SAMURAI: ASCESA E DECLINO DI UNA CASTA GUERRIERA
Sono tra le figure più emblematiche della cultura giapponese, che la cinematografia ha ammantato di un’aura di romanticismo, presentandoceli come combattenti coraggiosissimi, senza paura della morte pronti a sacrificare tutto in nome del proprio onore, compresa la vita stessa, della quale, se disonorati erano pronti a disfarsi compiendo quel rito impressionante e sanguinoso conosciuto col nome di seppuku, a noi noto anche come harakiri.

Come i lettori avranno certamente intuito oggi parliamo dei samurai, ossia i membri della piccola nobiltà guerriera giapponese, spesso paragonati anche se per certi aspetti abbastanza impropriamente, ai cavalieri del Medioevo occidentale. Anche se a noi sembra di conoscerli è probabile che la nostra idea su questi simboli viventi del Giappone feudale risenta di una serie di cliché e di stereotipi che non rendono loro giustizia.
Partiamo perciò dalla madre di tutte le domande: cosa significa la parola “samurai”? Essa deriva da saburau, forma infinitiva di un antico e oggi obsoleto verbo giapponese che significa “servire” o “essere al servizio”. Samurai è dunque “colui che serve” il proprio signore (daimyō) e pertanto non va confuso con il rōnin (letteralmente “uomo-onda”), termine con cui si indicava un samurai senza padrone a causa della morte di quest’ultimo o per averne perso la fiducia e quindi costretto ad un’esistenza da guerriero errante. In realtà però il termine aulico per definire un membro del ceto dei combattenti è bushi, parola anche spiritualmente più articolata rispetto a samurai.

La formazione e l’ascesa della casta dei samurai è strettamente legata alla struttura socioeconomica della società giapponese caratterizzata, proprio come quella dell’Occidente medievale, da un sistema di tipo feudale. Lo stato giapponese si affacciò alla Storia tra il V e il VI secolo d.C. come risultato della federazione di varie unità locali ereditarie (in giapponese uji) per certi aspetti simili ai clan scozzesi sotto l’egida dei signori di Yamato, antenati dell’attuale casa imperiale nipponica. Costoro estesero il loro dominio su buona parte di quello che oggi è il Giappone, fatta eccezione per la parte settentrionale di Honshu e dell’isola di Hokkaido. Inoltre, fino al 562, i signori di Yamato esercitarono il loro dominio anche sulla parte meridionale della penisola coreana. Almeno al I secolo a.C. risale invece l’inizio dei rapporti diplomatici e commerciali con la vicina e più avanzata Cina, della quale, riconoscendone la superiorità in campo culturale, il Giappone iniziò a far propri molti elementi, compreso il sistema di scrittura.
Sempre proveniente dal Celeste Impero, nel 562 secondo la tradizione venne introdotto presso la corte di Yamato il buddismo. Favorita da alcune eminenti personalità della corte, a cominciare dal principe reggente Shōtoku Taishi (574-622), la nuova fede si affermò nella società nipponica assorbendo nel suo sistema teologico molti elementi della primitiva religione shintoista. La contaminazione con lo shintoismo e lo sviluppo di dottrine come lo Zen favorirono la militarizzazione del buddismo giapponese al punto che non era raro che un samurai o un daimyō ricevesse la tonsura monastica senza per questo rinunciare alle armi. Altrettanto importante nella formazione dell’etica del samurai fu la filosofia confuciana, specie per quanto riguarda la sua enfasi a proposito dell’obbedienza ai propri superiori.

Sull’esempio cinese anche in Giappone furono fatti una serie di tentativi per distruggere il sistema dei clan sostituendolo con una più stabile struttura burocratica fedele all’Imperatore. Il primo di questi, risalente alla metà del VII secolo, fu promosso dall’influente cortigiano Fujiwara Kamatari e viene ricordato col nome di “Editti di riforma Taika”. Essi prevedevano la redistribuzione delle terre, dichiarate di esclusiva proprietà dell’Imperatore, in piccoli lotti assegnati ai contadini, i quali in cambio avrebbero dovuto impegnarsi a pagare le tasse sul raccolto e a prestare servizio militare quando richiesto.
Scopo ultimo della riforma era quindi istituire un esercito permanente formato da coscritti per rispondere alle minacce rappresentante dagli emishi, le popolazioni aborigene del Giappone stanziate nel nord dell’isola di Honshu e su quella di Hokkaido; e dai coreani, con cui i signori di Yamato erano in guerra fin dal IV secolo. La riforma ebbe tuttavia un esito fallimentare. Ciò fu dovuto essenzialmente a due motivi. In primis gran parte delle terre venne assegnato senza alcun obbligo fiscale agli alti funzionari di corte per i loro servigi e man mano che gli incarichi divennero ereditari le terre finirono a loro volta per trasformarsi in appannaggio esclusivo delle grandi famiglie. In secondo luogo i lotti distribuiti alle famiglie contadine erano troppi piccoli perché queste potessero trarne i mezzi per la propria sussistenza, specie a fronte degli esosi tributi.

Il risultato fu che col tempo sempre più contadini preferirono cedere i propri terreni ai ricchi possidenti con un sistema noto come kishin: la terra era registrata a nome del nuovo proprietario che subito dopo la vedeva al vecchio che si impegnava a coltivarla in cambio di canone annuale. Questo provocò inoltre il trasferimento degli obblighi militari, dovuti da ogni singolo suddito all’Imperatore, ai grandi proprietari terrieri, i cui eserciti privati si rivelarono fondamentali per contrastare i barbari del nord. Queste truppe, formate da guerrieri a cavallo armati di sciabola e arco, risulteranno ancora più efficaci militarmente grazie all’impiego della staffa, importata in Giappone dall’Asia continentale. Proprio questi cavalieri furono gli antenati dei samurai.

Dalla metà del IX secolo il potere effettivo sul Giappone passò nelle mani del potente clan dei Fujiwara, i quali esercitarono il controllo sul trono facendo sposare le loro figlie agli imperatori salvo poi forzarli a ritirarsi in convento abdicando in favore di un erede minorenne. L’influenza dei Fujiwara perdurò sino a quando l’ex Imperatore Sutoku, forzato ad abdicare nel 1141, tentò di riconquistare il potere a scapito di suo fratello minore, l’Imperatore in carica Go Shirakawa (r. 1155-1158). Entrambi i rivali fecero l’errore di fare appello ai signori della guerra per sostenere le proprie pretese e il Paese precipitò nel caos. Go Shirakawa ebbe la meglio e i Taira, uno dei clan che lo avevano sostenuto, si impose con la forza delle armi arrogandosi diritti e privilegi, finché il leader Taira no Kiyomori divenne il vero padrone del Giappone. Egli esercitò il suo dominio in maniera dispotica facendosi odiare dal popolo.

Approfittando della sua posizione fece eliminare molti rivali tra cui Minamoto no Yoshitomo ma commise l’errore di risparmiarne i figli, che vennero invece esiliati in monasteri isolati. Due di questi, Yoshitsune e Yoritomo, una volta cresciuti decisero di vendicare il padre e mossero guerra ai Taira sfruttando il malcontento popolare. La resa dei conti giunse con la vittoria dei Minamoto alla battaglia navale di Dan no Ura (25 aprile 1185), scontro conclusivo della cosiddetta Guerra Genpei.
A quel punto però, invidioso del fratello, Yoritomo lo fece uccidere assieme a tutti i suoi seguaci (1189) e nel 1192 si fece conferire il prestigioso titolo di seii-tai-shōgun (“generalissimo contro i barbari”) dall’Imperatore Go-Toba. Ottenuto il supremo comando delle truppe Yoritomo instaurò una vera e propria dittatura militare, il bakufu (“governo della tenda”) noto anche come shogunato, vero e proprio governo dei samurai per i samurai. Dal 1185 al 1333 la famiglia Minamoto e la famiglia della moglie di Yoritomo, gli Hojo, mantennero il controllo del Paese attraverso la figura dello shogun e del reggente shogunale, lo shikken. Proprio in questo periodo, tra il 1274 e il 1281, il Giappone dovette fronteggiare due tentativi di invasione da parte dei mongoli, scongiurati grazie al provvidenziale intervento di tempeste marine note come kamikaze (“venti divini”), che spazzarono via le flotte del Gran Khan.

La guerra, anche se vittoriosa, creò un diffuso malcontento perché i vassalli dello shogun non furono adeguatamente ricompensati. L’imperatore Go Daigo cercò a questo punto di riprendere il potere appoggiandosi ai clan fedeli alla sua causa. Go Daigo vinse, ma Ashikaga Takauji, uno tra i signori che l’avevano appoggiato, gli si ribellò. Ne conseguì una lotta civile che portò a uno scisma dinastico destinato a durare sessant’anni. Intanto dal 1338 il titolo shogunale divenne prerogativa del clan Ashikaga, ma mentre le attività commerciali e artigianali avevano un importante sviluppo, le strutture centrali finirono col perdere il controllo del Paese a vantaggio dei daimyō.

Così tra il 1467 e il 1568 il Giappone scivolò nella più completa anarchia con la trasformazione di alcuni feudi in vere e proprie signorie autonome. Questo periodo è noto con il nome di Sengoku Jidai ossia “periodo degli Stati combattenti”. Proprio in questa tormentata fase della sua storia il Giappone entrò in contatto con gli europei (chiamati “nanban” ossia “Barbari del Sud”): nel 1543 infatti una nave portoghese fu spinta dalle tempeste sulle coste nipponiche.
Nel 1573 l’ultimo shogun Ashikaga fu deposto da Oda Nobunaga, daimyō di Owari, il quale diede inizio alla riunificazione del Giappone. Durante il suo dominio Nobunaga stabilì ottimi rapporti con i primi missionari cristiani e favorì la diffusione del cristianesimo allo scopo di controbilanciare il potere temporale dei bonzi. Dopo il suo assassinio, consumatosi nel 1582, un generale di umili origini, Hideyoshi Toyotomi (1585-98) assunse il titolo di kampaku (reggente imperiale).

Questi nel 1588 diede inizio ad una vera e propria “caccia alle spade”, emanando un editto in cui vietava a tutti i giapponesi di portare le armi, fatta ovviamente eccezione per i samurai. Hideyoshi intendeva così disarmare tutti quegli elementi ritenuti potenzialmente sovversivi: i contadini, che non ebbero così più alcuna possibilità di opporsi ai propri signori, le leghe buddiste, i monaci guerrieri (sohei) oltre che naturalmente i daimyō di incerta lealtà.
La cristallizzazione della società conseguente al provvedimento di Hideyoshi fece sì che lo status di samurai divenisse ereditario. L’addestramento dei rampolli della piccola nobiltà guerriera aveva inizio alla tenera età di sette anni appena dopo aver imparato a leggere e scrivere ed era caratterizzato da una disciplina estremamente rigorosa, paragonabile a quella vigente nell’antica Sparta. Il giovane aspirante samurai era sottoposto ad una serie di esercizi e di prove fisiche allo scopo di temprarne il fisico e conseguire il completo controllo del proprio corpo e della propria mente.

Ai ragazzi veniva poi insegnato a non temere la morte e ad obbedire al proprio signore, oltre che, naturalmente, a maneggiare con abilità l’arco e la spada e a cavalcare con destrezza. A coronamento del loro apprendistato, raggiunti i tredici anni nel corso di una speciale cerimonia chiamata genpuku ai giovani appartenenti alla classe militare veniva data una wakizashi (spada corta) e un nome da adulto, diventando così samurai a tutti gli effetti. Da quel momento acquisivano il diritto di portare al fianco la katana, che assieme alla wakizashi formavano il daishō (letteralmente: “grande e piccolo”).
L’esistenza di un samurai era regolata da un rigido codice comportamentale, il bushido, la “via del guerriero”, il quale si basa su testi compilati tra il XVII e il XVIII secolo. Esso è essenzialmente basato su concetti quali la frugalità, il coraggio, l’onestà, la lealtà, la cortesia, la compassione, l’autocontrollo, la pratica delle arti marziali, il senso dell’onore fino al sacrificio della vita. A quest’ultimo punto si collega la massima che il samurai e filosofo Yamamoto Tsunetomo (1659-1719) aveva stilato nella sua opera Hagakure (“Nascosto tra le foglie”): “La via del samurai si trova nella morte”.

Parlando del rapporto tra samurai e morte non si può fare a meno di pensare al suicidio rituale, il seppuku. Tale rituale, impressionante e sanguinoso allo stesso tempo, veniva compiuto come espiazione di una colpa commessa o come mezzo per sfuggire a una morte disonorevole per mano dei nemici. Durante il Periodo Edo il seppuku venne rigidamente codificato, diventando un modo onorevole per giustiziare un membro della casta dei samurai.
Il morituro, in ginocchio con le punte dei piedi rivolte all’indietro praticava un profondo taglio nell’addome da sinistra verso destra e poi verso l’alto. Si riteneva infatti che il ventre fosse la sede dell’anima e pertanto il significato simbolico sotteso al rituale era quello di mostrare agli astanti la propria essenza, priva di colpe e in tutta la sua purezza. Oltre ad essere estremamente doloroso il seppuku non era però a prova d’errore in quanto per essere certi di morire sarebbe stato necessario recidersi anche la giugulare ma non tutti avevano il vigore e la prontezza di spirito per compiere tale azione pertanto invalse l’uso di farsi assistere da un fidato compagno, chiamato kaishakunin, incaricato di decapitare il suicida dopo che questi si fosse accoltellato al ventre. Un’altra forma di morte volontaria era lo junshi, ossia il suicidio praticato dai sottoposti alla morte del proprio signore come estremo atto di devozione. Tale pratica ritenuta da molti inutile e dannosa in quanto finiva con l’indebolire un feudo privandolo di servitori capaci ed esperti, venne proibita nel 1663 ma la tradizione fu evidentemente dura a morire se si considera che ancora nel 1912 il generale Nogi Maresuke e sua moglie si tolsero la vita dopo aver appreso della morte dell’Imperatore Meiji.

Per quanto riguarda le armi adoperate in battaglia occorre sottolineare come, a differenza dei cavalieri occidentali, per i samurai non esistettero mai armi disonorevoli, ma solo armi efficienti e inefficienti. Un’altra differenza tra le due caste sta nell’arma prediletta dai samurai: snobbato dalla cavalleria europea perché considerato “poco nobile”, almeno fino al XIII l’arco fu tenuto in maggiore considerazione rispetto alla via della spada (kendo). Lungo due metri e realizzato in legno laminato e laccato, l’arco giapponese (shigetou) era un’arma molto potente: consentiva di scagliare frecce fino a cento metri di distanza, arrivando fino a duecento quando non era necessaria la precisione. Veniva usato solitamente a piedi, dietro un tedate, un largo scudo di legno, ma poteva essere impiegato anche a cavallo. A partire dal XV secolo anche la lancia (yari) divenne un’arma popolare. Essa finì col rimpiazzare progressivamente il naginata (arma inastata simile al falcione del medioevo europeo) allorquando l’eroismo individuale divenne meno importante sui campi di battaglia e le milizie furono maggiormente organizzate. Nelle mani dei fanti (gli ashigaru) risultava persino più efficace di una katana, soprattutto durante le grandi cariche campali.

Occorre infine spendere qualche parola a proposito del rapporto dei samurai con le armi da fuoco. I primi archibugi (Tanegashima-teppō) vennero introdotti nell’arcipelago nipponico a partire dalla metà del XVI secolo dai mercanti portoghesi. I daimyō ne compresero subito le potenzialità e dotarono i loro eserciti delle nuove armi, di cui vennero sviluppate varianti locali da parte degli armaioli nipponici e in capo a un decennio ne vennero prodotti oltre 300 mila esemplari. Fu proprio l’abilità nell’utilizzo di armi da fuoco da parte delle truppe di Oda Nobunaga a determinare la sua vittoria nella battaglia di Nagashino (28 giugno 1575) in quanto le scariche di fuoco a rotazione dei suoi archibugieri contribuirono a sconfiggere la potente cavalleria del suo rivale Takeda Katsuyori. Soltanto successivamente, a partire dal XVII secolo l’uso delle armi da fuoco venne fortemente scoraggiato dagli shogun Tokugawa, i quali giunsero a proibirne quasi completamente l’uso e ad allontanarle del tutto dalla pratica della maggior parte dei samurai.
Hideyoshi Toyotomi morì nel 1598 durante la fallimentare spedizione in Corea da lui organizzata. La successione fu molto contrastata ma alla fine emerse vincitore un suo vassallo, Tokugawa Ieyasu, che nel 1603 ottenne dall’Imperatore Go-Yōzei il titolo di Shogun, inaugurando così il terzo bakufu dopo quello dei Minamoto e degli Ashikaga. Fino al 1867 gli Shogun Tokugawa avrebbero governato il Giappone dalla loro capitale, Edo (la futura Tokyo), mentre l’Imperatore, ridotto a mero simbolo dell’unità nazionale, rimaneva confinato nella reggia di Kyoto.
Ieyasu e i suoi successori portarono avanti la persecuzione del cristianesimo iniziata da Hideyoshi: i missionari vennero espulsi e i convertiti giapponesi posti di fronte alla scelta tra l’apostasia e il martirio. La distruzione finale del cristianesimo in Giappone fu rappresentata dalla sconfitta e dall’annientamento, nel 1637-38, di 20 mila contadini cristiani che, esasperati dalle persecuzioni religiose e dall’eccessivo carico fiscale, si erano ribellati asserragliandosi nel castello di Shimabara, sull’isola di Kyushu. Tutti gli stranieri vennero scacciati o indotti a lasciare il Giappone mentre ai soli olandesi e cinesi venne concessa la possibilità di commerciare anche se limitatamente al porto di Nagasaki.

Infine, nel 1636 un nuovo decreto proibì a tutti i giapponesi di recarsi all’estero. L’arcipelago nipponico si chiuse così in uno stato di profondo isolamento (sakoku) destinato a protrarsi per oltre duecento anni. Allo scopo di assicurarsi il controllo sui daimyō gli Shogun Tokugawa li obbligarono a lasciare mogli e figli praticamente in ostaggio a Edo trascorrendo un anno con loro e un altro nei rispettivi domini. Inoltre quando un daimyō doveva traslocare era tenuto a portare con sé tutta la sua corte, spendendo così moltissimo denaro.
Con la pacificazione imposta dai Tokugawa i samurai persero il loro tradizionale ruolo di guerrieri per trasformarsi in burocrati e amministratori di corte o in intellettuali mantenendo comunque inalterato il loro prestigio all’interno della società, testimoniato dal privilegio di portare la spada, ormai divenuta un ornamento cerimoniale. Di contro le condizioni economiche della casta declinarono progressivamente a causa del fatto che a fronte del modesto stipendio ricevuto un samurai era comunque tenuto a condurre un tenore di vita consono al proprio rango. Le necessità finanziarie spinsero quindi molti di loro a rivolgersi ai disprezzati mercanti per ottenere prestiti. Non mancarono tuttavia samurai, soprattutto rōnin, che scelsero di dedicarsi in prima persona alla mercatura, attività in cui più d’uno dimostrò notevole capacità.

Tuttavia è proprio in questo periodo di pacificazione e di generale abbandono della pratica marziale che fu l’epoca Tokugawa che si colloca una delle saghe più famose riguardanti i samurai, quella dei quarantasette rōnin. Tutto ebbe inizio nel 1701 quando Asano Naganori, piccolo daimyō di Ako, tentò di uccidere nel palazzo il kōke (maestro delle cerimonie) Kira Yoshinaka, venendo per questo costretto a compiere seppuku, mentre il suo feudo venne sequestrato e i suoi vassalli costretti a diventare rōnin.
Due anni dopo quarantasette di questi decisero di vendicare il loro signore e il 14 dicembre 1703 attaccarono la casa di Kira e, dopo una battaglia con i suoi seguaci, lo uccisero, lo decapitarono e ne portarono la testa sulla tomba di Naganori. Compiuta la loro missione i quarantasette rōnin si consegnarono alle autorità le quali li condannarono a morire onorevolmente compiendo seppuku, cosa a cui non avrebbero avuto diritto in quanto rōnin. Essi infatti avevano violato la legge compiendo una vendetta non autorizzata ma avevano dimostrato nel contempo di avere onorato fino in fondo il dovere di fedeltà nei confronti del loro signore.

Il tramonto del dominio dei Tokugawa ebbe inizio nel 1853 dopo due secoli e mezzo di dominio incontrastato sul Giappone. All’alba dell’8 luglio di quell’anno i guardacoste della baia di Uraga scorsero in lontananza delle navi in avvicinamento. Si trattava di due fregate a vapore della marina statunitense con a bordo seicento marinai. La notizia dell’avvistamento delle imbarcazioni straniere provocò il caos: mentre il popolo si riversava nei templi, lo shogun Ieyoshi chiamò a raccolta i propri daimyō, una circostanza che non si verificava da decenni. Il commodoro Matthew Calbraith Perry, comandante delle “navi nere”, chiedeva l’apertura dei porti giapponesi e la firma di un trattato commerciale nippo-americano. Di fronte alla pressione dei cannoni americani il bakufu Tokugawa fu costretto ad aprire alcuni porti agli scambi con gli Stati Uniti autorizzando nel contempo l’apertura di un consolato statunitense a Shimoda. Nel 1858 il Giappone fu costretto ad accordare analoghe concessioni anche ad altre potenze occidentali.
Come già accaduto in Cina britannici, francesi, russi, olandesi e americani ottennero il diritto di risiedere in Giappone, di acquisirvi proprietà, un trattamento fiscale privilegiato nonché il diritto all’extraterritorialità, vale a dire la possibilità di essere giudicati secondo le proprie leggi nazionali dai rispettivi tribunali consolari.

sentimento Jōi (“Espellere i barbari”): un lottatore di sumo giapponese atterra un forestiero vestito all’occidentale.
La firma dei “trattati ineguali” suscitò un’ondata di risentimento nazionalistico. Al grido di “Sonno Jōi” (“Viva l’Imperatore, fuori i barbari”) una parte dei daimyō e dei samurai si ribellò allo shogun a cui venne contrapposta la figura dell’Imperatore, il quale in teoria rappresentava la vera fonte del potere. La guida della sollevazione fu assunta dai feudi di Satsuma, sull’isola di Kyushu, e di Chushu, sull’estrema punta meridionale di Honshu. Nel gennaio del 1868 gli insorti occuparono Kyoto, dichiarando decaduto il bakufu e dando vita a un governo con sede a Tokyo che si richiamava all’autorità dell’Imperatore Mutsuhito, un ragazzino di appena quindici anni appena asceso al trono e destinato ad assumere l’appellativo di Meiji Tenno (sovrano illuminato).
Da quel momento prese avvio una modernizzazione a ritmi frenetici della struttura sociale ed economica del Giappone, che in capo a pochi decenni avrebbe proiettato l’Impero del Sol Levante tra le principali potenze globali. Ma questa stessa modernizzazione significò anche la fine dei samurai: nel 1871 fu proclamata l’uguaglianza giuridica di tutti i sudditi. Poi, nel 1873, fu avviata la costituzione di un moderno esercito nazionale basato sulla leva obbligatoria.

Infine, nel 1876 fu definitivamente proibito ai samurai di portare in pubblico la spada, simbolo del loro status privilegiato. In reazione al nuovo corso Saigo Takamori, samurai di Satsuma e protagonista della rivolta contro lo shogun, organizzò una nuova sollevazione contro il governo ma la sollevazione venne schiacciata dai fucili e dai cannoni dell’esercito imperiale, contro i quali nulla poterono il valore guerriero dei samurai e l’acciaio delle loro spade. Al termine della rivolta di Satsuma Saigo Takamori si tolse la vita mediante seppuku, suggellando nel sangue la fine dei samurai, sconfitti non da uno spirito più grande ma da una tecnologia tanto superiore quanto fredda.
Bibliografia:
- Leonardo Vittorio Arena, Samurai – Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri
- Leonardo Vittorio Arena, Il pennello e la spada – La via del samurai
- Niccolò Capponi, Il Giappone dei samurai – Ascesa, poteri e rituali dell’antico ceto guerriero
- Edwin O. Reischauer, Storia del Giappone – Dalle origini ai giorni nostri