Italia, autunno del 1918. Era ormai trascorso quasi un anno dalla batosta che il Regio Esercito aveva subito a Caporetto ad opera delle forze austro-tedesche, il cui attacco, sferrato il 24 ottobre del 1917 nella conca fra Plezzo e Tolmino, aveva avuto effetti devastanti per le armi italiane. In tre giorni il Friuli fu completamente occupato dal nemico, mentre il comando supremo evacuava Udine per spostarsi verso occidente. Il Generalissimo Cadorna tentò di tamponare la falla apertasi nel nostro schieramento ordinando alle nostre armate di attestarsi sulla linea del Tagliamento ma presto dovette rivedere i propri piani disponendo il ripiegamento di tutto l’esercito dietro il fiume Piave, con un arretramento complessivo del fronte di oltre 150 km.

Per l’Italia Caporetto fu un autentico shock: vennero abbandonate in mano al nemico intere province, pari a circa 20 mila chilometri quadrati di territorio nazionale. Oltre a ciò il nemico prese prigionieri oltre 300 mila nostri militari, rinchiusi nei campi di concentramento allestiti in Austria e Ungheria, dove perirono a migliaia principalmente a causa della fame, della tubercolosi e dell’epidemia di influenza spagnola che a partire dai primi mesi del 1918 iniziò a imperversare in Europa. Andarono inoltre perduti quasi 5 mila pezzi d’artiglieria di vario calibro abbandonati nella fuga precipitosa oltre a un’ingente quantità di scorte e materiali di ogni tipo stoccati nei magazzini militari, che nella fretta i nostri soldati non avevano fatto in tempo a svuotare o a distruggere. Ai tedeschi e soprattutto agli austriaci, duramente provati dal blocco navale alleato, non parve vero di poter mettere le mani su tutto quel ben di Dio.

In quell’immane confusione generata dalla precipitosa ritirata numerosissimi soldati sbandarono gettando il fucile e l’uniforme, ormai convinti che la guerra fosse finita e desiderosi soltanto di tornare a casa. Le autorità militari ebbero il loro bel daffare per arginare questo fenomeno. Si dovette procedere quindi l’allestimento di giganteschi campi di raccolta nei quali radunare questa gigantesca marea umana. Altra conseguenza di Caporetto fu il quasi mezzo milione di profughi civili, veneti e friulani, che dalle province invase cercò scampo al di qua del Piave, intasando le strade già stracolme di militari in ritirata. Nonostante l’esodo di massa un gran numero di persone non poté o non volle lasciare la propria casa e fu quindi costretta a passare l’ultimo anno di guerra in balia di un esercito invasore, affamato, abbrutito da anni di violenza e pieno di rancore verso gli italiani “traditori”. Non si contarono gli stupri, i furti e i saccheggi che austriaci e tedeschi inflissero alla popolazione inerme per la quale i mesi dell’occupazione furono un vero inferno.

Poi, pian piano, l’offensiva nemica perse slancio sino ad arrestarsi del tutto sulla linea del Piave tra il novembre e il dicembre di quel funesto 1917. Fallito il tentativo di passare il fiume, le operazioni entrarono in una fase di stanca, soprattutto a causa dell’esaurimento fisico dei reparti austro-ungarici mentre i tedeschi, già a partire da novembre trasferirono in Francia la metà dell’artiglieria impiegata per lo sfondamento del fronte italiano per poi fare progressivamente altrettanto con le truppe di fanteria al punto che, con l’arrivo del gennaio 1918 non un soldato germanico era ancora in Italia.
Ritenendo infatti quello italiano un fronte secondario, lo stato maggiore tedesco dispose il ri-schieramento sul fronte occidentale dei reparti precedentemente inviati in Italia. Secondo i generali del Kaiser, infatti, la battaglia decisiva che avrebbe determinato il trionfo o la disfatta del Reich si sarebbe combattuta in Francia. A partire dal novembre 1917 l’alto comando tedesco iniziò a mettere a punto i piani per l’offensiva finale, il cui obbiettivo avrebbe dovuto essere la conquista di Parigi e delle coste della Manica, allo scopo di tagliar fuori da ogni rifornimento le forze anglo-francesi prima che gli americani, scesi in campo nell’aprile 1917, concentrassero le loro forze in Europa, condannando la Germania ad una sicura sconfitta.

Al contrario, il successo del piano d’attacco in preparazione avrebbe certamente consentito al Reich di intavolare trattative di pace da una posizione di grande vantaggio. Si trattava di un piano per nulla irrealistico, nonostante la Germania si trovasse in una situazione di grave carenza di uomini e materiali: il 3 marzo 1918 infatti il nuovo governo bolscevico russo aveva firmato la pace-capestro di Brest-Litovsk, uscendo definitivamente dal conflitto mondiale, dando così modo alla Germania di trasferire a ovest gran parte dei contingenti impegnati fino a quel momento sul fronte orientale.
Un altro fattore che indubbiamente contribuì ad arrestare lo slancio offensivo delle Potenze Centrali fu senza dubbio la ritrovata compattezza delle truppe italiane, le quali, seppur a fatica, dimostrarono di essere ancora in grado di battersi. La minore estensione del fronte, più corto di circa 170 km rispetto a prima di Caporetto, permetteva ora di concentrare meglio le forze, favorendo la resistenza dei soldati italiani al comando del generale Armando Diaz, che dal 9 novembre aveva sostituito Luigi Cadorna in qualità di Capo di Stato Maggiore. Il nuovo comandante provvide a migliorare il trattamento dei soldati allo scopo di risollevarne il morale: innanzitutto, per quanto la giustizia militare rimase severa, vennero abbandonate le pratiche più rigide, prima tra tutte la decimazione. Parimenti si assistette ad un miglioramento del vitto destinato ai combattenti, sia dal punto di vista della qualità che della quantità. Inoltre, rispetto all’era cadorniana i comandi dimostrarono maggior liberalità nella concessione di licenze curando nel contempo che le truppe di prima linea godessero, nelle pause tra un combattimento e l’altro, di turni di autentico riposo nelle retrovie. Tutte le misure elencate si dimostrarono lungimiranti, rinsaldando il morale dei nostri fanti il che permise loro di sopportare un altro, durissimo, anno di guerra.

Nelle settimane che seguirono la ritirata sul Piave l’esercito italiano venne così ricostruito quasi da zero a partire dalle appena 33 divisioni ancora erano in grado di combattere, pari a la metà di quelle disponibili prima di Caporetto. Allo scopo di rimpinguare i ranghi, il comando italiano procedette da una parte a riarmare gli sbandati e dall’altra ordinando la coscrizione dei diciottenni, i celeberrimi “Ragazzi del ’99”, il cui apporto, unito all’esperienza dei veterani, si dimostrò fondamentale per gli esiti della guerra. Entro il febbraio del 1918 il Regio Esercito poteva così mettere in campo altre 25 divisioni. Il riarmo italiano fu inoltre reso possibile grazie allo sforzo titanico degli operai delle industrie belliche, che nei mesi tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918, lavorando a ritmi estenuanti produssero migliaia di cannoni, mitragliatrici e autoblindo, oltre a un numero incalcolabile di proiettili e munizioni. Da ultimo non bisogna dimenticare il sostegno ricevuto dai nostri alleati nel difficile frangente della ritirata sul Piave: agli inizi del dicembre 1917 giunsero in Italia sei divisioni francesi e cinque britanniche con artiglieria e unità di supporto (in tutto circa 130 mila francesi e 110 mila inglesi) e, sebbene non entrate subito in azione, funsero da riserva strategica permettendo al Regio Esercito di concentrare le proprie truppe in prima linea.

Tuttavia l’esercito italiano non andava ricostruito solo dal punto di vista materiale: come abbiamo già accennato dopo la ritirata sul Piave il morale delle nostre truppe era a pezzi. Era quindi essenziale per le sorti del conflitto che i nostri soldati ritrovassero la voglia di battersi. La diffusione della propaganda bellica presso le truppe fu favorita dalla mutata natura della guerra, da offensiva a difensiva: ora non si trattava più di avanzare in terra slava per conquistare paesi dal nome sconosciuto ma di difendere lo stesso territorio nazionale dal nemico invasore, che andava cacciato dalle province che aveva occupato.
Dopo Caporetto il comando supremo intuì l’importanza della propaganda tanto che nacque un apposito ufficio in seno allo stato maggiore denominato “Servizio P”. Si trattava di una novità assoluta per un esercito antiquato come il nostro, nel quale nessun comandante in fondo si era mai preoccupato di cosa pensassero i propri uomini a proposito della guerra. Lo stesso Cadorna, dall’alto della sua concezione sacerdotale del dovere, riteneva che i soldati non fossero esseri pensanti ma quasi dei robot, ai quali si doveva richiedere solamente la più pronta e cieca obbedienza.

Nel nuovo clima di maggiore ascolto ai bisogni dei militari nacquero allora opuscoli e fogli stampati. Alla creazione di questi giornali di trincea, non a caso oggetto ancora oggi di un fiorente collezionismo, collaborarono alcuni fra i maggiori esponenti della cultura e del giornalismo nostrani di allora, come Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Ungaretti e Gaetano Salvemini, allora giovani intellettuali sotto le armi. Pubblicazioni come “La Ghirba”, “La Tradotta”, “Coscritto ascolta!”, circolavano in gran numero tra i soldati, i quali finalmente trovarono in questi fogli una visione della guerra vicina alla loro, ben lontana dalla retorica dei giornali ufficiali. Infine, l’esperienza dei giornali di trincea si rivelerà una “palestra” molto importante per decine di giornalisti e illustratori del Corriere della Sera, della Domenica del Corriere e del Corriere dei Piccoli.

Con l’arrivo del 1918 i tedeschi, in previsione della progettata offensiva di primavera sul fronte occidentale, imposero agli austro-ungarici un nuovo attacco sul fronte italiano. La situazione degli Imperi centrali sul piano dei rifornimenti, sia alimentari sia di materie prime, era però sempre più precaria. In particolare le forze imperial-regie erano allo stremo dopo il grande sforzo militare e logistico di Caporetto, che non aveva prodotto l’auspicata resa dell’esercito italiano: le divisioni austro-ungariche schierate lungo il Piave erano gravemente sotto organico, coi ranghi zeppi di reclute diciassettenni o di anziani mentre il tracollo della produzione industriale aveva iniziato a riflettersi negativamente sulle dotazioni di armi ed equipaggiamenti.
Malgrado le carenze l’offensiva venne preparata con grande cura dal comando austro-ungarico, che vi impiegò tutte le forze disponibile pari a ben 58 divisioni, comprese quelle della Landwehr, ossia la riserva, per un totale di 946 mila uomini e 6.800 pezzi d’artiglieria. Nonostante le privazioni materiali il morale dell’esercito asburgico sembrava ancora alto e la fiducia negli esiti dell’azione elevata. L’obiettivo strategico era di sfondare e raggiungere la fertile pianura padana, impossessandosi delle scorte italiane, per costringere il nemico all’armistizio e liberare forze da concentrare in un secondo momento sul fronte franco-tedesco.

Il piano austriaco però finì per soffrire degli scontri personali e ideologici tra i due capi austroungarici, Conrad von Hötzendorf, al comando del settore trentino, che riteneva più vantaggioso che l’offensiva si sviluppasse sul Grappa, e il Feldmaresciallo Svetozar Borojević, il quale affermava fosse più saggio puntare sull’isola Grave di Papadopoli, alle foci del Piave. Per accontentare i due ufficiali, si decise di autorizzare l’attacco da entrambi i settori, diluendo le forze lungo tutto il fronte. L’attacco avrebbe avuto tre direttrici principali: ad un’azione diversiva iniziale sul Passo del Tonale – nome in codice operazione Lawine (valanga) – ne sarebbero seguite altre due condotte rispettivamente dalle armate 10° e 11° di Conrad dall’altopiano di Asiago verso Vicenza (operazione Radetzky) e dalle armate 5° e 6° di Boroević attraverso il Piave verso Treviso (operazione Albrecht). Esse avrebbero costituito i bracci di una tenaglia che si sarebbe dovuta chiudere nella zona di Padova.
I preparativi austriaci non sfuggirono ai comandi italiani, i quali cominciarono a sospettare un attacco imminente da parte del nemico. Questi timori furono confermati da quanto riferito dai numerosi disertori di nazionalità non tedesca dell’esercito imperial-regio. Questa volta però, a differenza di quanto aveva fatto Cadorna alla vigilia di Caporetto, Diaz prestò ascolto ai rapporti dell’intelligence militare e prese le opportune contromisure, ordinando di rafforzare lo schieramento difensivo, decisione dimostratasi saggia e vincente.

L’offensiva austroungarica scattò all’alba del 15 giugno 1918. Inizialmente il tentativo di sfondamento delle linee italiane ebbe successo: il 24° corpo d’armata riuscì a passare il Piave giungendo alle pendici del Montello, il 23° corpo arrivò sino a Meolo, alle porte di Venezia, mentre il 4° e il 7° raggiunsero Fagarè, Zenson e Candelù. Tuttavia gli austriaci, privi di rifornimenti e impossibilitati a manovrare a causa della piena del Piave, non furono in grado di dare seguito ai successi iniziali. Il 20 gli italiani diedero il via al contrattacco respingendo definitivamente il nemico che il 23 fu costretto a ritirarsi oltre il Piave. La seconda battaglia del Piave, o “Battaglia del Solstizio”, come fu ribattezzata da Gabriele D’annunzio, era stata alfine vinta. A determinare il fallimento austro-ungarico fu la sostanziale mancanza di una chiara superiorità tattica da parte imperiale unita alla ritrovata combattività dell’esercito italiano, ormai ripresosi completamente dal punto di vista fisico e morale dalla disfatta di Caporetto.
Dopo la batosta subita l’Austria non avrebbe mai più organizzato offensive. Ormai l’impero asburgico aveva esaurito tutte le energie disponibili. Nella stessa Vienna la popolazione moriva letteralmente di fame per le strade. In quell’estate del 1918 cominciò a diffondersi la sensazione che in tutto il mondo quella guerra feroce potesse finalmente avere una conclusione: all’inizio di agosto l’avanzata tedesca fu, seppur con grande sforzo, arrestata dagli alleati, i quali contrattaccarono, supportati dai notevoli rinforzi inviati in Europa dagli americani.

I tedeschi cominciarono pian piano a indietreggiare verso la loro frontiera mentre in Germania ci si iniziò a rendere conto che la guerra era perduta. Negli stessi mesi, a partire dal 19 settembre, i britannici, dopo la presa di Gerusalemme alla fine del 1917, ripresero la loro avanzata sul fronte siro-palestinese coadiuvati dai ribelli arabi inquadrati dal colonnello Thomas Edward Lawrence (il celebre “Lawrence d’Arabia”). I turchi ottomani furono così progressivamente ricacciati verso l’Anatolia mentre le truppe di Sua Maestà entravano trionfalmente a Damasco (2 ottobre) e ad Aleppo (25 ottobre). Infine, quasi a chiudere l’assedio dell’Intesa agli Imperi centrali e ai loro alleati, la cosiddetta Armata d’Oriente, composta da contingenti inglesi, francesi, italiani, serbi e greci cominciò un’inesorabile avanzata da Salonicco verso nord, mettendo alle corde la Bulgaria (arresasi il 29 settembre) e la Turchia, che cedette il 30 ottobre. Le truppe dell’Intesa liberarono così anche la Serbia, arrivando a minacciare l’impero asburgico da sud.

Data la piega che stavano rapidamente assumendo gli eventi bellici, il governo italiano non poteva permettersi di avere ancora il nemico in casa al sopraggiungere della fine delle ostilità, in quanto ciò avrebbe avuto gravi ripercussioni a livello diplomatico, compromettendo il potere negoziale dei delegati italiani alla futura conferenza di pace. Pertanto il Presidente del Consiglio Orlando e il Ministro degli Esteri Sonnino e con loro gli alti comandi alleati, sollecitarono ripetutamente Diaz perché desse inizio all’attacco risolutivo e il generale dovette piegarsi. Il piano italiano fu pronto per il 9 ottobre e i primi ordini operativi raggiunsero i comandi il 12 ottobre.
L’attacco italiano, inizialmente previsto per il 16 ottobre, fu rimandato a causa della piena del Piave, scattando il 24, anniversario dello sfondamento di Caporetto: tre armate, la 12°, la 10° e l’8°, avrebbero impegnato il nemico lungo il Piave, mentre la 4° sarebbe entrata in azione sul Monte Grappa. Gli italiani passarono il Piave il 27 ottobre, entrando a Vittorio Veneto il 30.
Nei giorni successivi furono liberate anche Feltre e Belluno. Intanto l’esercito austroungarico si liquefaceva, con i reparti slavi e ungheresi, che disertavano in massa. Il secolare Impero degli Asburgo era ormai giunto al capolinea: i cechi e gli slovacchi proclamarono l’indipendenza e lo stesso fecero gli slavi meridionali dell’impero, che già vagheggiavano di unirsi nel nuovo Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, la futura Jugoslavia. Nella stessa Vienna, mentre scioperi e manifestazioni agitavano la capitale, l’imperatore Carlo I (succeduto nel 1916 all’ottantaseienne Francesco Giuseppe) fu forzato ad abdicare. La Duplice Monarchia asburgica tramontava per sempre.
L’armistizio fra Italia e Austria fu siglato alle 15 del 3 novembre 1918 presso Villa Giusti, nei dintorni di Padova. Firmarono Von Webenau per l’Austria e Badoglio, vice di Diaz, per l’Italia. Una clausola dell’accordo tuttavia ne stabiliva l’entrata in vigore solo dopo 24 ore, nel pomeriggio del 4 novembre, per dare tempo alle nostre truppe di entrare a Trento e alla Regia Marina di sbarcare un contingente a Trieste. Era infatti vitale per noi che le nostre truppe fossero giunte nei territori promessi dal Patto di Londra, al fine di rafforzare le nostre posizioni al tavolo della pace.

Terminava così per l’Italia la Grande Guerra, chiusasi definitivamente una settimana più tardi con la resa tedesca e la firma dell’armistizio di Compiègne dell’11 novembre. Quello stesso 4 novembre venne diramato dal Comando Supremo alle ore 12 il bollettino n. 1268, conosciuto come “Bollettino della Vittoria”. In esso si annunciava la vittoria della guerra contro l’Austria e l’annientamento dell’esercito nemico:
“[…] L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni.I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono ora in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.” 4 novembre 1918 Firmato Diaz
Alla bellissima ed ardua sintesi storica alla quale vanno i miei complimenti, manca l’essenziale ruolo svolto da BADOGLIO!
Non scriverò molto per integrare il riassunto effettuato dall’Autore ma è necessario aggiungere che la figura e opera di Badoglio furono essenziali per il conseguimento della vittori:
1 Badoglio prima della ritirata sul Piave ebbe ben 3 promozioni per merito di guerra.
2 le vittorie conseguite da Badoglio sul Sabotino furono le uniche di cui ci si poté vantare sull’Isonzo. Tanto vero che nel ’35 fu insignito del titolo di marchese di Sabotino.
3 le promozioni gli valsero il grado di generale di corpo d’ armata. Infatti comando’ il XXVIIcorpo d’armata non riportato nella prima cartina geografica.
4 le capacità organizzative e militari come artigliere gli permisero di essere chiamato da Diaz a far parte del suo entourage. Insieme al colonnello Cavallero riorganizzo’ totalmente l’esercito sconfitto di Caporetto, riforni’ le truppe sbandate delle armi ( cannoni e bombarde) perdute in quantita’ enorme nella rotta di Caporetto, provvide a pianificare con Cavallero lo sfondamento delle nostre truppe a vittorio veneto.
5 Gli storici (Pieri-Rochat) indicano in lui il vero artefice del ricostituito esercito e in Diaz il referente nei rapporti con il governo di Roma.
6 Come fa il lettore senza le sudette considerazioni a comprendere come mai il Badoglio ebbe l’incarico di stilare i termini dell’armistizio con gli austro-ungarici a villa Giusti?
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