Può un personaggio storico riunire apparentemente in sé l’apoteosi di un impero millenario ma anche mostrare una serie di elementi precorritori di trasformazioni cardine dei secoli successivi? Quest’apparente contraddizione, che può apparire più coerente in quei principi sfarzosi da ultimo canto del cigno, si sviluppa però anche in figure che appaiono e sono più solide ed emblematiche di una vera età dell’oro. Se questa condizione è solitamente meno nota per la poca fortuna o nomea pubblica di questi governanti, a volta essa va a toccare anche personaggi di spicco. Tra questi uno degli imperatori per eccellenza, inserito ed emblema del principato adottivo romano del II secolo d. C., famoso sia come generale ma anche come erede politico della grande tradizione filosofica stoica, in poche parole Marco Aurelio, imperatore romano tra il 161 e il 180 d. C., di cui quest’anno si festeggiano i 1900 anni dalla nascita.
Questa condizione che plasma, anche se spesso indipendentemente dal suo agire, la vita e il governo dell’ultimo esponente del principato adottivo, si materializza e si esplicita nella realizzazione di opere d’arte di tutti i generi che l’imperatore fece costruire o che, dopo la sua morte, il figlio Commodo volle dedicare al genitore. Un’ importanza che, in taluni casi, è spesso sottovalutata, sia per la notorietà di cui godono, con il seguente appiattimento entro un’immagine generica, oppure perché, anche grazie al loro sopravvivere entro gli spazi urbani che le hanno viste nascere, assumono una posizione di prospettiva quotidiana, a fianco dei quali si passa senza pensarci o che scorrono sugli schermi dei telegiornali. Questo panorama ha molti protagonisti, alcuni ancora oggi percepibili nella loro interezza, altri più frammentari che danno testimonianza di edifici che si conoscono solo attraverso l’archeologia. Tra di essi da un lato il monumento equestre, uno dei pochi resti bronzei dell’antichità, risalente al 176-180 d.C. e donato al Comune di Roma da papa Paolo III, dall’altro i fregi di Marco Aurelio, forse parte di uno degli archi di trionfo fatti costruire a Roma per esaltare le vittorie nel profondo nord, in parte oggi nel palazzo dei Conservatori, in parte recuperati e riutilizzati da Costantino per il suo arco.
Tra di essi però troneggia un monumento in particolare, ancora oggi collocato nel suo luogo d’origine e noto quasi a tutti, anche grazie al fatto di essere posto in uno dei cuori della vita politica della Repubblica Italiana, nei pressi del palazzo di Montecitorio, sede della Camera dei deputati, di fronte a Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio. Tale gigante è la Colonna di Marco Aurelio, meglio nota come Colonna Antonina. La storia della Colonna è abbastanza nota, seppur alcuni aspetti riguardo ad essa e riguardo al suo contesto sono ancora da studiare, anche per la presenza di edifici posteriori che complicano le indagini archeologiche.
Un primo elemento per la comprensione della Colonna è la sua collocazione topografica, posta all’interno del Campo Marzio. Tale ambiente, che si identifica in età antica come l’intera ansa del Tevere dove sorge la Roma medioevale e moderna, tra il Campidoglio e Porta Flaminia, fu sin dall’epoca regia e repubblicana fu un luogo importante, seppur soggetto alle inondazioni periodiche del Tevere ed escluso dal circuito delle mura urbane, all’epoca corrispondenti alla cinta severiana. Tale centralità era legata in particolare alla sua posizione e alla sua natura pianeggiante e spaziosa, poco percepibile oggi nel groviglio urbano medioevale. Tali caratteristiche permettevano in particolare di avere un’ampia pianura vergine e soprattutto un’area non soggetta alle limitazioni sacrali che caratterizzavano il pomerio urbico.

Utilizzata inizialmente per il raduno e l’addestramento delle truppe, e dedicata per questo al dio Marte, essa mantenne col tempo questo legame, spostandolo però sul tema dei trionfi dei generali vittoriosi. Il Campo Marzio divenne infatti il luogo, direttamente collegato alla via Flaminia proveniente da nord, dove i generali romani scioglievano i loro eserciti e da dove avevano inizio i cortei dei trionfi. Essi, infatti, sopra una quadriga e accompagnati dalle proprie truppe, dai prigionieri e dai tesori ottenuti dalle campagne vittoriose, percorrevano l’attuale via del Corso(detta via Lata) fino ad arrivare al Circo Flaminio, passato il quale entravano in città attraverso la Porta Triumphalis, accesso che portava direttamente all’ascensione al Campidoglio, sede della massima glorificazione nel tempio di Giove Ottimo Massimo. Tale tradizione, sin dalla tarda età repubblica, aveva spinto a voler costruire in quest’area tutta una serie di edifici di utilità diversa, ma che con la loro presenza potessero esaltare il loro finanziatore e renderlo immortale di fronte al popolo. Tale presupposto permise infatti la costruzione innanzitutto grandi complessi templari, legati anche a culti stranieri, come quello di Iside, ma anche a porre qui quelle strutture stabili per spettacoli, di tradizione greca, che per necessità di spazio ma anche per una certa preclusione religiosa non potevano essere edificati entro le mura. Tra di essi, nati qui anche come luoghi per i ludi connessi ai trionfi, anche forme ibride, come il teatro di Pompeo, metà tempio e metà teatro.
Questa tradizione si perpetuò anche e soprattutto in età imperiale, mutuata proprio dal fatto che lo spazio garantiva possibilità costruttive anche in chiave monumentale. Al profilo tradizionale, ben esplicitabile attraverso il Pantheon di età augustea, dai teatri di Marcello e Balbo, così come ai grandi edifici termali di Agrippa e Nerone, si unì però una funzione ulteriore, che mescolava politica e memoria. Essa era legata al ricordo mortuario dei diversi imperatori, associati alla loro sepoltura, da cui si sviluppavano veri e propri programmi architettonici, spesso portatori di idee che rappresentavano il pensiero dello stesso regnante. Il più significativo fu in particolare il programma augustea nel settore settentrionale dove, accanto al Mausoleo del primo imperatore, vero e proprio pantheon della famiglia Giulio Claudia, venne costruita una gigantesca meridiana con obelisco connessa direttamente con il suo testamento scolpito, ossia l’Ara Pacis Divi Augusti. Questa pratica era legata, oltre all’alto rilievo simbolico che questo aveva in una zona molto trafficata della città, anche alla pratica, dettata anch’essa dalle leggi del pomerio, di associarsi alla collocazione, nel Campo Marzio, degli ostrina, ossia le pire funebri dei defunti celebri, la cui presenza era preclusa nello spazio sacrale urbano.

Il legame costruito con i Giulio Claudi ebbe conseguenze anche nelle dinastie successive, come tra i Flavi, per i quali Domiziano costruì il suo Odeon, teatro coperto, e lo Stadio, oggi Piazza Navona, ma anche il Principato adottivo, in particolare da Adriano in poi. Proprio a questo frangente fa riferimento la Colonna Antonina. Adriano, infatti, intervenne pesantemente su quest’area, con il restauro del Pantheon nelle forme attuali, ma anche con la costruzione di un grande complesso, costruito come alcuni santuari ellenistici con il tempio posto al centro di due ali porticate, dedicato a Salonina Matidia e alla madre Ulpia Marciana, rispettivamente madre e nonna della moglie Vibia Sabina, divinizzate dallo stesso imperatore pochi anni prima. Tale scelta inusuale ha però un significato preciso, ossia quello di sottolineare il legame successorio di Adriano con Traiano, di cui Ulpia era sorella. La scelta di Adriano non cade però nel vuoto, seguita alla sua morte da un tempio dedicato proprio a lui divinizzato, fatto costruire dal suo successore Tito Antonino, con una corte qui chiusa su tutti i lati e un tempio su un alto podio in piperino, fusione tra tradizione romana ed ellenismo microasiatico. Il testimone passò quindi ai due figli adottivi, Marco Aurelio e Lucio Vero, ai quali non si deve un progetto così maestoso seppur significativo, ossia la costruzione del grande ustrinum monumentale in pietra dedicato ad Antonino e alla moglie Faustina maggiore, accompagnato da una grande colonna monumentale, con un basamento scolpito, qui modellata come un colossale fusto in granito rosso egiziano e conclusa in alto con una statua bronzea dell’imperatore.

Lo sviluppo e la vita dell’imperatore filosofo diedero quindi origine al contesto entro cui si inserisce la Colonna Antonina. A nord del complesso dedicato ad Adriano, infatti, probabilmente Marco Aurelio volle costruire un complesso analogo, seppur di dimensioni più modeste. Tale analogia è interessante anche per il rapporto che entrambe le piazze hanno con la via Lata, ossia il tratto urbano della via Flaminia, che corrisponde oggi con via del Corso. Se nel primo caso il tempio del divo Adriano era chiuso su tutti lati ma collegato con la via attraverso un corso preferenziale che si concludeva in un arco di trionfo, in quello aureliano la piazza aveva portici solo sui lati lunghi, aprendosi totalmente sulla grande via cerimoniale. A sottolineare tale legame le fonti parlano di un arco trionfale, forse quello da cui derivano i pannelli costantiniani, che si sarebbe trovato in quest’area, probabilmente proprio a cavallo della via, come una grandiosa porta monumentale. Le dimensioni della piazza rispecchierebbero quelle oggi di Piazza Colonna, seppur tale luogo debba la sua conformazione attuale agli interventi cinquecenteschi di Sisto V e Domenico Fontana. A differenza di come la percepiamo oggi però il lato più importante, ove si trovava il tempio al Divo Marco e alla Diva Faustina Minore era quello oggi sulla via per Montecitorio, in corrispondenza di palazzo Wedekind, oggi sede del quotidiano Il Tempo con un portico di colonne provenienti dall’antica città di Veio. Di fronte al tempio e in asse con esso si trovava la Colonna.
Di questo progetto però Marco dovette vedere solo le basi, dato che le fonti tendono a datare il solo tempio al periodo precedente la morte dell’imperatore, grazie alla dedicazione a Faustina Minore, morta in circostanze ignote nel 175 d. C. La configurazione finale si deve invece a Commodo, cui si deve l’arco, l’ustrino a nord del complesso e soprattutto la Colonna, datata tra il 180 e il 193 d. C.

Il monumento nasce per volontà di Commodo per onorare e glorificare le imprese belliche di Marco Aurelio appena divinizzato, in particolare le lunghe campagne compiute dall’imperatore tra il 171 e il 175 tra il fronte reno- danubiano contro i germanici Quadi e Marcomanni e nel basso corso del Danubio contro i Sarmati. Queste campagne, concluse subito la morte di Marco proprio dal figlio con una pace frettolosa, sono rappresentate qui in modo cronologico, mescolando i due eventi così come si sono svolti. A fare da modello per il progetto sono proprio le colonne onorarie, ossia i monumenti spesso monolitici che rendevano gloria a generali e imperatori, e che svolgeranno questo ruolo fino alla piena età bizantina, all’epoca di Giustiniano e Marciano nel VI secolo d.C. A differenza di esempi greci e romani, così come la di poco precedente colonna di Antonino Pio, l’epoca del Principato adottivo sviluppò una nuova forma commemorativa, ossia quella delle colonne coclidi ossia letteralmente a spirale, un modello che verrà importato a Costantinopoli per la colonna dell’imperatore Arcadio agli inizi del V secolo. Grande modello e prototipo di queste colonne narrative era però la Colonna Traiana, che l’omonimo imperatore aveva posto al fondo del suo foro tra il 106 e 113 d.C.
Molti aspetti associano le due colonne romane, anche per il fatto che la seconda si sia dichiaratamente ispirata alla prima. Innanzitutto esse si caratterizzano per le medesime caratteristiche morfologiche. Le colonne rappresentano infatti due colossali colonne doriche, concluse in cima da un capitello e da ovuli dello stesso stile, su cui si trovava la statua bronzea dell’imperatore laureato. Il monumento però non era un gigantesco monolite, quanto un grande cilindro marmoreo entro cui scorre una scala a chiocciola, che prende aria e luce dalle aperture che caratterizzano la superficie, utilizzata si crede o per una parziale visione del monumento o più probabilmente come una struttura di servizio per compiere restauri. Le colonne inoltre, detta anche centenaria, perché alte esattamente cento piedi romani, corrispondenti a poco meno di trenta metri, si caratterizzano, come la maggior parte delle colonne antiche, per essere composte di rocchi, ossia di cilindri singoli, spesso sbozzati soltanto al momento dell’istallazione, uniti agli altri attraverso la gravità e perni di ferro al centro. Alla colonna corrispondeva poi uno zoccolo a toro, quasi una ciambella, e un basamento, che nel caso di quella di Marco Aurelio risulta più alto, di circa 4 metri e trenta. Questo luogo, punto d’inizio della scala interna, era fondamentale, in quanto in quella traianea esso funge anche da sepoltura monumentale, ospitando al suo interno le ceneri del sovrano. Nel caso di Marco invece le sue ceneri furono poste nel Mausoleo di Adriano, segno della continuità con lui.
Centro dell’attenzione delle colonne è però il fatto che esse sono ricoperte di un lungo fregio narrativo che, come un grande telo, si attorciglia intoro al suo centro. Ad oggi non si conosce da cosa derivi questo tipo di rappresentazione scultore, del tutto inesistente in queste forme in monumenti greci o romani precedenti. È però assai probabile che essi provengano da una lunga tradizione pittorica romana, in particolare legata alla cosiddetta pittura trionfale. Essa consisteva in particolare o in grandi pannelli narrativi dipinti ed esposti affiancati gli uni agli altri all’interno di sale come la Curia senatoriale, o invece a pannelli più piccoli che narravano non solo eventi bellici ma anche quadri urbani o geografici o episodi di genere che venivano portati dai soldati durante i cortei trionfali, necessari in questo caso per mostrare al popolo gli eventi e i luoghi coinvolti nella recente campagna vittoriosa. Si è pensato anche che, per la sua forma peculiare, esso potesse ricordare un particolare fregio dipinto che si era soliti arrotolare intorno ad un tubo portatile per venir poi srotolato in occasione della cerimonia.

Proprio nella narrazione e nell’impostazione del ciclo però distingue i due progetti romani. Un primo elemento fondamentale è la maggior altezza del ciclo aureliano, che porta ad un numero inferiore di avvolgimenti, circa 21, con la conseguenza di una minor lunghezza della narrazione ma anche di una maggior attenzione data alla visibilità e riconoscibilità delle scene se osservate dalla base. Tale carattere, che si può pensare per l’assenza, a differenza di quella traianea, di luoghi più alti per la contemplazione, nasconde probabilmente però un significato più profondo, ossia quello di una più diretta e pressante linea propagandistica, che permettesse a tutti i sudditi di aver piena comprensione del messaggio. La narrazione delle varie campagne si sviluppa entro 116 scene, 55 per la prima fase e 61 per la seconda, suddivise quasi metà della colonna da una vittoria associata a trofei panoplie, ossia fatti con raccolte di armi, in analogia con la colonna Traiana.
Come in questa la narrazione si evolve entro scene ricorrenti legati alla vita militare, come le marce, la costruzione dei castra, ossi degli accampamenti, scene di battaglia o di assedio, cui si uniscono scene di gruppo come lustratio, ossia purificazioni rituali precedenti un sacrificio, adlocutio, ossia i discorsi di incitamento alle truppe, consilium, ossia dibattito tra i generali o decursio, esercitazioni e giochi fatti dalla cavalleria. Molte sono le scene rivolte ai germani sconfitti, come episodi con captivi, ossia prigionieri in catene, legatio, ossia ambascerie da ambo le parti o deditio, ossia episodi di sottomissione di capi o gruppi di barbari, immagine della clementia dell’imperatore, ossia la sua magnanimità verso gli sconfitti e verso coloro che gli si sottomettono. La caratteristica di queste scene si allontana però dal loro prototipo traianeo per lo stile. Esse infatti presentano una maggiore sintesi narrativa, abbandonando l’attenzione agli aspetti di contesto naturali o di ambientazione e riproponendosi spesso in modo ripetitivo, ripetendo in modo standardizzato taluni avvenimenti, magari solo ruotandoli. A questo asciugare la narrazione fa seguito anche una visione meno fluida, dove, al raccolto quasi senza soluzione di continuità del fregio traianeo, si sostituisce una visione più per scene singole o piccoli gruppi, che spezzano la narrazione rendendola meno scorrevole. Questa ripetitività trova un po’ di varietà in alcune scene peculiari, anche perché sintomo del loro tempo. Esse infatti rappresentano episodi miracolosi, in cui divinità semi antropomorfe danno aiuto ai romani, come il miracolo del fulmine o quello della pioggia, laddove l’esercito di Marco Aurelio, bloccato in una radura assetato dalle truppe germaniche, riceve l’aiuto di Giove Pluvio che porta loro una fittissima pioggia che li disseta e investe come una mareggiata i loro nemici.
Queste richieste di aiuto divino, non rare neanche nella Colonna Traiana, sono qui però più esplicite, con una rappresentazione reale dell’intervento divino, un carattere che testimonia e dimostra la sempre maggiore spinta della cultura e della società verso la ricerca del dato irrazionale e mistico, una domanda che, nata da una sempre maggiore instabilità dei tempi, troverà una risposta nei culti misterici e orientali soprattutto dal secolo successivo.
Il segno del cambiamento della società si riscontra però anche in una prospettiva più generale che caratterizza la colonna. Grande importanza e centralità viene data in essa alla rappresentazione del potere, in particolare alla figura dell’imperatore, spesso associata al suo consiglio più ristretto, con la rappresentazione dei suoi generali più vicini, come Pompeiano, suo braccio destro e marito della figlia Lucilla, o Pertinace, il valido militare che sarà imperatore alla morte di Commodo. Tale centralità viene sottolineata anche iconograficamente, disponendo l’imperatore spesso frontalmente o di tre quarti. Tale scelta non è casuale, ma sembra manifestare un tratto dell’arte plebea romana che sarà fatto proprio da quella ufficiale, laddove con il trasformarsi della figura imperiale sarà più importante dare l’immagine del ruolo e della sacralità dell’imperatore come immagine dell’autorità più che un suo ritratto reale e fisiognomico. Questa nuova temperie assorbe però tutto il fregio, in particolare rendendo in modo sempre più acceso l’intento di propaganda rispetto a quello narrativo e soprattutto caricando scenograficamente gli episodi legati ai barbari, laddove alla centralità del riconoscimento umanistico del nemico sconfitto si ha una sempre maggiore disumanizzazione, con scene di violenza, deformazione dei tratti e resa impersonale delle scene funebri o mortuarie.

Tale prospettiva trova il suo corrispettivo anche nella tecnica. Le immagini in particolare tendono in questa occasione a perdere una scansione ariosa su più piani sovrapposti per privilegiare un taglio più schiacciato e soffocato, portando i personaggi a sembrare schiacciati su quasi un piano unitario. Questa riduzione viene rafforzata anche dalle modalità realizzative, quando al bassorilievo leggermente marcato sui bordi di età traianea si sostituisce uno stile più marcato ad altorilievo, ottenuto attraverso un uso intensivo del trapano a mano, strumento divenuto ricorrente dal tempo di Adriano, che sviluppa con i suoi intensi chiaroscuri e tagli di luce una prospettiva più pittorica e un conseguente senso di pathos e dramma nelle scene.
La storia della colonna non terminò però con la sua inaugurazione, ma proseguì nel tempo, segnando la storia della sua città e quella dell’arte. La colonna Antonina, restaurata più volte in età imperiale, subirà durante il Medioevo due terremoti, nel 847 e nel 849 d. C., famosi nel suo caso poiché i sismi portarono alcuni rocchi della colonna a ruotare su sé stessi di qualche grado, deformando la comprensione di alcune parti del fregio. Il grande restauro avvenne però alla fine del ‘500, in particolare nel 1589, anno nel quale il grande Papa urbanista Sisto V Peretti decise di inserire le due colonne onorarie nella sua nuova topografia della città, in parallelo con il lavoro che stava compiendo con gli obelischi. I lavori sistini, realizzati dall’architetto ticinese Domenico Fontana permisero la sistemazione di piazza Colonna e la costruzione della fontana, opera di Giacomo Della Porta, ma intervennero anche sulla colonna, che venne restaurata e a cui fu sostituito il basamento originale, decorato con putti alati, panoplie e germani sconfitti, con una nuova base. Su di essa il papa fece ricordare il suo intervento, attribuendo la colonna all’imperatore Antonino Pio, forse travisando il nome riportato sul basamento del legittimo imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, o semplicemente riconoscendo l’appartenenza di questo imperatore alla sua dinastia, quella Antonina. A questo sostegno, costruito utilizzando i marmi provenienti dal Settizonio, ossia la fronte monumentale severiana del palazzo imperiale, fece seguito anche la sostituzione della statua dell’imperatore con quella di San Paolo, necessaria sia come segnale per i pellegrini sia come parallelo con quella di San Pietro sulla Colonna Traiana.

L’intervento di papa Peretti, oltre alla sua posizione su uno degli assi viari più importanti della città, diede quindi grande centralità al monumento, specialmente in età barocca e neoclassica, vero faro per coloro che, come Goethe, compivano il Gran Tour in Italia. Ciò rese molto importante il suo modello costruttivo, che divenne un punto di riferimento imprescindibile. Ad essa e alla colonna Traiana fecero riferimento sin dal Medioevo le colonne onorarie bizantine come la Colonna di Cristo, gigantesco portacero pasquale in bronzo pieno nella chiesa ottoniana di San Michele di Hildesheim, i campanili della chiesa di San Carlo a Vienna come due colonne onorarie speculari tra loro come la Colonna di Austerlitz, eretta nel 1810 da Napoleone in place Vendome a Parigi e la colonna di Alessandro, edificata a San Pietroburgo dalla zar Alessandro I nel 1834 per ricordare invece la vittoria sull’odiato nemico francese.
La Colonna Aureliana è il simbolo universale della romanità, interessante proprio perché rappresenta i cambiamenti e le trasformazioni nel corso del tempo, non il segno della decadenza e della caduta quanto la rappresentazione di un mondo che muta gradualmente tra un secolo e l’altro, rispondendo a idee e pensieri nuovi della società e della cultura. Un monumento che ricorda e onora l’uomo che ha vissuto e ha condizionato parte di questi cambiamenti, l’uomo della pace che si è trovato a fare la guerra, l’uomo che ha deciso, anche perché spinto dalla sua esperienza, a modificare uno strumento politico come l’adozione per sceglierne un altro, l’imperatore romano Marco Aurelio.