“Che t’importa il mio nome?
Grida al vento:
Fante d’Italia!
E dormirò contento.”
Dalla lapide di un soldato ignoto nel Cimitero degli Invitti di Redipuglia
Alle 8.30 del mattino di venerdì 4 novembre 1921, terzo anniversario della vittoria italiana nella prima guerra mondiale, un lungo corteo funebre prese avvio dalla basilica romana di Santa Maria degli Angeli diretto al Vittoriano, in Piazza Venezia. Davanti al feretro, in testa alla processione vi erano i rappresentanti delle varie armi di Esercito, Marina, Guardia di Finanza e Guardia di Pubblica Sicurezza. Seguivano dieci madri di caduti e dieci vedove di guerra oltre a delegazioni di ex combattimenti, di feriti e di mutilati.

La salma giunse all’Altare della Patria, dove ad attenderla si trovavano il Re Vittorio Emanuele III, la famiglia reale, il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi e le maggiori cariche dello stato. Finalmente alle 9.30 la bara, contenente le spoglie di un caduto senza nome, trovò sepoltura sotto la statua della Dea Roma accompagnata alla sua ultima dimora dagli onori militari. Così, attraverso le esequie di un solo caduto non identificato, si volle simbolicamente celebrare un funerale per gli oltre 650 mila militari italiani che tra il 1915 e il 1918 persero la vita nello sforzo compiuto per raggiungere le sospirate “frontiere naturali”.

Il Milite Ignoto riposa al Vittoriano da esattamente un secolo, silente testimone dei sacrifici compiuti dal nostro Paese nel corso del tempo. Ogni anno, indipendentemente dalle condizioni contingenti, il Presidente della Repubblica, in osservanza del suo ruolo di garante dell’unità nazionale, rende omaggio al caduto senza nome. Tutti abbiamo ancora in mente l’immagine del Presidente Mattarella che nel pieno del lockdown, il 25 aprile 2020, compì la sua visita in una Roma deserta, facendosi rappresentante dell’intero popolo italiano, impegnato a fronteggiare la sfida del coronavirus.

Ma perché in Italia, come già in altri Paesi che avevano preso parte al conflitto, si scelse di onorare proprio un soldato senza nome? Per capirlo dobbiamo innanzitutto comprendere cosa rappresentò il primo conflitto mondiale per gli uomini e le nazioni da esso coinvolti. La prima guerra mondiale fu il conflitto più distruttivo mai combattuto fino a quel momento tanto che i contemporanei la ribattezzarono la “Grande Guerra”. Scoppiata nell’estate del 1914 come guerra europea, essa finì progressivamente per coinvolgere non solo le colonie africane e asiatiche degli stessi belligeranti ma anche nazioni extraeuropee come Stati Uniti e Giappone. Le operazioni militari finirono così per interessare non solo il Vecchio Continente ma anche teatri da esso molto distanti come l’Asia orientale, l’Africa o il Medio Oriente.

In secondo luogo non possiamo dimenticare le conseguenze sociali della prima guerra mondiale, che rappresenta indiscutibilmente il primo esempio di guerra “moderna” ed “industriale” della storia umana. Attraverso il sistema della leva di massa i governi delle nazioni belligeranti furono in grado di mettere in campo armate di dimensioni mai viste (si consideri che sino a quel momento l’esercito più numeroso mai allestito era stato quello con cui Napoleone aveva invaso la Russia nel 1812 e che contava circa mezzo milione di soldati). Per anni decine di milioni di uomini avevano lottato e sofferto fianco a fianco condividendo i rischi della vita di trincea e sviluppando forti rapporti di cameratismo con i propri commilitoni.

Tuttavia la prima guerra mondiale presentò un carattere di novità rispetto ai conflitti passati in quanto per la prima volta cadde la distinzione fra militari e civili. Anche quanti rimasero a casa vennero in un certo senso mobilitati in funzione allo sforzo bellico. In proposito si ricorderà come per la prima volta si rese necessario il massiccio ricorso al lavoro femminile in tutti i settori per sopperire alla mancanza degli uomini, partiti per il fronte. Questa circostanza contribuì a imprimere una forte accelerazione al processo di emancipazione politica e sociale della donna iniziato già alla fine del XIX secolo.
Ma la distinzione tra militari e civili venne meno anche per un altro, ben più drammatico fattore. Per la mentalità tradizionale, la guerra era concepita essenzialmente come uno scontro tra uomini in uniforme, sui quali ricadevano interamente i rischi derivanti dal combattimento. Sempre in base alla concezione ottocentesca della guerra i civili subivano raramente le conseguenze delle operazioni militari unicamente in caso di avanzata dell’esercito invasore. Solo allora si concretizzava il pericolo dei saccheggi, delle rapine e degli stupri commessi dai soldati ai danni della popolazione inerme.

Questo si verificò anche nel 1914-18 a quanti ebbero la sfortuna di trovarsi ad abitare nelle province in prossimità del fronte. Per quanto riguarda il caso italiano solo in Trentino furono 70 mila i civili costretti a sfollare in seguito allo scoppio delle ostilità con l’Austria e ancora di più, circa 270 mila, furono i friulani che fuggirono di fronte all’avanzata austro-tedesca dopo lo sfondamento di Caporetto, nell’ottobre del 1917.
Pertanto, a partire dalla Grande Guerra, emerse drammaticamente la natura “totale” della guerra moderna che cancella il limite tra fronte e retrovie. A partire dalle prime incursioni dei dirigibili tedeschi Zeppelin su Londra iniziò infatti a materializzarsi l’incubo dei bombardamenti aerei, che nelle guerre successive avrebbero continuato a mostrare la loro devastante efficacia fino a far balenare, nell’agosto del 1945, la minaccia della distruzione totale nucleare. A fronte di quanto riportato si comprende come l’enormità dei sacrifici sopportati e delle differenze patite abbiano influito sull’elaborazione della memoria individuale e collettiva.

I reduci, ma soprattutto i caduti, vennero presentati all’opinione pubblica dalla propaganda ufficiale come eroi. Nacque così il mito del combattente, descritto come un individuo coraggioso, pronto al sacrificio della vita in nome della patria. La glorificazione dei soldati semplici rappresenta un’altra delle novità della prima guerra mondiale. Fino a quel momento, infatti, il privilegio di essere ricordati e onorati era stato riservato unicamente ai condottieri mentre per i soldati esistevano i cimiteri di guerra quando i loro corpi non finivano in semplici fosse comuni. La pratica di dedicare un sepolcro ad un soldato senza nome si dovette anche al fatto che la Grande Guerra fu un conflitto in cui il numero di corpi non identificati fu enorme.

Ciò era dovuto al fatto che i sistemi utilizzati per il riconoscimento dei militari erano ancora piuttosto rudimentali. All’interno dell’esercito italiano, per esempio, i soldati portavano appeso al collo un piccolo astuccio metallico contenente un cartiglio con i dati anagrafici del militare. Tuttavia non sempre i soldati rispettavano l’ordine di portare con sé la piastrina senza contare che le informazioni, scritte su un materiale deperibile come la carta, finivano spesso per deteriorarsi diventando illeggibili.
In Italia la proposta di dedicare un sepolcro al Milite Ignoto era stata avanzata dal colonnello Giulio Douhet, un brillante ufficiale che durante il conflitto aveva avuto forti contrasti con il Generalissimo Cadorna, pagando la sua insubordinazione con un anno di prigione al forte di Fenestrelle. Egli perciò intendeva la realizzazione della tomba del soldato ignoto come un simbolo della vittoria ottenuta malgrado l’incapacità dei dirigenti politici e militari.

Il disegno di legge per la «Sepoltura della salma di un soldato ignoto» fu presentato alla Camera il 20 giugno 1921 dal Ministro della Guerra Giulio Rodinò, dal Ministro delle Finanze Ivanoe Bonomi e dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, in quel momento Ministro dell’Interno ad interim. Pochi giorni dopo, il 27 giugno, il Governo, l’ultimo presieduto dallo statista di Dronero, si dimise a causa dell’esigua minoranza ottenuta nelle elezioni svoltesi a maggio.
Il giorno successivo alle dimissioni del governo il deputato fascista nonché futuro quadrumviro della marcia su Roma, Cesare Maria de Vecchi, fu relatore della legge alla commissione “Esercito e Marina Militare” della Camera. In seguito la legge venne approvata con un iter parlamentare rapidissimo. Il disegno di legge fu infatti inserito all’ordine del giorno per la discussione il 4 agosto 1921 ma il nuovo Ministro della Guerra, Luigi Gasparotto, chiese e ottenne che non si tenesse alcun dibattito per evitare interventi antimilitaristi. A seguito della votazione il testo passò con 199 favorevoli e 35 contrari. Il 6 agosto il disegno di legge approdò in Senato dove venne approvato ancora una volta con una larga maggioranza il 10 agosto. Firmato dal Re il giorno successivo, il testo venne pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 agosto.

In base alla legge si stabiliva che il Milite Ignoto avrebbe trovato sepoltura non nel Pantheon, come inizialmente progettato, ma all’Altare della Patria, sotto la statua della Dea Roma. La cerimonia della sepoltura avrebbe avuto luogo il 4 novembre 1921, terzo anniversario della vittoria, poi dichiarato giorno festivo con Regio Decreto del 28 ottobre. Il 20 agosto il Ministero della Guerra, incaricato dell’esecuzione della legge, nominò una commissione speciale presieduta dal tenente generale Giuseppe Paolini, ispettore per le onoranze ai caduti di guerra, con l’incarico di individuare le salme di undici caduti al fronte, privi di qualsiasi segno di riconoscimento, operazione che fu completata nell’ottobre successivo. I corpi furono prelevati da undici diverse zone del fronte, come l’Ortigara, il Grappa o il Pasubio, luoghi a cui sono ancora oggi intitolate decine di strade nelle nostre città.

Secondo le istruzioni del Ministero le undici bare, identiche per forma e per dimensioni, furono riunite nella basilica di Aquileia. In rappresentanza di tutte le madri che avevano perso un figlio in guerra, il doloroso compito di selezionare quale di queste salme sarebbe stata tumulata all’Altare della Patria fu assegnato alla signora Maria Maddalena Blasizza, di Gradisca d’Isonzo, città che all’inizio del conflitto si trovava ancora sotto dominio austroungarico. Proprio per questo motivo il figlio della signora Blasizza, l’irredentista Antonio Bergamas, allo scoppio delle ostilità era fuggito in Italia arruolandosi volontario sotto falso nome nel 137º reggimento di fanteria della Brigata Barletta. Proprio vestendo la divisa italiana, il 18 giugno 1916, nel corso della Strafexpedition, mentre conduceva un attacco assieme al suo reparto alle falde del monte Cimone di Tonezza, il venticinquenne sottotenente Bergamas venne raggiunto e fulminato da una scarica di mitragliatrice. La sua salma venne sepolta assieme ai commilitoni caduti con lui nel cimitero militare di Marcesina, sull’Altopiano dei Sette comuni. Tuttavia, a seguito di un violento bombardamento che distrusse il cimitero, Bergamas e i compagni periti con lui risultarono ufficialmente dispersi.

La scelta della salma del Milite Ignoto avvenne il 28 ottobre 1921 alle ore 11, alla presenza di rappresentanti delle istituzioni e di associazioni di mutilati, ex combattenti e di madri e di vedove di caduti. Entrata nella basilica di Aquileia e posta di fronte alle undici bare allineate, Maria Bergamas, dopo essere passata davanti alle prime, non riuscì a proseguire nella ricognizione e si accasciò al suolo invocando disperata il nome del figlio davanti alla decima cassa, sulla quale pertanto cadde la scelta.

Quello stesso giorno la bara contenente le spoglie del soldatino ignoto venne collocata su un vagone speciale. Esso riportava su un lato le date MCMXV-MCMXVIII e sull’altro una citazione tratta dal Canto IV dell’Inferno dantesco “L’ombra sua torna ch’era dipartita”. Alle otto di mattina del giorno seguente ebbe inizio il mesto viaggio verso Roma. Il convoglio si componeva di altri quindici carri per raccogliere le corone di fiori oltre alle carrozze destinate alla scorta d’onore. Il treno si sarebbe fermato cinque minuti ad ogni stazione sul percorso per dare modo ai cittadini di rendere omaggio al caduto ignoto. Il Ministero della Guerra aveva ordinato il più rigoroso silenzio durante il passaggio del convoglio, vietando qualsiasi discorso pubblico ma concedendo che all’arrivo del treno potesse essere suonata una volta soltanto La leggenda del Piave. Le foto e i filmati del viaggio del treno ancora oggi disponibili mostrano ali di folla inginocchiarsi al passaggio del treno, lanci di fiori da parte di donne e bambini, il saluto militare da parte di rappresentanze delle forze armate e di ex combattenti e la benedizione della salma da parte di autorità religiose locali.

La mattina del 2 novembre, quando la bara del Milite Ignoto giunse alla stazione di Roma Termini, fu accolta dal Re e dalla famiglia reale, assieme a bandiere, stendardi e labari dell’Esercito, della Marina e della Guardia di Finanza. Erano presenti anche numerosi generali e comandanti militari delle varie Armi, assieme a diverse alte cariche dello Stato, decorati con medaglia d’oro e rappresentanti di mutilati e madri e vedove di caduti. Caricata su un affusto di cannone, la salma fu trasportata presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli. In Piazza Esedra (attuale Piazza della Repubblica) la bara ricevette la benedizione di monsignor Angelo Bartolomasi, primo vescovo castrense dell’Esercito Italiano, per poi essere portata a spalla all’interno della basilica dove, vegliata da un picchetto d’onore, rimase per ricevere l’omaggio dei cittadini, sino alla mattina del 4 novembre, quando fu solennemente avviata alla sua ultima, definitiva dimora.

«Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria.»
Nonostante “l’operazione Milite Ignoto” fosse stata concepita allo scopo di rafforzare la concordia e l’unità nazionale, essa non mancò ugualmente di suscitare vivaci contestazioni. I principali critici della commemorazione furono i socialisti, peraltro già contrari nel 1915 all’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale. Alla visione del Milite Ignoto come eroe guerriero essi opponevano quella del soldato senza nome figlio del proletariato “martire della più grande carneficina contemporanea” divenuto strumento di propaganda di una classe dirigente fautrice di nuove guerre. Anche i repubblicani e gli anarchici si astennero dal partecipare mentre gli Arditi del Popolo – organizzazione paramilitare di estrema sinistra – e gli ex legionari fiumani resero omaggio alla tomba del Soldato Ignoto dopo la conclusione delle cerimonie ufficiali. Oggetto di polemiche fu anche l’assenza del generale Luigi Cadorna. Invitato alle celebrazioni dal Ministro della Guerra Gasparotto, egli infatti rifiutò di presenziare alla cerimonia non volendo apparire in secondo piano rispetto ai suoi subordinati di un tempo.

Infine, l’anno successivo, al termine della Marcia su Roma compiuta il 28 ottobre 1922 dalle sue squadracce di camicie nere, Benito Mussolini venne chiamato dal Re alla guida del Governo. Per usare le sue stesse parole, con Mussolini approdò al Governo “l’Italia di Vittorio Veneto”. Fu allora che il Milite Ignoto divenne uno dei simboli principali della propaganda fascista, come testimoniato dalla partecipazione dello stesso Mussolini alla celebrazione del quarto anniversario della Vittoria nella nuova veste di Presidente del Consiglio. Più in generale il fascismo e il suo Duce si impadronirono, monopolizzandoli, del mito della Grande Guerra, la cui memoria venne cristallizzata attraverso una serie di rituali quali parate militari e deposizioni rituali di corone di fiori accompagnate da un grande sfoggio di retorica volta a elogiare il sacrificio del sangue in nome della Patria. Questa espressione del mito della Patria in armi, più che pacificare gli animi in lutto, più che conservare memoria del passato comune, congelò nel freddo simbolismo marmoreo ogni spirito critico verso quell’evento catastrofico della storia collettiva coeva. E, tragicamente, di quella di là a venire.