico.

Quest’ultima attività di conoscenza e valorizzazione dell’arte nasce, si dice, perché ciò rende le vicende più interessanti, più alla moda e meno complesse per un pubblico più generalista. Eppure tale convinzione stona con la realtà che traspare dalle vicende e dai documenti. Le notizie che risultano dalle cronache antiche, dalle note di pagamento, dalle ricostruzioni storiche e soprattutto dalle tecniche e dai caratteri delle opere stesse infatti disegnano quadri compositi e divertenti che spesso superano in fantasia le abilità di scrittura degli sceneggiatori. Scenari che travalicano l’idea dell’opera capitale slegata dal mondo, inserendola invece in un ambiente più complesso e articolato, fatto di rapporti, persone, situazioni, influssi, citazioni.

Dipinto di Ingres rappresentante la morte di Leonardo ad Amboise.

Tra i vari casi a riguardo un grande rilievo hanno Leonardo, Michelangelo e Raffaello, i giganti del pieno Rinascimento, riconosciuti sin da Vasari come coloro che furono capaci di elaborare la Maniera moderna, superando gli sviluppi antichistici del Quattrocento e fungendo da modello insuperabile per il Manierismo successivo. La loro importanza ha subito però anche un’esasperazione drammatica, giocata sulla brevità della vita del Santi, sul carattere e sulle tensioni spirituali del Buonarroti o sul carattere poliedrico artistico, tecnico e scientifico del Da Vinci, che lo rende un superuomo autore di qualsivoglia innovazione, oltre che il prototipo del genio, essere superiore privo di contatti e di una crescita.

Tra le opere leonardesche che riescono per la ricchezza delle sue vicende a dimostrare quanto molto spesso la realtà superi di molto la fantasia vi sono le due versioni della Vergine delle Rocce, conservate oggi una al Louvre di Parigi e una a Londra presso la National Gallery. Queste due opere, legate ai soggiorni milanesi dell’artista toscano, celano infatti una vicenda complessa, legata sia alla loro realizzazione, alla loro datazione e anche al loro transito per l’Europa. Una condizione singolare, dettata anche dal fatto di essere due versioni di una stessa composizione. Una vicenda intricata, specie per la ridotta presenza di documenti.

Dessin architectural représentant l'occupation au sol de l'église.
Pianta della chiesa di San Francesco Grande. La prima cappella dal basso a destra rappresenta quella dell’Immacolata Concezione

Per comprendere questo dedalo ancora oggi non chiarissimo si può partire proprio dal primo documento in merito, datato tra il 1483 e il 1484, nel quale Leonardo firma un contratto di committenza con la confraternita dell’Immacolata Concezione, una congregazione di laici di estrazione diversa che avevano la propria cappella nella navata destra della chiesa di San Francesco Grande, sede milanese dell’ordine dei frati minori e demolita in età napoleonica, cui la confraternita era legata. Tale connessione risuona anche nella titolatura della comunità, che fa riferimento all’Immacolata Concezione. Questa condizione della Vergine, che vedeva Maria nata senza peccato poiché già destinata ad essere la madre di Cristo, è diventata dogma però solo a metà Ottocento, voluto da papa Pio IX. Questa però esisteva già nelle comunità e nella dottrina cristiana, discussa dai Padri della Chiesa come Agostino. Il tema era però estremamente controverso tanto da portare alcune frange, guidate dai domenicani, a riconoscersi in posizioni macoliste, ossia che riconoscevano la libertà dal peccato della Vergine ottenuta però attraverso il figlio prima dell’Annunciazione, contrapposti invece agli immacolisti, guidati invece soprattutto dai francescani.

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Pala scolpita e dipinta di Giovanni Angelo del Maino nel Santuario mariano di Morbegno, in Valtellina. Un modello simile alla macchina vinciana.

Proprio a questo importante tema mariano centrale per i Minori fa riferimento la committenza a Leonardo, firmata il 25 aprile 1483 insieme a due pittori lombardi coetanei dell’artista, ossia i fratelli De Predis, Evangelista e Ambrogio. Il documento presenta quindi la volontà dei committenti, influenzata dalla cultura artistica e figurativa lombarda. L’opera sarebbe dovuta essere infatti una grande macchina d’altare scultorea e pittorica. Nucleo di essa doveva essere una rappresentazione della Vergine entro un manto azzurro e oro, attorniata da angeli e sovrastata da un Dio Padre benedicente e circondato da angeli, mentre ai lati si sarebbero trovati due profeti e quattro angeli musicanti. In linea con la tradizione lombarda però tutti questi elementi non sarebbero stati dipinti su di una sola pala unitaria, ma in più scompartimenti uniti da una cornice architettonica, completati ai lati e nella predella, la fascia più in basso, con scene della vita della Madonna, probabilmente scolpite in legno. Un grande progetto che sarebbe stato coordinato e in parte già realizzato nella struttura e nelle parti plastiche da un altro grande artista, poco considerato, ossia Giacomo del Maino, scultore ligneo pavese, fratello del più famoso Giovanni Angelo, autori di grandi macchine d’altare a Pavia, al Sacro Monte di Varese, o a Como con l’altare di Sant’Abbondio. La presenza nel contratto dei fratelli De Predis, di tradizione lombarda foppesca e bergognonesca e meno aggiornati del maestro toscano, si deve probabilmente a motivi diversi. Se da una parte essi erano coinvolti come pittori attivi per il progetto ed erano legati strettamente a Leonardo, che visse i primi anni milanesi nella loro casa in Porta Ticinese, dall’altra la loro presenza era forse dovuta alla volontà dei committenti e della comunità artistica cittadina di avere delle figure di tutori capaci di fare da garanti ad un artista poco conosciuto, venuto dall’estero e con uno stile molto contrastante con quello meneghino.

Modello ricostruttivo elaborato della macchina d’altare leonardesca. Al centro si trovava la pala leonardesca, accompagnata a sinistra dall’angelo di Francesco Napoletano, a destra da quello di Ambrogio de Predis. Nei numeri 3/4/5 scene mariane dipinte e scolpite. Il tutto coronato al n. 7 da un Dio padre benedicente

Partendo da questo documento la critica ha quindi identificato l’opera in questione con la versione parigina, datata agli anni subito successivi alla firma. Singolare è tuttavia che Leonardo si discosti dal testo della committenza, introducendo qui una serie d’innovazioni da lui imparate a Firenze. Innanzitutto sembra abbandonare l’immagine della Vergine adorante del testo scegliendo di rappresentare un altro episodio, desunto dalla Vita di Giovanni secondo Serapione, un testo apocrifo, legato anche nel Protovangelo di Giacomo e a testi francescani trecenteschi, che racconta l’incontro, durante la fuga in Egitto della Vergine, di Gesù e dell’ Arcangelo Gabriele, in una zona montuosa vicino al fiume Giordano, con Giovanni Battista, che si trovava qui in meditazione. Questa scelta, sicuramente non dettata dal solo artista, si legherebbe alla committenza per tanti motivi, tra i quali diversi riferimenti mariani e immacolistici nelle piante in primo piano e nell’immagine stessa della grotta, simbolo naturale del grembo materno della Vergine, entro cui scorre un fiume, l’acqua viva del messaggio cristologico. La presenza particolare del Battista e del gesto dell’angelo, spesso considerato misterioso e che mette proprio Giovanni al centro della scena, si dovrebbero invece al fatto che questi fosse copatrono della confraternita e quindi legalmente raffigurato nella cappella.

Versione parigina della Vergine delle Rocce, datata agli inizi degli anni’80 del XV secolo. Venne trasportata da tavola a tela alla metà del XIX secolo

Alla mano di Leonardo si devono invece le innovazioni stilistiche, capaci, attraverso le due versioni, di coinvolgere un numero di artisti locali maggiori nel rinnovamento dell’arte lombarda, finora legata a Vincenzo Foppa e ai suoi modelli, portando il leonardismo ad un panorama più ampio e variegato, esteso poi, alla fine del secolo, dal cantiere capitale del Cenacolo. Il pittore infatti decise di inserire tutti i personaggi in una pala unitaria, abbandonando parzialmente l’idea di un trittico o polittico di tradizione medioevale, esportando a Milano l’innovazione di derivazione toscane e romana, e aprendo la strada alle pale d’altare di tutto il Cinquecento. In linea con questa prospettiva inserì i suoi personaggi in un paesaggio naturale, perfettamente prospettico, abbandonando un altro caposaldo della pittura lombarda del suo tempo, ossia la costruzione di scatole prospettiche architettoniche, un elemento che rimarrà sullo sfondo fino agli inizi del secolo successivo. A queste trasformazioni fanno seguito riferimenti più strettamente leonardesche. Da un lato infatti egli decise di aprire sullo sfondo alcuni anfratti tra le rocce, permettendo la visione di un paesaggio montuoso e selvaggio. La resa di questi monti segue già qui però la teoria della prospettiva aerea, che riconosceva il fatto che gli oggetti più lontani, in prospettiva, non fossero visibili in modo nitido all’occhio umano, ma che risultassero sfumati e colorati di tinte azzurrognole per la presenza del pulviscolo atmosferico. Tale resa, rafforzata da uno studio naturalistico delle montagne e delle rocce, fa seguito una medesima cura nei particolari e nella resa luminosa della vegetazione, specie in primo piano. Le piante infatti, segnate da un significato simbolico, seguono sia le nozioni apprese da Leonardo a Firenze, soprattutto attraverso le opere fiamminghe come il polittico Portinari, ma anche il naturale interesse scientifico del da Vinci per l’osservazione e la descrizione dei fenomeni e degli elementi del paesaggio.

La vicenda della pala, da questo punto di vista conclusa, si riapre in rapporto con la seconda versione, oggi a Londra. Essa infatti riprende il tema e la composizione, eliminando però diversi elementi, come il dito dell’angelo, così come sviluppando stili e tecniche diverse dalla prima. La presenza di quest’opera, così come di due angeli musicanti ad essa collegati, attribuiti alla mano di Ambrogio de Predis e di Francesco Napoletano, giovane artista leonardesco del Meridione, giunto a Milano con Isabella d’Aragona, è stata molto discussa. L’ipotesi più accreditata fu per molto tempo quella di una possibile sostituzione della prima versione tra la fine del XV secolo e i primi anni del Cinquecento da parte dei committenti. Tale decisione non sarebbe chiarissima e si legherebbe forse alla non aderenza della prima pala alle richieste dei committenti, dato il suo taglio inusuale, oppure ad una sua non liceità di tipo dottrinale e religioso, segnalato dalla postura anomala della mano della Vergine, specie della sinistra, così come del dito dell’angelo, che darebbe in questo contesto una centralità eccessiva a Giovanni, che qui dovrebbe essere un comprimario.

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Versione londinese della Vergine delle Rocce. Essa, rispetto alla versione del Louvre, si trova ancora sulla tavola originale

Le vicende della seconda versione divengono complesse anche per la sua datazione. Se infatti la prima sembra legata al contratto iniziale, la seconda manifesta invece una genesi più lunga, segnata da diversi documenti giudiziari che interessano Leonardo, Ambrogio de Predis e la confraternita. L’opera infatti sarebbe stata realizzata prima del 1494 e consegnata. La confraternita, vedendo l’opera incompiuta, avrebbero pagato ai due artisti solo una parte del compenso pattuito, a seguito del quale Leonardo avrebbe scritto una supplica a Ludovico il Moro affinchè si ponesse come intermediario nella causa, anche con la possibilità che un artista potesse dare un parere, come ad esempio Giovanni Antonio Amadeo, scultore lombardo attivo alla Certosa di Pavia. La questione non fu risolta, con la pala rimasta ai committenti o presso lo studio di Leonardo. La controversia venne conclusa anni dopo, durante il secondo soggiorno milanese di Leonardo. Tra il 1506 e il 1508 Leonardo infatti richiese di nuovo l’esborso della somma pattuita, rivolgendosi ora al nuovo signore di Milano, ossia il re di Francia Luigi XII. Dopo due anni di lavoro cui Leonardo sembra adoperarsi, la pala è infine consegnata, con un accordo che riconosceva l’opera come ancora incompiuta, ma che rimborsava in parte l’artista, permettendogli anche di trarre dalla pala disegni e schizzi della composizione, forse per ulteriori commesse dell’aristocrazia milanese o francese.

Tale sviluppo della vicenda compositiva, ancora oggi riconosciuto da alcuni studiosi, viene però contestata da una nuova proposta, dettata soprattutto da due fenomeni connessi, ossia lo stile delle due pale e soprattutto la diffusione della composizione tra le maestranze cittadine e la conseguente apertura di credito e d’interesse che quest’ambiente cominciò ad avere soprattutto dagli anni ’90 in avanti. Un primo punto si concentra infatti sul modo di dipingere di Leonardo, che se nella prima pala è compatibile con i primi anni milanesi, ancora influenzato dalle figure sinuose di Verrocchio e dal mondo fiammingo fiorentino, non lo è per la seconda versione, che si troverebbe a cavallo tra gli anni del Cenacolo e il secondo soggiorno, quando l’artista avrebbe già lo stile del Bacco e della Gioconda. Gli incarnati e la resa dei panneggi, come quello dorato sul ventre della Vergine, rilevano in particolare l’uso, sia nei disegni preparatori sia nell’opera finita, di una tecnica particolare, molto usata da Leonardo. Essa è la pratica a punta metallica, che consisteva nel tracciare il disegno su fogli preparati con un misto di polvere di calce e polveri naturali colorate, utilizzando pennini con la punta in oro, argento o piombo, lasciando quindi per attrito parte del metallo sul foglio, come una chiave su un muro.

Disegno leonardesco a punta metallica di una figura femminile di tre quarti, probabilmente uno degli studi per l’angelo della pala parigina.

Questo sistema di disegno, centrale nella pratica operativa di Leonardo, era già utilizzata tra gli artisti tardogotici e nella bottega del Verrocchio, dove però era sussidiaria ad altre metodologia, come parti a tempera, carboncino, sanguigna o biacca(ossido di zinco). Leonardo tuttavia, al suo arrivo a Milano, riforma questa tecnica rendendola indipendente, usando la biacca solo occasionalmente per rendere i punti di massima luminosità. L’artista in particolare predilige tale tecnica proprio perché essa permette uno studio attento proprio della luce e dei chiaroscuri, modulandone il tipo di tratti, la sua frequenza e anche il tipo di punta, da quelle più forti del piombo a quelle più delicate della punta dorata, creando un effetto di luminosità fredda, quasi crepuscolare o lunare. La punta metallica inoltre, proprio attraverso questi effetti, porta a sottolineare la tridimensionalità dei personaggi, rendendole figure realmente alla vista scolpite. Un modus operandi che però Leonardo non utilizzò per tutta la sua vita, venendo dal lui abbandonato con gli inizi dell’ultimo decennio del ‘400, periodo nel quale essa viene trasmessa agli allievi. In linea con questi sviluppi di studio si inserisce qui anche una maggiore conoscenza anatomica dell’essere umano, dettata dagli studi che, nel corso degli anni ’80 aveva approfondito proprio a Milano.

A questo concetto tecnico fa seguito anche la fortuna critica della composizione, ossia quanto il soggetto si fosse diffuso a Milano e soprattutto quanto esso fosse stato la base per un allargamento della tecnica e delle idee di Leonardo nell’arte lombarda. Ciò che si osserva è infatti che solo a partire dai primi anni ’90 la loro diffusione e il numero di copie aumenti, portando a coinvolgere più artisti di quelli della cerchia più ristretta. Segno questo che fu la seconda versione ha svolgere questo ruolo, mentre la prima ebbe una posizione più defilata.

Questi presupposti hanno portato ad una seconda ipotesi, suffragata da diversi riferimenti documentari. Essa nasce dal presupposto che le due pale d’altare fossero state ideate per due luoghi diversi, le cui vicende in parte collegate si sono poi mescolate attraverso i loro percorsi collezionistici. La prima ad essere realizzata sarebbe quindi quella parigina. Essa sarebbe stata realizzata tra il 1483 e il 1484 non per la confraternita ma per Ludovico il Moro, da poco diventato reggente del ducato di Milano. Egli avrebbe commissionato quest’opera a Leonardo proprio subito dopo il suo arrivo a corte nel 1482 per mettere alla prova le sue capacità dell’artista, di cui aveva letto nella sua famosa lettera di presentazione. Tale approccio sarebbe andato a vantaggio del pittore toscano, che avrebbe così dato buone credenziali a corte. Luogo di collocazione sarebbe stata la chiesa di San Gottardo in Corte, ancora esistente alle spalle del Palazzo Reale di Milano.

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Campanile e presbiterio della chiesa e cappella palatiana di San Gottardo in Corte, inglobata nell’odierno Palazzo Reale di Milano, a fianco del Duomo

Questa chiesa era molto antica, costruita all’epoca di Azzone Visconti all’inizio del ‘300 e decorata dagli artisti della sua corte, dal toscano Giovanni di Balduccio, allievo di Giovanni Pisano, all’architetto Francesco Pecorari, famoso per il suo campanile, al mondo giottesco, o al maestro stesso, autore di una Crocefissione e un ciclo mariano all’interno. Essa aveva avuto sin dall’inizio un ruolo centrale per i duchi di Milano, svolgendo il ruolo di cappella palatina del Broletto Vecchio, sede originaria del Comune e trasformato dai Visconti in palazzo ducale. Tale sistemazione della Vergine delle Rocce denota quindi una vicinanza all’ambiente di corte, elemento interessante anche per la storia. Tale condizione infatti, che non permetteva una libera “consultazione” dell’opera al pubblico portò solo alcuni pittori, come Bernardino de Conti e Marco d’Oggiono, a trarne copie e ispirazione. Autori, ritrattista e pittore di corte il primo e miniaturista e allievo di Leonardo il secondo, che avrebbero facilmente avuto accesso all’opera. La tesi sarebbe quindi suffragata anche dal soggetto stesso. Centrali sarebbero quindi sia il tema mariano, cui la chiesa era in parte dedicata, sia la centralità data al Battista. Questa, in particolare, si dovrebbe alla seconda dedicazione della chiesa come San Giovanni delle Fonti. Questo titolo, con cui era definito il battistero milanese, demolito dal cantiere del duomo, sarebbe passato con Azzone Visconti anche a San Gottardo, che lo ricorda con la forma del suo presbiterio.

A partire da questo presupposto il contratto e la pala richiesta dalla confraternita viaggerebbero su un binario diverso. Commissionata all’inizio degli anni ’80, l’opera per San Francesco, ossia la seconda versione, sarebbe arrivata sull’altare nei primi anni ’90. Ad avvalorare quest’ipotesi si susseguono una serie d’indizi. Da un lato riferimenti stilistici, che la collocherebbero entro quelle date, quando Leonardo, impratichitosi con la punta metallica, avrebbe abbandonato tali studi, passando a sperimentazioni a pastello e trasferendo il suo sapere ai suoi allievi, in particolare al Boltraffio. Un modus operandi inoltre che avrebbe dialogato perfettamente con l’apparato scultoreo del polittico. Unito a questo si troverebbero i due angeli, non di mano leonardesca, ma che dimostrano, pur venendo da autori con una formazione differente, un’assonanza stilistica proprio con la seconda versione.

Scomparto centrale con Vergine adorante il Bambino del Polittico francescano di Cantù di Bernardo Zenale, oggi al Museo Getty di Los Angeles. Essa riprende, in forme meno mosse, il primo abbozzo per la pala vinciana di San Francesco Grande

A suffragarlo infine è intervenuta la tecnologia, che con una radiografia ha dimostrato l’esistenza di un altro soggetto solo abbozzato, noto da schizzi leonardeschi, che ritrae la vergine orante inginocchiata davanti al Bambino disteso per terra attorniata da angeli. Un tema molto noto in ambito fiorentino, che il maestro di Vinci modella in forme che ricordano un’altra sua opera, ossia il San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana. Tema che doveva aver diffuso in Lombardia, come dimostra una parte di un polittico con lo stesso soggetto di Bernardo Zenale, pittore lombardo preleonardesco, originariamente dai Francescani di Cantù, in provincia di Como.

Cosa spinse l’artista a modificare il soggetto per quelli dell’Immacolata Concezione? Interessante per scoprire l’arcano è la prima guida turistica di Milano, scritta da Carlo Torre nel 1660. In essa l’autore ricorda come reggenti della chiesa di San Gottardo fossero stati fino a Ludovico il Moro i francescani. Questi sarebbero stati però cacciati dallo Sforza intorno al 1485, si dice per problemi di sicurezza. Tale decisione particolare del duca potrebbe avere motivazioni diverse, da quelle effettivamente di sicurezza legate al suo status di quasi usurpatore al legame forte che si era creato tra i Minori e il fratello, Galeazzo Maria, che il Moro voleva in qualche modo oscurare, fino al nuovo rapporto che in quegli anni Ludovico intesseva con l’altro ordine mendicante, i Domenicani, per la cui sede, Santa Maria delle Grazie, chiamò Bramante e lo stesso Leonardo e presso cui voleva farsi seppellire. I Francescani quindi avrebbero tolto la pala dalla chiesa trasferendola nella propria, a San Francesco. Quest’ipotesi è però poco credibile, facendo pensare invece che, nell’impossibilità, i confratelli e i frati avessero fatto modificare a Leonardo la seconda versione, ancora in abbozzo, affinché ricalcasse e riproponesse la prima pala cui erano così legati. Le controversie con la confraternita degli anni novanta e poi quelle del primo decennio del secolo successivo sarebbero invece questioni di denaro, legate al fatto che la resa non finita tipica dell’arte di Leonardo applicata in alcune parti dell’opera, come nell’angelo, era registrata e quindi non pagata dai committenti come effettivamente non finita.

Angelo suonatore di liuto, nella nicchia a destra della pala, di Ambrogio de Predis

Una vicenda così complicata non poteva finire in modo altrettanto intricato. La vicenda più semplice è qui quella della seconda versione. Essa sarebbe rimasta nella cappella modellata per lei per circa due secoli, superando gli ammodernamenti controriformistici di San Carlo e venendo poi spostata, probabilmente smontata dalla sua macchina d’altare, prima nel presbiterio e poi in una delle sacrestie. Qui sarebbe stata vista e acquistata dal pittore e soprattutto mercante d’arte scozzese Gavin Hamilton, che l’avrebbe venduto ad un collezionista privato inglese. Sarebbe poi passata ai conti di Suffolk e finalmente nel 1880 alla National Gallery of Art di Londra.

Quanto alla prima versione il percorso sembra più nebuloso. Il solo punto fermo a riguardo è un appunto di Cassiano del Pozzo, uomo di cultura legato a Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, che la vide tra le collezioni reali, poi confluite nel Louvre, del castello di Fontainebleau nel 1625. Se le poche copie dimostrano un ristretto circolo dell’opera, è possibile che ciò registri un allontanamento precoce dell’opera da Milano. Alcuni hanno proposto la sua donazione a Massimiliano d’Asburgo come parte della dote data a Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico, per le sue nozze nel 1494, e da qui, sempre per matrimonio, in Francia.

Deposizione dipinta da Andrea Solario nel 1509 per il cardinale Georges d’Amboise in Francia. La figura di Giovanni, che regge il braccio di Cristo, richiama le fattezze, assenti nel disegno preparatorio, dell’angelo della versione del Louvre.

Interessanti a riguardo sono però alcune lettere e un dipinto. L’opera sembra celarsi infatti in un carteggio tra la Marchesa di Mantova Isabella d’Este e Jacopo d’Atri, uno dei suoi agenti addetti a cercare opere d’arte per l’Europa. In esso si fa riferimento ad un’opera, non nominata perché molto nota, che la regina di Francia Anna di Bretagna aveva richiesto di mandarle da Milano, dietro il quale si celerebbe la Vergine. A sostegno di questo documento, datato al 1509, si trova una Deposizione di Andrea Solario, pittore milanese formatosi con Leonardo e poi a Venezia e realizzata in Francia per George D’Amboise, arcivescovo di Rouen e primo ministro di Francia. Egli infatti, nello stesso anno, modifica la sua composizione ruotando la figura del San Giovanni sulla destra verso lo spettatore, riprendendo la postura dell’angelo nella pala delle Rocce. Segno irrituale che testimonia probabilmente che ebbe modo di vederla dal vivo nel suo soggiorno oltrealpino.

Una vicenda complicata, fatta di pochi punti fermi e di molti dubbi e strade interpretative. Una vicenda però dove si mostra in modo chiaro come, anche senza romanzare troppo e senza infarcire le vite degli artisti di eventi inverosimili e sensazionalistici, la storia stessa sia piena di colpi di scena, eventi ambigui ed episodi quotidiani che hanno la forza dell’avventura e del romanzo.

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