Se pensiamo oggi al Mediterraneo orientale tra la fine del Medioevo e la prima età moderna, il grande protagonista sembra essere l’impero ottomano, erede di Bisanzio, capace di unire i Balcani, l’Anatolia, il Vicino Oriente e il Nord Africa. Eppure la sua egemonia su questo vasto panorama fra tre continenti si creò e consolidò nel tempo, vivendo in tale processo anche crisi o momenti nei quali il futuro impero dei sultani era una potenza di media grandezza, egemone solo a livello locale. Tra la metà ‘200, fino all’inizio del ‘500 tale ruolo tra i monti orientali della Turchia, la Siria e la Palestina, l’Egitto e le coste del Mar Rosso fino all’Oceano Indiano era nelle mani di altri signori, capaci di influenzare la politica e l’economia non solo dell’Oriente ma dell’intero Mediterraneo, dai regni di Francia e Aragona alle città marinare italiane, come Genova, Pisa e Venezia. Tali principi erano i Mamelucchi, signori guerrieri, che governavano dalla loro ricca capitale, il Cairo.

La vicenda storica dei mamelucchi rappresenta una sfaccettatura interessante nel contesto mediorientale e islamico, come in quello genericamente mediterraneo. Una particolarità che permea il loro stesso nome, mamluk, che in arabo identifica il servitore, lo schiavo. La loro esistenza infatti, non esclusiva dell’Egitto e della Siria, nasceva dall’essere personaggi originari di ambienti esterni al mondo arabo, centroasiatici, caucasici o ucraini, acquistati come schiavi da membri dell’elitè mediorientale in porti e mercati. Questo loro status, che li eradicava dal loro contesto, li rendeva però molto importanti per i loro padroni, in quanto fedeli, legati indissolubilmente alla loro nuova “famiglia”. La condizione di schiavitù di questi personaggi non era destinata però ad un ruolo servile, quanto invece a una funzione molto ricercata, ossia quella di vero e proprio corpo d’elitè militare, in special modo di cavalleria.

Una posizione importante, che si accrebbe nel tempo grazie sia al frammentarsi del mondo musulmano in realtà più piccole e bellicose sia al loro utilizzo nelle complesse dinamiche interne alle dinastie regnanti, dove il potere di califfi e sultani era messo in discussione da usurpatori interni o esterni. L’assoldamento ebbe inizio con il califfo abbaside al-Muʿtaṣim, tra l’833 e l’842, coinvolgendo personaggi di origine turca e centro-asiatica, necessari per mantenere il potere all’interno della propria famiglia. Al- Mu’tasim stesso però visse sulla propria pelle l’evoluzione che questi guerrieri riuscirono a sviluppare grazie a questa posizione di privilegio. Egli infatti venne usurpato e ucciso proprio da alcuni di questi guerrieri turchi. Questo destino però riguardò principati e sultanati diversi, portando i mamluk nella maggior parte dei casi ad assumere il potere per sé o a diventare personaggi di primo piano a corte, aghi della bilancia e figure ombra nella gestione del governo. In alcuni casi però a giovarsi di questo ruolo non furono singoli personaggi sorti sul proscenio ma l’intero corpo militare, capace di usurpare i loro padroni e dare origine a vere dinastie, basate non sul legame di sangue quanto sulla gestione, non semplice, di un potere collettivo e oligarchico. Esemplari in tal senso furono, da un lato, i Mamelucchi di Delhi, signori del nord dell’India per quasi tutto il Duecento e fondatori dell’omonimo sultanato, ma soprattutto i Mamelucchi per eccellenza, signori tra lo Yemen e l’Egitto, il Vicino Oriente e la Turchia orientale.
L’origine di questa casta guerriera in Egitto risale ai loro diretti predecessori, ossia la dinastia ayyubide, formatasi tra Damasco e il Cairo nel solco del suo fondatore, Saladino. Proprio il grande principe curdo decise di favorire il reclutamento di schiavi guerrieri asiatici ma anche caucasici, puntando sulla loro lunga tradizione guerriera, rimasta nei circassi fino all’inizio del ‘900. Similmente ad altre realtà analoghe i servitori guerrieri, acquistati dal sultano, erano convertiti all’Islam e coinvolti in un approfondito addestramento, che li rendeva una cavalleria d’élite, armata di arco e sciabola. Tale preparazione era compiuta in ambienti specifici, spesso isolati rispetto alla città, per un maggior controllo e una maggior vicinanza al loro signore, favorendo con ciò un fortissimo spirito di corpo. Uno spirito che i mamelucchi egiziani istituzionalizzarono con la Furusiyya, un vero e proprio codice cavalleresco modellato su quello crociato. L’apporto di quest’élite di cavalieri divenne sempre più significativo, in special modo con i successori del Saladino. Una centralità dettata dalla conflittualità tra i membri della casata ayyubide, che si garantivano ruoli sempre più autonomi in Siria e Palestina, ma anche dalle lotte intermittenti che i sultani combattevano verso l’esterno, in particolare verso i regni crociati d’oltremare e le nuove spedizioni crociate, o verso le incursioni che già a inizio secolo cominciavano a profilarsi dalla Persia.
Il ruolo che i mamelucchi riuscirono a ritagliarsi seppe essere complesso, sia per la loro composizione, così come per la loro durata, poco più di due secoli e mezzo. Tale dominio venne ad articolarsi in due fasi differenti, distinte in base all’origine geografica ed etnica dei sultani. Dal 1250 all’ultimo decennio del XIV secolo si ha infatti l’egemonia della cosiddetta dinastia Bahri, composta da esponenti spesso non imparentati ma con la medesima origine turca, in particolar modo kipchac, stanziati tra il Kazakistan e la steppa ucraina. Il loro nome inusuale, alieno al mondo altaico, deriva dal termine arabo al-bahr, il mare, termine con cui era identificato l’ampio corso del Nilo, nel quale si trovava la loro sede originaria, l’isola di Roda, nel centro del Cairo. Alla metà degli anni ’80 del 1300 essi vennero scalzati da una seconda dinastia, detta Burji. I membri di questa consorteria, che accompagneranno il sultanato alla perdita dell’indipendenza, avevano in comune un’origine diversa, caucasica, in prevalenza georgiana e circassa. Il nome della dinastia ha origine analoga, facendo qui riferimento al termine al- burj, la torre, simbolo della loro casa madre, ossia la Cittadella del Cairo, fortezza costruita da Saladino e sede della corte ayyubide e mamelucca.

Il successo e la caduta dei mamelucchi nacquero da molteplici elementi, legati sia a vicende esterne o condizioni pregresse, sia a capacità applicate proprio da questi principi guerrieri. Un primo punto fondamentale fu proprio quello bellico, significativo per il suo valore militare ma anche per le conseguenze geopolitiche che da esso derivarono. Le grandi capacità guerriere della casta permisero infatti di estendere il loro dominio verso il Medio Oriente, combattendo e sottomettendo quella serie di principi ayyubidi che ancora governavano qui, facendo arrivare il controllo del Cairo alle attuali Giordania, Libano e Siria, fino all’area meridionale dell’Anatolia.
Fulcro di questo processo furono però i rapporti con gli stati crociati e con le orde mongole. Da un lato i sultani mamelucchi, in particolare Baybars, Qalawun e Al Ashraf Khalil, organizzarono una vera e propria politica sistematica verso i resti d’oltremare delle Crociate, procedendo sia con conquiste graduali sia ad un’oculata diplomazia, che puntava a coinvolgere solo alcuni territori, pacificandosi temporaneamente con altri, creando così divisioni interne. Questa politica, tra gli anni ’60 e ’70, portò alla conquista di città e piazzeforti, dal templare Castel Pellegrino a Giaffa, da Antiochia, capitale dell’omonima contea, all’ospedaliere Krak de Chevalier, in Siria. Dopo questi fu la volta di Laodicea e Tripoli, concludendosi con la presa di San Giovanni d’Acri nel 1291, ultimo frammento franco nell’Oltremare. Una linea proseguita con il vicino regno di Cipro, rimasto per molti secoli un satellite del sultano del Cairo.

Molto del prestigio assunto dai nuovi sultani egiziani derivava invece dal loro successo contro i mongoli che, partendo dalle conquiste gengiscanidi, stavano estendendo il loro controllo su gran parte dell’Asia. Cruciali per l’Egitto furono in particolare le campagne di Hulegu Khan, fratello di Kublai e protagonista delle campagne mediorientali, conquistando la Persia, l’oriente anatolico e affacciandosi alla mezzaluna fertile, con la conquista e distruzione di alcune realtà cardine del Vicino Oriente, come Aleppo e soprattutto Baghdad, capitale califfale, il cui signore fu catturato e ucciso. La pressione si spostò quindi sulla costa levantina e sull’Egitto, con la collaborazione dei regni crociati, armeno di Cilicia e georgiano. In questo contesto si inserì la grande battaglia di Ayn Jalut, alle fonti di Golia, vinta vicino a Tiberiade da Baybars nel settembre del 1260. Una vittoria molto celebrata in tutto il mondo musulmano e nel bacino del Mediterraneo, che vedeva tale evento sia come una rivincita per la vicenda di Baghdad sia soprattutto come una realtà inimmaginabile, perché fino a quel momento nessuno, né in Medio Oriente né sul fronte europeo, era riuscito a fermare l’orda dei Mongoli. Un evento che diede centralità e potere al vincitore, Baybars, definito campione dell’Islam e che gli aprì la via al sultanato. Un peso che la battaglia ebbe solo parzialmente sul lungo periodo, quando i mamelucchi dovettero rispondere a successive incursioni, fino al 1303.
A questo lato bellico il dominio mamelucco seppe muoversi anche nell’ambito diplomatico ed economico, riuscendo per tale strada sia ad acquisire un ruolo guida formale e sostanziale nel Mediterraneo Orientale e sulle vie per l’India, sia una ricchezza che portò per secoli le merci più ricche dell’Oriente e dell’Occidente a passare dai bazar e dai caravanserragli di Alessandria, il Cairo, Aleppo e Tripoli di Siria. Centrali in questa prospettiva, oltre ai rapporti con i Crociati, la vasta visuale internazionale proprio di Baybars, capace di intessere legami in varie direzioni, verso nord, aprendo trattative con il Khanato dell’Orda d’Oro, così come con il variegato universo di sultanati e signorie turche che popolavano l’Anatolia orientale dopo la fine dei grandi Selgiuchidi, una pratica seguita dai suoi successori, in particolare dopo che i mongoli prima e i timuridi poi abdicarono a questo ruolo.

Non secondari furono però anche quelli verso sud, sia con i signori cristiani e musulmani che governavano il nord dell’attuale Sudan, garantendo un controllo sulle rotte mercantili del grande fiume, sia con le realtà affacciate sul Mar Rosso dove, attraverso il controllo diretto su Egitto e Hegiaz arabo, e l’amicizia dei signori dello Yemen e del Corno d’Africa, la casta guerriera del Cairo controllava le rotte che dalla Persia, dalle coste occidentali dell’India e dalle città mercantili di Kilwa e Monbasa arrivavano nei porti di Damietta e Alessandria. Ciò permise quindi di garantire sicurezza a tutti mercanti che si muovevano per tutto l’Oriente, dalle vie carovaniere dirette a Damasco e Homs alla via dell’incenso yemenita, dall’”autostrada” fluviale del Nilo alla via dell’oro che, partendo da Timbuctu, attraversava il deserto per arricchire l’antica metropoli affacciata sul Mediterraneo. Punta di diamante diplomatica fu, alla metà del ‘200, il riconoscimento degli eredi del califfo abbaside fuggiti da Baghdad e il loro trasferimento nella Cittadella del Cairo. Un evento fondamentale per entrambe le parti. Da un lato infatti gli eredi dei califfi erano formalmente riconosciuti dal più importante dei signori della Umma e riacquisivano una sede sfarzosa, seppur priva di qualsiasi autorità sostanziale. Dall’altro la nuova elitè egiziana ottenne dal loro trasferimento una grande rilevanza, non avocarono a sé questo status sovranazionale ma preferendo invece accostarlo al proprio potere, capace di autolegittimarli, cementare la loro successione e accrescere il loro ascendente internazionale.
Accanto ai successi il luogo dominio dei mamelucchi subì anche un lento e graduale indebolimento, cui pose fine la conquista ottomana di Selim I nel 1517. Seppur tale involuzione venga spesso associata alla sola dinastia circassa, alcuni presupposti si svilupparono già nella pur gloriosa consorteria turcomanna. Centrale in particolare fu la stessa struttura politica che i sultani si erano dati. Nati come una grande realtà oligarchica, essi non si erano dati una precisa linea successoria. Nonostante i tentativi di alcuni di essi di costruire per i propri discendenti una continuità al potere, il sistema stesso limitava tali iniziative, portando ad una debolezza di fondo, nella quale altri esponenti, eminenti per merito e per carisma politico, erano capaci di prendere il potere ed estrometterne i loro predecessori, soprattutto se deboli o giovani.

L’equilibro che, nonostante ciò, il governo bahri era riuscito a costruire venne meno al cambio di dinastia, alla fine del XIV secolo, per vicende interne ma anche per contingenze esterne. Nel fronte interno in particolare la crescente conflittualità tra i capi ebbe profonde ripercussioni sul controllo e sulla protezione delle vie commerciali che divennero più soggette ad attacchi beduini. Uno stato di conflitto dettato anche dal nuovo carattere del dominio burji, basato da una struttura più chiusa, che abbandonava il modello strettamente meritocratico dei loro predecessori per uno più etnico, dove ad essere favoriti erano soprattutto i membri dell’ambito caucasico. In tale contesto vennero ad inserirsi eventi esterni, dipendenti solo parzialmente dal volere dei sultani. Su di un fronte un decadimento economico e soprattutto demografico, dettato dalla diffusione, come in Europa, delle grandi epidemie di peste, giunte a metà del ‘300 ma protrattesi endemicamente per tutto il secolo successivo, rimanendo un fattore presente fino a Napoleone. Sull’altro l’interferenza di nuove grandi potenze. L’inizio dei sultani burji coincisero infatti da un lato con l’attacco e le scorrerie in Anatolia e nel Vicino Oriente di Timur, ossia Tamerlano, capace di catturare Aleppo e Damasco e di distruggere quest’ultima, massacrandone gli abitanti. Alla sua fine invece l’egemonia commerciale mamelucca dovette affrontare, attorno alla fine del XV secolo, l’arrivo nell’Oceano Indiano dei Portoghesi. Questi ultimi, costruendo rapporti con altre realtà dell’area, come l’impero etiope, riuscirono a strappare le ricche e importanti basi sulla costa occidentale dell’India, dove i mamelucchi erano monopolisti, così come a prendere il controllo di centri strategici come Malindi, in Kenya, Muscat, in Oman, e l’isola di Socotra, all’imbocco del Mar Rosso.
Tra i vari sultani che caratterizzarono il dominio egiziano, accanto a figure eminenti come Baybars e Qalawun e a personaggi precorritori della lenta caduta dei sultani ma ricchissimi negli sviluppi artistici e culturali come Qaitbay (1468-1496) e Al-Ashraf Qansuh al-Ghuri (1501- 1516), interessante è la figura di Barquq, primo sultano burji, tra la fine del XIV e XV secolo. Importante sia per il suo ruolo di transizione tra due dinastie sia perché la sua vicenda personale rappresenta pragmaticamente un modello degli accidenti che caratterizzarono l’intero dominio egiziano. Al-Malik Al-Zahir Sayf ad-Din Barquq infatti era giunto in Egitto molto giovane, provenendo dalle realtà circasse del Caucaso, divenendo presto una figura centrale tra le forze di cavalleria dell’emiro Yalbugha al-Umari, membro della corte e già mamluk del sultano Al Nasir Hassan. Tale ruolo permise al giovane, che aveva assunto il nome arabo di Barquq, pesca, di acquistare una posizione nella macchina governativa, aiutato in ciò dalle difficili condizioni in cui essa si trovava. Egli riuscì in particolare ad entrare nel consiglio di reggenza del sultano, alla sua epoca erede del sultano An-Nadir Mohammad, in particolare dei giovani Al Mansur Ali II e Hajj II, saliti al trono adolescenti alla morte violenta del padre. Nel 1382 le condizioni permisero proprio a Barquq di prendere il potere, spodestando quest’ultimo e acquisendo il titolo sultaniale, dandosi il titolo di al- Zahir, il medesimo di Baybars, e circondandosi di membri del proprio etnos.

Il dominio del nuovo sultano durò però solo dal 1382 al 1389, quando fu spodestato da diversi governatori provinciali, in particolare quelli di Malaytia, nel sud est della Turchia, e di Aleppo, nella famosa rivolta Zahiri. Costoro, riconquistata il Cairo, rimisero al suo posto Al- Haji II e rinchiudendo Barquq, come molti suoi predecessori, nel castello di al-Karak, la crociata Kerak, in Giordania. Le lotte intestine tra i nuovi sovrani egiziani favorirono il ritorno di Barquq, che riprese le redini già alla fine del 1390. Questo secondo dominio, più lungo del precedente, fu però a luci ed ombre. Da un lato infatti il sultano seppe valorizzare la forza politica ed economica del regno con più duraturi contatti con il sultanato di Adal, nell’odierno Gibuti e nord Somalia, e sostenne la creazione da parte di un suo emiro di un nuovo caravanserraglio al centro del Cairo, che da lui prese il nome di Khan el Khalili, nome esteso al grande e oggi famoso mercato della capitale egiziana. Dall’altro però Barquq dovette fronteggiare e risolvere la calata tempestosa di Tamerlano, arrivando ad un’alleanza con gli Ottomani. Una campagna che diede però pochi frutti, sia per la sconfitta turca ad Ankara sia per la morte del sultano egiziano per malattia, cui il figlio non seppe dare un seguito vittorioso.
La politica e l’economia non sono però gli unici diaframmi attraverso cui vedere la figura ambigua di Barquq, parte dell’epoca aurea ma anche preludio alla decadenza. Un altro punto di vista è quello delle arti, elemento centrale di tutta l’epopea mamelucca. Un panorama vasto e variegato, capace di spaziare tra tecniche e materiali più disparati, dalle arti grafiche della calligrafia e della composizione di libri, in oro e colori sgargianti, alle opere in metallo, legno e vetro, arti applicate nelle quali il mondo mamelucco seppe portare a compimento modelli di dinastie precedenti o realtà vicine, giungendo a veri e propri capolavori di dettaglio cesellato e intagliato, mescolando in sè cromie, consistenze e lucentezza.

Una ricchezza espressa dal Maqâmât di al-Harîrî, codice miniato oggi a Vienna risalente agli anni ’30 del 1300, ma anche dal cosiddetto fonte battesimale di Luigi IX, un bacile ricchissimo d’inserti preziosi e tondi istoriati. L’arte nella quale i principi guerrieri primeggiarono fu però l’architettura, anch’essa caratterizzata da ricchezza e varietà. Un campionario molto vasto sia nelle forme che venne ad avere sia per la sua estensione sul territorio, da Aleppo a Damasco e Gerusalemme, dalla moschea di Medina, fatta restaurare da Qaitbay alla capitale, Il Cairo, dove questo patrimonio si manifesta nel modo più esteso. Un’arte che si mostra in molti campi, da quelli più semplici, come moschee, madrase, ossia scuole, e mausolei, a ambienti più particolari, soprattutto per la rarità con la quale essi si conservano. In questo campo trovano spazio edifici civili, più soggetti ai mutamenti del tempo, dai Khan, caravanserragli destinati ai mercanti, alle monumentali fontane pubbliche, dai Wikalas, le case o quartieri dei ricchi commercianti, e dal Khanaq, “monasteri” delle comunità mistiche sufi ai bimaristan, ospedali pubblici, tra i quali il grandioso edificio nel complesso della moschea del sultano Qalawun, probabilmente il primo ospedale della storia e matriarca degli ospedali civici del ‘400 italiano.

Un contesto dove a caratteri precedenti, che davano forme standardizzate agli edifici e introducevano talune caratteristiche, faceva seguito, con l’andare del tempo, la formazione di una vera e propria koinè comune, un linguaggio artisticamente comune che lega i progetti di Baybars coetanei delle cattedrali francesi a quelli di al- Ghuri alle porte del mondo moderno. Proprio alla figura di Barquq si deve un’opera in particolare che, per la sua posizione cronologicamente intermedia, può ben esplicitare questo ruolo e questo linguaggio, ossia la sua moschea, costruita a partire dalla sua salita al potere nel 1382 e conclusa nella prima fase del suo regno.
Questo edificio, oggi inserito nella centralissima al-Mu’izz street, viene ad assumere un certo ruolo ed una certa posizione dalla sua forma e della sua collocazione all’interno dell’intricato reticolo della capitale egiziana. Una ragnatela complicata dalle sue mille vite, dalla al Fustat, la città delle tende dei primi califfi, alla al-Askar, quartiere militare, di origine omayyade e abbaside, fino ad al- Qatta’i, i nuovi quartieri della locale dinastia tulunide, fino a quella attuale, al- Qahirat al- Mu’izz, La Città vincitrice di al-Mu’izz, fondata dal quarto imam fatimide al-Muʿizz (932-975), oggi visibile nelle moschee di Al-Hakim e di Al Azhar, uno dei più importanti centri culturali del modo islamico. Proprio in questo puzzle articolato e affastellato si trovano le tracce ayyubidi, simboleggiata dalla Cittadella, e gli interventi mamelucchi, diffusi in tutta la capitale, che mescolano progetti incastonati nella città ad altri più maestosi e imponenti, nati nei territori liberi intorno ad essa, nei grandi cimiteri del nord e del sud.

In questo ambiente complicato Barquq, proprio al momento della sua presa del potere, decise di costruire il suo complesso in una posizione precisa. Egli puntò in particolare, come i suoi predecessori, su un insieme di edifici di natura religiosa, sociale e caritatevole, non un palazzo o costruzione laica. Tale scelta, che può sembrare scontata per un sovrano medioevale e soprattutto musulmano, persegue inoltre una funzione ben precisa e più prosaica. Nel mondo mamelucco infatti tale scelta nasceva da una doppia esigenza pratica: da un lato essa permetteva, perpetuandosi più facilmente nel tempo per la sua funzione, di conservare la memoria del loro fondatore, ricordarne le imprese e propiziare preghiere per la sua salvezza. Sul fronte opposto, proprio lo statuto oligarchico e non dinastico del governo sultaniale, poneva il rischio che la famiglia e gli eredi di un sultano potessero essere spodestati o esautorati dei loro beni. Tale condizione portò quindi a costituire le fondazioni sacre come delle vere e proprie garanzie, in quanto le risorse in esse devolute o investite non potevano venire intaccate dalla temperie politica. In questa linea il sultano decise di costruire la sua fondazione pia, costruita secondo i particolari canoni della cultura egiziana, specie di quella dei primi secoli. Se in generale tutte le moschee musulmane non corrispondono mai al solo edificio di culto, ma si completano nella loro kulliye, composta di madrase, fontane pubbliche, ospedali e mense per i poveri, mausolei e minareti, il modello egiziano proposto dai mamelucchi si caratterizzava per due elementi, ossia la loro fusione in un’unica struttura edilizia, dove gli edifici erano collegati tra di loro e i medesimi spazi erano destinati a funzioni diverse, così come la loro collocazione nel tessuto vivo della città, cui erano dedicati limitati e ridotti interventi, portando a complessi che univano uno schema abbastanza uniforme nella parte centrale a composizioni molto articolate nei settori periferici.
A questi caratteri più generali, che fanno collimare il progetto di Barquq con la tradizione, il primo sultano burji aggiunse un tassello ulteriore, dettato proprio dalla sua figura e in dai suoi obbiettivi politici nel tentativo di legittimare un potere ottenuto in modo illecito.

La costruzione infatti si andò a collocare in un’area specifica del rettifilo urbano, ossia il territorio noto come Bayn al-Qasrayn, Tra i due palazzi. Questo nome particolare nasceva dall’esistenza, ora limitatamente visibile, dei due palazzi governativi fatimidi affacciati intorno ad una piazza, detta Meidan, come quella costruita dagli stessi dinasti a Mahdia, la vecchia capitale. Da un lato si trovava il Grande Palazzo orientale, sede dell’imam fatimida, del governo e delle udienze pubbliche. Dall’altro il palazzo di Al Aziz, più recente e di forma ad U, caratterizzato da un grande giardino, destinato a luogo di delizie e sede del visir. Questo grandioso complesso, unito da tunnel e passaggi coperti, distrutto in epoca ayyubide, dava quindi al luogo un carattere simbolico del potere sul Cairo e sull’Egitto, permettendo al nuovo sultano di mostrarsi in linea e continuità con la ricca e famosa dinastia. Tale identità forte fu rafforzata proprio con il mondo mamelucco, nella sua epoca più dorata. Qalawun, successore e continuatore di Baybars, decise di costruire qui la sua fondazione, caratterizzata da una moschea, dal suo mausoleo, da diverse madrase e soprattutto da suo storico ospedale. Un edificio monumentale, sia per le sue dimensioni sia per la ricchezza dei materiali utilizzati, in particolare nei marmi, recuperati anche da edifici antichi. In continuità con il padre, agli inizi del Trecento Al Nasir Mohamed, il conquistatore di San Giovanni d’Acri, decise di affiancarsi a lui, costruendo un complesso monumentale che lo eguaglia in grandiosità, nel mihrab interno, decorato a stucco di origine persiana, nel maestoso minareto ricamato nella pietra di ascendenza maghrebina e ispanica o nel portale d’accesso, particolare poiché, seppur sembri coerente con il resto del complesso, è realizzato con il portale gotico della cattedrale di Acri portato qui proprio per volontà del sultano.

Collocare qui la sua fondazione pia aveva quindi una seconda conseguenza, ossia quella di collegarsi con i membri più eminenti della “dinastia”, di cui si volevano ripercorrere i passi, legando anche la propria consorteria con quella precedente e legittimarsi attraverso di essa, superando il proprio stato di illegalità.
Il cantiere, affidato all’architetto Ahmad al- Tuluni, membro ad una famiglia di tagliapietre e carpentieri, e guidata dall’emiro al Khalili, si sviluppa a partire dall’altissima facciata, punto di riferimento sul panorama della strada, costruito secondo la logica persiana del pishtaq, ossia dell’arco monumentale che dà accesso al luogo sacro. Essa si sviluppa con un grandioso arco trilobato, chiuso in alto da una grande semiconca, cesellata nella parte bassa da file di muqarnas, stalattiti artificiali, concluse in alto, a differenza degli esempi turchi, da una calotta liscia. Vero culmine è però la vasta decorazione marmorea che, partendo dallo zoccolo di base, ascende fino ai merli gigliati in cima, caratterizzata da fasce alternate bianche e brune sui pilastri, in cui si inseriscono iscrizioni in cufico di dedicazione del complesso, particolarmente articolate e fitomorfe, modificate all’interno in bianco e nero, che definiscono i dettagli della porta e, al di sopra, il piccolo oculo che da luce all’interno.

Un decoro complesso, dove le fasce marmoree assumono un disegno variegato nel taglio della pietra, dai rocchi sagomati sulla porta a veri e propri tappeti di pietra. Un elemento, denominato ablaq, che non è lontano dalla sensibilità del nostro mondo. Tale elemento infatti, nato nella Damasco omayyade e sviluppato nel mondo fatimide, venne da questo trasportato per le vie del commercio sulle nostre coste, costituendo il punto di partenza per quella bicromia verde e bianca o nera e bianca che caratterizza i territori della Repubblica di Genova e quelli di Pisa. Al portare marmoreo, reso tanto grandioso per rivelarne l’importanza e per segnalare la sua collocazione entro il tortuoso tessuto cairota, fa seguito quello di legno, vero e proprio ingresso. Questa è caratterizzata dalla medesima ricchezza. Alla struttura lignea si sovrappone un ricchissimo decoro in bronzo dorato, composto di cerchi raggianti e derivato anch’esso della grande cultura egiziana precedente, dagli sviluppi nell’arte orafa del mondo fatimide.
Superato l’ingresso, il complesso di Barquq segue nell’articolazione un modello cardine di molti edifici mamelucchi, che trova il suo esempio più monumentale nella moschea di Al Nasir Hassan, costruita alla metà del XIV secolo e collocata ai piedi della Cittadella.

Essa si articola secondo un modello apparentemente lontano dal ambiente mediorientale, ma che trova la sua origine nel mondo turco e persiano, ossia la corte chiusa a quattro iwan, ossia grandi nicchie coperte utilizzabili come vere e proprie stanze, una costruzione che giunse ai mamelucchi sicuramente tramite i contatti con il mondo di Soltanye e Isfahan. Barquq decise di seguire questo modello, dandone però una sua interpretazione, legata a varie contingenze, siano esse materiali e simboliche, non ultima quella di essere, a differenza del suo modello, inserita nel contesto urbano cui si deve adeguare.
Oltrepassato l’ingresso il fedele è condotto in un atrio iniziale. Esso, meno monumentale e colorato di quello di Hassan, è concluso da una grande nicchia sormontata da un decoro a muqarnas geometriche tagliate come a macchina.
L’ambiente si conclude in alto con una piccola cupola, sorretta da muqarnas sulle vele e illuminata da una serie di finestre nel tamburo ottagonale. Esse non sono del tutto aperte, ma citano un altro elemento tipico dell’architettura araba, detta Mashrabiya, che crea reticoli di pietra su porte e finestre. Da qui si diparte un vero e proprio tunnel di piccole dimensioni, che dà un accesso scenografico nella corte a quattro iwan. All’interno della costruzione di Barquq essi svolgono diverse funzioni, associate ad una serie di ambienti di servizio intorno alla corte centrale. Essi infatti assumono da un lato il ruolo di centro di preghiera e meditazione del khanaq, ossia della comunità sufi sostenuta e finanziata dal sultano, dall’altra quello di aule della madrasa. La stessa scelta dei quattro iwan derivava dal fatto che in essi fossero insegnati sia quattro diversi aspetti della dottrina musulmana ma anche quattro materie di studio differenti. A coronamento di questi ultimi si trovano decorazioni ad ablaq e incensieri cesellati in metallo.

L’iwan principale è però il quarto che aggiunge alle funzioni precedenti quella più importante, ossia quello di vera e propria moschea orientata verso Mecca. Una sua prima particolarità è la posizione che, dovendo tenere conto dell’orientamento e dell’urbanistica si trova ad essere non sul fondo del complesso ma in parallelo con l’ingresso, portando quindi ad un percorso ad U. Tale scelta permetteva anche uno scopo più profondo, ossia che i fedeli potessero pregare agevolmente anche dall’esterno, facendo riferimento alla facciata della qibla rivolta alla strada. Superato il sabir centrale, ossia la fontana per le abluzioni, coperto da un soffitto a bulbo, ricostruito nel 1912, lo spazio è chiuso da una prima struttura, che riluce per il suo marmo levigato. Questo elemento è il baldacchino sultaniale, ossia il pulpito sul quale il sultano in carica saliva per pregare. Un oggetto che si riscontra in molte moschee nel mondo, ma che risulta particolarmente diffuso tra i mamluk, sia come riconoscimento della gerarchia sia per una questione di sicurezza, dettata dalla possibilità di omicidi politici proprio in quel momento di vulnerabilità.

Attraverso il baldacchino si entra nella moschea, l’ambiente più composito e ricco del complesso. L’iwan viene infatti suddiviso in tre navate, segnalate da grandi colonne antiche di recupero e si conclude nella qibla, la parete dove si trova il mihrab, decorata nella parte bassa dal un vero e proprio mosaico di intarsi marmorei, qui più ricchi nel colore rispetto alla facciata. Essi definiscono in particolare proprio il mihrab, ma anche gli archi di uscita verso la strada. La parte alta manifesta la stessa importanza, illuminata da due grandi finestre, le quali però non sono chiude da reticoli di pietra ma da vetri colorati e decorati con piante e fiori, segno della luce che deve decorare il cuore sacro della moschea. I veri gioielli del luogo si trovano verso il basso e verso l’alto. Ai piedi dei fedeli si articola infatti un vero e proprio tappeto di pietra, caratterizzato da lastre con marmi geometrici e circolari, di ascendenza bizantina e ricavati spesso dal taglio di marmi e colonne antiche, i quali trovano la loro migliore espressione nella serie di archi stilizzati nei pressi del muro, non dissimili nelle forme da quelli realizzati nella facciata di San Miniato a Firenze.

Sulle loro teste si articola un vero e proprio capolavoro, un soffitto piano in legno cesellato, colorato e dorato, di piena matrice mamelucca, che riproduce, entro una cornice con versetti cufici derivati dal Corano, una rappresentazione coloratissima e stilizzata della volta celeste, completata ed arricchita da un grande lampadario sospeso, cui danno luce una serie di lucerne in vetro intarsiato, con al centro un grande incensiere.
La ricchezza espressa da Barquq nella moschea si diffonde nell’ultimo ambiente del complesso, quello forse per lui più importante, ossia il mausoleo. Anche la sua collocazione non è casuale. Se nel caso di Hassan, il sultano aveva potuto per ragioni spaziali collocarlo in asse con la moschea, unendolo ad essa con porte collocate nella qibla, Barquq è costretto a spostarlo sul lato sinistro, collegandolo proprio attraverso questa parete. Tale scelta, come quella precedente, non ha però solo valore contingente. Ponendolo di fatto in parallelo con la moschea e con l’ingresso, esso si trova collegato con la via pubblica e a contatto con essa, garantendo al sultano anche un risultato ulteriore: analogamente alle tombe romane antiche i fedeli e sudditi avrebbero potuto per quel mezzo pregare per la vita ultraterrena del fondatore e sultano.

Esso segue il modello già della moschea, con un mihrab sulla parete di fondo e tutte e quattro le pareti decorate a reticoli di marmi colorati. Sempre in marmi colorati è composta la tomba centrale, che di per sé è un cenotafio che ricopre la sepoltura che vi si trova al di sotto. Barquq però non riposa qui: alla morte il corpo del sultano fu trasferito al nuovo grandioso complesso del figlio Faraj, lasciando che qui riposi una donna, sua figlia. Corona l’opera l’architettura più diffusa e ricca del mondo mamelucco, ossia una grandiosa cupola, che si costruisce attraverso vele a muqarnas colorate e che si articola poi di un basso tamburo e in una cupola a cipolla, che qui all’esterno si presenta liscia, ricollegandosi così alla tradizione precedente e non accennando ai giochi di cesello lapideo e decoro floreale dei suoi successori. La ricchezza che però non disdegna il minareto, un’agile struttura in pietra lavorata di forma ottagonale a due ballatoi, conclusa da un baldacchino ad arcate e da un piccolo cupolino ogivale.

Una figura interessante, quella di Barquq. Un sultano meno noto e titolato di altri, ma capace di essere figura di mezzo ed emblema del governo dei mamelucchi d’Egitto, principi guerrieri ascesi dalla servitù all’egemonia su tutto il Medio Oriente. Un cultore delle arti, mecenate del grande storico Ibn Khaldun e dell’architettura, nella quale seppe dare una sua pennellata nel cuore della sua capitale. Un gioiello incastonato nella Cairo dei Mamelucchi.