VITA E MORTE IN ESILIO DI DANTE ALIGHIERI
«Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»
Divina Commedia, Paradiso, Canto XVII vv. 58-60
È la notte tra il 13 e il 14 settembre dell’anno del Signore 1321, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta. Qui, lungo le sponde paludose dell’Adriatico, si stanno consumando le ultime ore dell’esiliato fiorentino Durante di Alighiero degli Alighieri, a noi noto più semplicemente come Dante Alighieri. Assistito dalla figlia, suor Beatrice, il Sommo Poeta si prepara a rendere l’anima a Dio, vinto da una malattia, molto probabilmente la malaria, contratta di ritorno dalla missione diplomatica condotta per conto di Guido da Polenta a Venezia, nel corso di un viaggio pieno di disagi tra paludi malsane sotto il soffocante sole di agosto.

La fibra di Dante, già provata dagli anni dell’esilio, non resistette dunque all’assalto del male e il Poeta giunse a Ravenna divorato dalla febbre. La notizia della sua malattia si diffuse rapidamente in città, suscitando sgomento e apprensione all’interno della corte di Guido da Polenta. È probabile che lo stesso Signore di Ravenna sia accorso al capezzale dell’illustre ospite.
Dante tuttavia era ormai alla fine. Così come per gran parte dei dettagli della sua vita, anche riguardo alla sua morte disponiamo di resoconti contraddittori. Secondo il Boccaccio egli spirò nel giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, vale a dire il 14 di settembre. Tuttavia altri letterati, come il poeta Giovanni del Virgilio o il notaio Meneghino Mezzani, riportarono nei loro epitaffi che Dante morì alle idi di settembre, ossia il 13 del mese. Chi ha ragione? Come sempre la verità sta nel mezzo. Considerando che allora le feste cristiane, in continuità con la tradizione ebraica, iniziavano al tramonto della vigilia, ecco che allora possiamo concludere con una certa sicurezza che il Sommo Poeta si sia spento nelle prime ore della notte tra il 13 e il 14 settembre di settecento anni fa.

Terminava così l’esistenza terrena di uno dei più grandi italiani di tutti i tempi. Dante morì al’età di cinquantasei anni, dei quali gli ultimi diciannove trascorsi in esilio lontano dall’amata Firenze, quelle patria che, dopo averlo bandito non lo riaccolse nemmeno da morto: Dante infatti venne sepolto con tutti gli onori a Ravenna, città che tuttora, a sette secoli dalla sua scomparsa, si gloria di custodirne le spoglie.
Ravenna dunque rappresentò per Dante l’ultima tappa di una vita segnata dalla dimensione dell’esilio. Beninteso: essere cacciato improvvisamente dalla propria città non era una circostanza inattesa per un uomo politico italiano tra XIII e XIV secolo. Nei comuni medievali, infatti, la politica era un gioco senza esclusione di colpi e gli avversari non erano visti come una legittima controparte con cui confrontarsi ma piuttosto come dei nemici da annientare.
A Firenze, dove ormai da decenni i ghibellini erano stati sconfitti ed emarginati dalla vita pubblica, i guelfi si erano a loro volta divisi in due fazioni, i “Bianchi” e i “Neri”. I primi erano favorevoli alla signoria ed aperti alle forze popolari perseguendo nello stesso tempo una politica di maggior autonomia nei confronti del Papa, di cui rifiutavano l’ingerenza nel governo cittadino.

I secondi rappresentavano soprattutto gli interessi delle famiglie più ricche di Firenze, i cosiddetti “magnates”, ed erano strettamente legati al Papa da interessi economici, incoraggiando nel contempo l’espansione dell’autorità pontificia in tutta la Toscana. Più che di partiti nel senso moderno del termine si trattava di consorterie che riunivano i grandi clan famigliari sulla base delle dinamiche economiche e sociali che caratterizzavano la società fiorentina dell’epoca.
Dante, come molti forse ricorderanno dai tempi della scuola, militava tra i guelfi bianchi, nonostante rapporti famigliari (sua moglie, Gemma Donati, era cugina di Corso Donati, detto il Gran Barone) lo legassero alla fazione magnatizia dei Neri. Questi ultimi, con l’aiuto del fratello del Re di Francia Carlo di Valois, giunto a Firenze alla fine del 1301 alla testa di 1.200 cavalieri, e di Papa Bonifacio VIII, nei primi mesi del 1302 attuarono un colpo di stato scatenando una vera e propria caccia all’uomo fatta di arresti, condanne a morte e alla confisca dei beni. Il 27 gennaio venne emessa nei confronti di Dante una prima sentenza in cui lo si condannava a due anni di confino e al pagamento di una multa esorbitante pari a 5 mila fiorini. L’accusa era quella, falsa e infamante, di baratteria. In altre parole i suoi avversari lo accusavano di avere accettato bustarelle nel corso del suo mandato come priore tra il giugno e l’agosto del 1300.

Dante, che in quei giorni si trovava a Roma, probabilmente in qualità di ambasciatore presso la corte pontificia, fu raggiunto dalle notizie relative al golpe e alla condanna emessa contro di lui sulla via del ritorno, nei pressi di Siena. A quel punto, temendo per la propria incolumità valutò saggiamente che non fosse il caso di rientrare a Firenze.La sua assenza venne considerata dai suoi nemici come un’ammissione di colpevolezza, tanto che il 10 marzo 1302 venne trascritta sul Libro del Chiodo (tuttora conservato all’Archivio di Stato di Firenze e così chiamato dal chiodo che attraversava la rilegatura) la condanna, in contumacia, all’esilio perpetuo o al rogo, qualora avesse tentato di rimettere piede in territorio fiorentino. I primi mesi successivi alla condanna Dante li trascorse con ogni probabilità in territorio senese, non lontano dal confine con la Repubblica di Firenze, cercando forse di carpire notizie a proposito del destino toccato alla famiglia, alla casa saccheggiata, al patrimonio confiscato. Se ebbe qualche speranza di un possibile mutamento della situazione, questa venne dissipata dai resoconti dei mercanti e dei viaggiatori provenienti da Firenze, che descrissero unanimemente il regime di Parte Nera come in via di consolidamento. Confidare in una revoca del bando era quindi ormai insensato.
Trovandosi improvvisamente espulsi da Firenze, i Bianchi rifiutarono di darsi per vinti e cercarono pertanto un’alleanza con gli esuli ghibellini nel tentativo di tornare in città con la forza. Che ruolo ebbe Dante in questa operazione? Un indizio ci indurrebbe a pensare che in quel momento fosse addirittura uno dei leader della coalizione ribelle: il suo nome infatti, figura tra i partecipanti ad un incontro avvenuto probabilmente l’8 giugno 1302 al castello di San Godenzo, proprietà dei Conti Guidi tra Mugello e Casentino. In quell’occasione diciotto esuli fiorentini garantirono alla potente casata feudale degli Ubaldini il rimborso dei danni che le loro proprietà nel Valdarno avrebbero subito nel corso della guerra contro Firenze.
Guerra che, dopo i primi, iniziali successi, si concluse nell’estate del 1302 con la sconfitta totale dei fuoriusciti. A quel punto, nel tentativo di trovare appoggi per un nuovo colpo di mano, in autunno lo stesso Dante si sarebbe recato a Forlì, allo scopo di sollecitare l’intervento in favore degli esuli fiorentini del signore della città romagnola, Scarpetta Ordelaffi. Tuttavia, nella primavera successiva l’esercito dei bianco-ghibellini sceso dal Mugello al comando dello stesso Ordelaffi fu intercettato presso Castel Puliciano e messo in rotta dalle milizie fiorentine guidate da un altro forlivese, il podestà Fulcieri da Calboli.
Tutto finito? Niente affatto perché a risollevare il morale dei Bianchi giunse la notizia della morte del loro arcinemico Bonifacio VIII, spentosi un mese dopo il celebre episodio dello “schiaffo di Anagni”, ossia l’umiliante tentativo di arresto del pontefice messo in atto dal legato del Re di Francia, Guglielmo di Nogaret con l’aiuto del nobile romano Sciarra Colonna. Preoccupato per il clima di violenza che continuava ad agitare Firenze il nuovo Papa, Benedetto XI, nel marzo del 1304 inviò in città il cardinale Niccolò Alberti da Prato nel tentativo di mettere pace tra le fazioni e garantire agli esuli il ritorno in patria.

L’opera di mediazione del cardinale fu tuttavia sabotata dai magnati di Parte Nera, i quali persuasero il popolo, che pure aveva accolto con entusiasmo il legato papale, del fatto che questi mirasse in realtà a riportare i ghibellini al potere. Il clima si fece sempre più teso sino al punto che ai primi di giugno del 1304 l’esasperato cardinale Alberti abbandonò Firenze non prima di avere lanciato l’interdetto e la scomunica contro la città.
Il fallimento della missione del cardinale da Prato non scoraggiò i fuoriusciti, i quali ritenevano di poter ancora contare su numerosi partigiani presenti in città, segno che il popolo si fosse stancato delle violenze dei magnati di Parte Nera. Convinti di riuscire a riconquistare il potere, i Bianchi misero insieme un esercito di 9 mila fanti e 1.600 cavalieri mobilitando tutte le loro amicizie sparse tra la Toscana e la Romagna, dopodiché, nel luglio 1304 calarono dall’Appennino su Firenze, che ancora non sospettava nulla del colpo di mano. I congiurati si concentrarono alla Lastra, presso Montughi, dove rimasero accampati per alcuni giorni attendendo rinforzi perdendo così tempo prezioso. Quando il 20 luglio finalmente mossero verso Firenze, la città era ormai in stato di allerta. Penetrati senza problemi nel sobborgo di San Gallo, i fuoriusciti si schierarono in attesa che la popolazione si sollevasse contro il governo dei Neri ma nessuno si mosse. Decisi a giocarsi il tutto per tutto, i golpisti si impadronirono di una porta penetrando nella città vecchia fino a piazza San Giovanni, dove, al termine di un breve combattimento con le milizie lealiste, vennero respinti.
In seguito alla disfatta della Lastra Dante, che non aveva partecipato all’azione e l’aveva anzi deplorata, ruppe una volta per tutte con il suo partito, definito “compagnia malvagia e scempia”, e iniziando da quel momento in avanti a fare parte per sé stesso. Come abbiamo detto Dante trascorse in esilio gli ultimi diciannove anni della sua vita. Tuttavia ricostruirne gli spostamenti è impresa quanto mai ardua a causa della scarsità delle fonti documentali e della contraddittorietà di quelle disponibili. Anche gli accenni autobiografici contenuti nelle sue opere si fanno sempre più criptici prestandosi alle più diverse interpretazioni. Un indizio di quella che potrebbe essere stata la prima tappa dell’esilio dantesco si ricava nel Canto XVII del Paradiso, nel quale il Sommo Poeta mette in bocca all’avo Cacciaguida le seguenti parole:
“Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ‘n su la scala porta il santo uccello”

Dante quindi sarebbe andato a Verona, città retta dalla signoria dei Della Scala. Il santo uccello a cui si fa riferimento è l’aquila, che gli scaligeri in qualità di vicari imperiali portavano in capo alla loro insegna sopra la scala da cui presero il nome. Per quanto riguarda il “Gran Lombardo”, potrebbe essere Bartolomeo Della Scala, morto il 7 marzo 1304, alcuni mesi prima della battaglia della Lastra. Dante quindi probabilmente lasciò la Toscana già dopo la sconfitta del 1303 per poi farvi ritorno l’anno successivo sperando nel successo della mediazione del cardinale da Prato. L’esito fallimentare della missione dell’Alberti e il disastro della Lastra segnarono poi la definitiva rottura tra Dante e la Parte Bianca.
Se gli anni del soggiorno veronese di Dante appaiono avvolti nel mistero, quelli successivi sono addirittura immersi nella più completa oscurità. I suoi stessi biografi sono in disaccordo circa i suoi spostamenti. Una delle ipotesi più accreditate vuole che il Sommo Poeta una volta lasciata la città scaligera si sia spostato a Bologna, città che da tempo ospitava una numerosa comunità di esiliati fiorentini. Proprio nel capoluogo felsineo, sede della più antica Università d’Europa, Dante si sarebbe dedicato alla stesura di due delle sue opere più importanti, vale a dire il Convivio e il De vulgari eloquentia. Tra gli argomenti addotti a sostegno di questa ipotesi, affascinante quanto inverificabile, rientra il fatto che la vastissima bibliografia aristotelica e scolastica utilizzata per la stesura dei due trattati poteva essere disponibile soltanto in una grande città universitaria.

Ad ogni modo la permanenza di Dante a Bologna si interruppe bruscamente nel febbraio 1306 quando i Neri presero il potere scacciando i Bianchi e i ghibellini presenti in città. L’esule si spostò allora a Padova e infine nella Marca Trevigiana presso Gherardo III da Camino. Da qui, Dante fu chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina, col quale il poeta entrò forse in contatto grazie all’amico comune, il poeta Cino da Pistoia. In Lunigiana Dante ebbe l’occasione di negoziare la missione diplomatica per un’ipotesi di pace tra i Malaspina e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla. In qualità di procuratore plenipotenziario dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di Castelnuovo Magra del 6 ottobre del 1306. La “dolorosa povertade” che caratterizzò questa fase della sua esistenza lo costrinse quindi ad approfittare della generosa ospitalità di vari signori diventando suo malgrado un “uomo di corte”, dolorosamente crucciato e sdegnoso di tale condizione.

Nel 1307, dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, dove fu ospite dei Conti Guidi, conti di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò la stesura della Commedia. In quegli stessi anni il pensiero politico di Dante prende la sua forma definitiva, che metterà in seguito nero su bianco nel trattato De Monarchia. Interrogandosi su quale possa essere la ragione dei malanni dell’’Italia Dante la individua nelle discordie ed auspica un intervento imperiale nella Penisola allo scopo di riportavi la pace e la giustizia. Dante ritiene che il potere dell’Imperatore abbia origine divina e che il monarca, in quanto Vicario di Dio, non sia soggetto all’autorità del Papa, verso quale è comunque tenuto a mostrare rispetto.
La possibilità di una restaurazione del potere imperiale nella Penisola auspicata da Dante e con essa la sua del tutto sopita speranza di ritorno a Firenze, parve concretizzarsi nel 1310, anno della discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo. Quella di Dante era però destinata a rivelarsi soltanto una pia illusione: avversato dal partito guelfo capeggiato da Firenze, sostenuto da Roberto d’Angiò, Re di Napoli, Enrico VII morì di malaria a Buonconvento, nei pressi di Siena, il 24 agosto 1313. Poco dopo la morte dell’Imperatore Dante si trasferì nuovamente a Verona, questa volta ospite di Cangrande della Scala, fratello minore di Bartolomeo.

Sulle rive dell’Adige trovò la tranquillità necessaria per condurre a termine la Commedia con la stesura del Paradiso. Proprio a Verona fu raggiunto dai figli ormai maggiorenni, Jacopo e Pietro, che lo seguiranno nel suo ultimo trasferimento a Ravenna, avvenuto intorno al 1318 su invito di Guido Novello da Polenta, nipote di quella Francesca da Rimini la cui vicenda è narrata dal Sommo Poeta nel Canto V dell’Inferno.
A Ravenna Dante visse circondato da una ben meritata da di intellettuale autore di un poema di cui ormai si parlava in tutta la Penisola. Per conto di Guido Novello svolse alcune delicate missioni diplomatiche, di cui l’ultima, che nell’estate del 1321 lo condusse a Venezia, gli sarebbe stata fatale. All’epoca infatti i rapporti tra Ravenna e la Repubblica Serenissima erano piuttosto tesi per questioni legate al controllo del commercio marittimo nell’alto Adriatico. Proprio quell’estate Cecco Ordelaffi, subentrato pochi anni prima nella signoria di Forlì al già citato Scarpetta, minacciò di muovere guerra a Guido Novello e Venezia parve disposta a sostenerlo. Dante pertanto fu mandato in Laguna nel tentativo di smorzare i toni presentando una bozza di accordo preliminare da perfezionare in seguito.

Secondo quanto riporta il cronista fiorentino Filippo Villani addirittura i veneziani, temendo l’eloquenza di Dante avrebbero rifiutato di lasciarlo parlare e per colmo di scortesia gli avrebbero anche negato la possibilità di rientrare a Ravenna per mare costringendolo ad un penoso viaggio di ritorno via terra, durante il quale avrebbe poi contratto la malaria risultatagli fatale. Dopo aver ricevuto solenni esequie, la salma di Dante trovò sepoltura in un’arca presso la Basilica di San Francesco. Il sepolcro ravennate, restaurato nel 1483, fu coperto da un tempietto edificato nel XVIII secolo. Tuttavia Dante era destinato a non trovare pace nemmeno da morto: i fiorentini infatti, che per opera del Boccaccio intuirono presto il genio dell’illustre concittadino, ne reclamarono a più riprese le spoglie, la cui restituzione fu sempre negata dai ravennati.

Per sottrarre i resti del poeta a un possibile trafugamento da parte di Firenze, rischio divenuto concreto sotto i papi medicei Leone X e Clemente VII, i francescani dell’attiguo convento trafugarono le ossa dal sepolcro nascondendole in un luogo segreto. Quando nel 1810 Napoleone ordinò la soppressione degli ordini religiosi, i frati, che di generazione in generazione si erano tramandati il luogo ove erano conservati i resti, pensarono bene di nasconderli in una porta murata dell’oratorio attigua al convento. Le spoglie lì rimasero fino al 1865, allorché un muratore, intento a restaurare il convento in occasione del sesto centenario della nascita del poeta, scoprì per caso una piccola cassetta di legno, contenente uno scheletro pressoché integro poi rivelatosi appartenente al Sommo Poeta.
Ma al di là delle vicissitudini delle spoglie e delle polemiche legate alla città in cui dovrebbero riposare, Dante, il quale ebbe a scrivere di sé “Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare”, era e resterà un genio universale la cui opera è patrimonio di tutta l’umanità.
Bibliografia:
- A. Barbero, Dante
- C. Marchi, Dante