Pearl Harbor: il giorno dell’infamia

«Ieri, 7 dicembre 1941, una data che entrerà nella storia come il giorno dell’infamia, gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati dalle forze aeree e navali dell’impero giapponese»

Con queste parole ebbe inizio il discorso con cui il presidente americano Franklin Delano Roosevelt comunicò alla nazione la decisione di entrare in guerra contro il Giappone, presa dal Congresso degli Stati Uniti.

Prima pagina del Los Angeles Times dell’8 dicembre 1941 che annuncia l’inizio delle ostilità tra Stati Uniti e Giappone.

Per capire come si fosse arrivati a quella tragica prima domenica di dicembre di ottant’anni fa occorre fare un ulteriore salto indietro nel tempo di una decina di anni. A partire dai primi anni Trenta il Giappone iniziò a mettere in atto un’aggressiva politica di espansione territoriale rivolta in modo particolare verso la Cina, dilaniata al suo interno dalla guerra civile in corso tra le forze nazionaliste e comuniste.

Per tutto il decennio successivo alla fine della prima guerra mondiale il Giappone aveva condotto una politica estera cauta, che privilegiava lo sviluppo delle relazioni commerciali come strumento per affermare la propria potenza in Asia. La Grande Crisi iniziata nel 1929 segnò tuttavia il ritorno a una politica di espansione imperialista. Questa scelta era dettata dal fatto che, a seguito della crisi economica globale, le imprese nipponiche si videro chiudere l’accesso ai mercati stranieri nei quali esse esportavano i loro manufatti.

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Prigionieri cinesi sorvegliati da un soldato giapponese per le vie di Mukden, la città principale della Manciuria.

Esportare era una necessità primaria per il Giappone in quanto, essendo un Paese povero di materie prime, soltanto attraverso il commercio internazionale esso poteva procurarsi quelle risorse (materiali ferrosi, carbone, petrolio) di cui necessitavano le sue industrie. Le conquiste territoriali non avrebbero fornito solamente nuovi mercati alle merci giapponesi ma avrebbero potuto costituire un adeguato sbocco per una popolazione in rapida crescita e che nel primo trentennio del XX secolo passò da 44 a 65 milioni di abitanti.

Parimenti, per quanto riguarda la politica interna, negli Anni Venti anche in Giappone si assistette alla crescita di consenso nei confronti di movimenti autoritari di destra, i quali si ispiravano in parte ai fascismi occidentali e in parte ai valori tradizionali nipponici (come rispetto della gerarchia e culto dell’imperatore).

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Il Manciukuò, stato vassallo creato dai giapponesi nel 1932 sui territori sottratti alla Cina l’anno precedente

Le conseguenze economiche e sociali della crisi e la preoccupazione delle classi dirigenti nipponiche per la crescita elettorale delle sinistre condussero il Giappone verso una stagione di crescente autoritarismo, che anche se almeno in un primo tempo non sfociò in forme esplicitamente fasciste (nel 1936 venne represso un tentativo di golpe da parte di elementi estremisti delle forze armate e soltanto nel 1940 venne istituito un regime a partito unico) si risolse ugualmente nella chiusura di ogni spazio di opposizione legale e nella repressione del movimento operaio fino all’assunzione diretta del potere da parte dei militari con l’autorevole avallo del neo Imperatore Hirohito, salito al trono nel 1926. Furono proprio i vertici delle forze armate, in accordo con i dirigenti delle zaibatsu, le grandi concentrazioni industriali, a dettare la politica nipponica facendo assumere al Giappone una posizione internazionale molto vicina alle potenze fasciste europee.

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Un pezzo di artiglieria da campagna giapponese spara contro un nido di resistenza cinese per le vie di Tientsin.

L’assalto ai territori cinesi ebbe inizio nel settembre del 1931, quando l’Armata del Kwantung, una grande unità dell’esercito imperiale giapponese che agiva di fatto in totale autonomia come una sorta di stato nello stato, organizzò un finto attentato alla ferrovia della Manciuria meridionale di cui era schierata a protezione, addossandone la colpa a non meglio precisato terroristi cinesi. L’attentato, passato alla Storia col nome di “Incidente di Mukden”, fornì al Giappone il pretesto per dare inizio all’occupazione dell’intera regione della Manciuria, trasformata l’anno successivo nel regno fantoccio del Manciukuò, a capo del quale i giapponesi posero l’ex Imperatore della Cina Pu-Yi, ultimo sovrano della dinastia Qing. La Società delle Nazioni condannò l’aggressione giapponese alla Cina imponendo al governo di Tokyo il ritiro dai territori occupati. Per tutta risposta, il 27 marzo 1933 il Giappone abbandonò l’organizzazione.

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Le truppe giapponesi fanno il loro ingresso a Pechino dopo la conquista della città nell’agosto del 1937.

La Manciuria rappresentò solo il primo tassello di un disegno di conquista di ben più ampio respiro. Sei anni dopo l’incidente di Mukden, il 7 luglio 1937 l’Armata del Kwantung fabbricò ad arte un nuovo casus belli al fine di giustificare l’aggressione al cuore del territorio cinese: quel giorno presso il Ponte di Marco Polo, non lontano da Pechino un gruppo di militari giapponesi travestiti da cinesi ed uno di militari giapponesi in divisa si scambiarono colpi di arma da fuoco. I nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Tse-tung, che fin lì si erano ferocemente combattuti, decisero di unire le forze per combattere l’invasore costituendo un “Fronte nazionale” anti-giapponese. Nonostante la resistenza cinese nell’estate del 1939, dopo due anni di guerra, i giapponesi si erano impadroniti di buona parte della zona costiera e di tutto il nordest industrializzato, comprese le città più importanti come Shanghai e la capitale Nanchino (dove fu installato un governo cinese collaborazionista).

Franklin Delano Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti tra il 1933 e il 1945. Condannò a più riprese l’espansionismo nipponico in Asia.

Lo scoppio della guerra in Europa consentì al Giappone di allargare le proprie ambizioni espansionistiche alle regioni del Sud-Est asiatico, in particolare alle Indie Orientali Olandesi (l’attuale Indonesia) e all’Indocina francese, ricche di materie prime strategiche come petrolio, caucciù e stagno. L’aggressiva politica estera nipponica mise comprensibilmente in allarme le potenze coloniali europee e gli Stati Uniti, i quali, per bocca dello stesso Roosevelt avevano condannato l’espansionismo giapponese fin dal 1937: il 5 ottobre di quell’anno, nel corso di un discorso tenuto a Chicago, il Presidente americano affermò, riferendosi a Germania nazista, Italia fascista e Giappone, che “le nazioni responsabili di guerre e illegalità internazionali” avrebbero dovuto essere isolate dai Paesi pacifici e mantenute in quarantena, come organismi contagiosi, per impedire il diffondersi della “malattia” della violenza, dell’aggressione e della sopraffazione.

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La situazione geopolitica dell’Oceano Pacifico allo scoppio della seconda guerra mondiale, il 1º settembre 1939.

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale Roosevelt pur ribadendo la neutralità del suo Paese, decise di sostenere materialmente la Gran Bretagna, e contemporaneamente si oppose alla volontà giapponese di estendere il proprio dominio in Asia. Fin dal luglio 1940 Roosevelt impose un primo embargo sui rifornimenti di benzina, lubrificanti, acciaio e rottami di ferro diretti in Giappone, mentre il 3 settembre gli Stati Uniti consegnarono cinquanta vecchi cacciatorpediniere alla Royal Navy per rafforzare il suo sistema di convogli nella battaglia dell’Atlantico, in cambio del diritto di installare basi militari nel sud-est asiatico in territorio coloniale britannico.

Il Giappone dal canto suo ignorò questo primo avvertimento da parte americana e nel settembre del 1940 dapprima impose al governo francese di Vichy la “convenzione di Hanoi” che concedeva all’Impero del Sol Levante il diritto di installare basi aeree nel Tonchino per poi aderire al Patto Tripartito assieme a Germania e Italia. Nel marzo del 1941, pochi mesi dopo essere stato eletto per la terza volta alla presidenza, Roosevelt fece votare dal Congresso la legge “affitti e prestiti” (Lend and lease act) con la quale il governo statunitense si impegnava a fornire materiale bellico ad un prezzo estremamente favorevole a tutti quei Paesi a cui difesa era ritenuta vitale dal Presidente per la difesa degli Stati Uniti stessi.

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Truppe giapponesi entrano a Saigon, in Vietnam (Indocina francese) nell’estate del 1941.

La politica rooseveltiana, che tendeva a fare degli USA “l’arsenale delle democrazie” ebbe il suo definitivo suggello il 14 agosto 1941 nell’incontro svoltosi tra Roosevelt e Churchill su una nave militare al largo delle coste di Terranova. Risultato più significativo del vertice fu senza dubbio la redazione della Carta Atlantica, una sorta di versione aggiornata dei Quattordici Punti di Wilson. Nel documento si delineavano i caratteri del nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita: condanna delle potenze nazifasciste, autodeterminazione dei popoli, libertà di navigazione e commercio, cooperazione internazionale, rinuncia all’uso della forza da parte degli Stati.

Alla fine dello stesso mese, il 26 luglio 1941, in risposta all’occupazione nipponica dell’Indocina meridionale, gli Stati Uniti decretarono l’embargo su tutti i prodotti petroliferi, sui metalli e su altre merci strategiche e il congelamento di tutti i beni giapponesi nel proprio territorio, seguiti in questo dalla Gran Bretagna e dal governo olandese in esilio a Londra, vietando inoltre alle imbarcazioni giapponesi il transito attraverso il canale di Panama. Il Giappone che a quel punto si trovò ad un bivio: o piegarsi ai diktat delle potenze occidentali e ritirarsi dai territori occupati oppure scatenare la guerra totale per conquistare nuovi territori e procurarsi le materie prime necessarie al mantenimento del suo status di grande potenza.

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I negoziatori giapponesi durante le trattative con gli USA prima dell’attacco di Pearl Harbor: a sinistra l’inviato speciale Kurusu, a destra l’ambasciatore a Washington Nomura

Preoccupati per le conseguenze del blocco statunitense sulle esportazioni petrolifere e consapevoli di disporre di riserve petrolifere per al massimo due anni, i dirigenti giapponesi decisero di intavolare delle trattative con gli Stati Uniti nella speranza di ottenere il ritiro o un alleggerimento dell’embargo in cambio di limitate concessioni da parte del Sol Levante, senza pregiudicare le conquiste in Cina e in Indocina.

Intanto però, agendo in maniera del tutto indipendente dagli sviluppi politico-diplomatici, già a partire dalla primavera del 1940, lo Stato Maggiore della Marina imperiale giapponese iniziò a pianificare un possibile attacco alle Hawaii. Agli inizi del 1941 l’Ammiraglio Yamamoto presentò un primo progetto dettagliato per un attacco alla base statunitense di Pearl Harbor. Yamamoto, cosciente della superiorità di risorse materiali e industriali degli Stati Uniti nel caso di conflitto prolungato, riteneva indispensabile sferrare un colpo decisivo alla flotta principale statunitense per “decidere l’esito della guerra fin dal primo giorno”.

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L’Ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante in capo della Flotta combinata giapponese e ideatore dell’attacco su Pearl Harbor.

Le trattative fra Giappone e Stati Uniti per risolvere i contrasti politici proseguirono tuttavia con difficoltà a causa delle iniziative aggressive nipponiche e delle decisioni politico-militari anglo-americane. protagonisti dei negoziati furono infatti l’ambasciatore giapponese a Washington Kichisaburō Nomura, coadiuvato nella fase finale dall’inviato speciale Saburō Kurusu, e l’ambasciatore statunitense a Tokyo Joseph Grew. Tuttavia, dopo che il 6 settembre 1941 Roosevelt rifiutò di incontrare il Primo Ministro giapponese, Fumimaro Konoe, i capi nipponici decisero di completare i piani bellici e parallelamente di intensificare gli sforzi per giungere ad un accordo con gli Stati Uniti entro un mese.

In seguito al fallimento dei colloqui tra l’ambasciatore Nomura e il Segretario di Stato americano Cordell Hull, pressato dai militari che chiedevano l’immediato ingresso in guerra del Giappone contro gli americani, il Primo Ministro Konoe fu costretto a rassegnare le dimissioni venendo sostituito dal generale Hideki Tōjō, allora capo dell’esercito e leader della fazione bellicista.

Rotta seguita dalla flotta aeronavale giapponese per l’attacco a Pearl Harbor e successivo rientro in patria.

Il nuovo gabinetto decise comunque il 1º novembre di fare un estremo tentativo diplomatico, presentando un’ultima bozza di accordo in due varianti (piano “A” e piano “B”) e stabilendo il 30 novembre 1941 come ultimo giorno utile per la conclusione positiva dei negoziati. Nella riunione venne inoltre deciso che in caso di fallimento le ostilità sarebbero iniziate intorno al 5 dicembre. Intanto il 3 novembre la marina imperiale approvò in via definitiva il piano d’attacco contro Pearl Harbor. Entrambe le proposte giapponesi vennero giudicate del tutto insufficienti dal governo americano, che a sua volta presentò la sua controproposta finale (la cosiddetta Hull note), che prevedeva, in cambio della ripresa delle relazioni commerciali, non solo l’evacuazione dell’Indocina, ma anche della Cina da parte dei giapponesi oltre all’abbandono dei governi satelliti di Mukden e Nanchino.

Mappa della base statunitense di Pearl Harbor sull’isola di Oahu nelle Hawaii.

La proposta americana venne presentata il 26 novembre, giorno della partenza della flotta d’attacco nipponica in direzione delle Hawaii. Consapevole della difficile situazione diplomatica e dei rischi di guerra, il giorno successivo il Segretario alla Marina Frank Knox diramò un un “preavviso di guerra” agli ufficiali della U.S. Navy, mettendoli in guardia sulla possibilità di un imminente attacco giapponese.

La squadra giapponese diretta contro le Hawaii era composta dalle portaerei Akaji, Kaga, Hiryu, Sorti, Shakaku e Zuikaku – con a bordo 423 aerei da caccia, bombardieri e aerosiluranti – scortate da 2 incrociatori da battaglia, 2 incrociatori pesanti, 9 cacciatorpediniere, 3 sommergibili e 8 navi cisterna per rifornire in mare le portaerei. Inoltre una flotta di 27 sommergibili (di cui 5 tascabili) si trovava già nelle acque intorno all’isola di Oahu, sulla quale sorge la base di Pearl Harbor.

Movimenti delle due ondate di aerei giapponesi su Pearl Harbor, a sinistra il percorso della prima ondata a destra il percorso della seconda.

Per quanto riguarda le forze americane, alle Hawaii ai primi di dicembre del 1941 erano dislocati 43 mila soldati organizzati in due divisioni di fanteria, la 24ª e 25ª, 300 aerei oltre che la Flotta del Pacifico, costituita da 127 navi di tutti i tipi, di cui 96 erano alla fonda a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. Il “preavviso di guerra” diramato dal segretario alla Marina Knox il 27 novembre raggiunse anche Pearl Harbor, ma con i suoi riferimenti a possibili attacchi giapponesi contro Thailandia, Malesia, Borneo e Filippine, sembrò rassicurare riguardo a minacce dirette contro le Hawaii. La scelta della data del 7 dicembre fu determinata da una serie di circostanze. Grazie ai rapporti delle spie i giapponesi sapevano per esempio che l’Ammiraglio Husband Kimmel, comandante della Flotta del Pacifico, rientrava sempre in porto con nei fine settimana e che quando le navi erano all’ancora molti marinai scendevano a terra diminuendo l’efficienza degli equipaggi rimasti a bordo.

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Le navi statunitensi in fiamme dopo essere state centrate dalle bombe giapponesi.

Accanto a ciò lo Stato Maggiore della Marina nipponica sapeva che la notte prima dell’attacco alle Hawaii ci sarebbe stata la luna nuova, e la conseguente oscurità notturna avrebbe consentito alle portaerei di avvicinarsi al loro obiettivo senza essere notate. Secondo i piani giapponesi, allo scopo di massimizzare l’effetto sorpresa, i primi aerei avrebbero dovuto giungere sugli obbiettivi assegnati solamente mezz’ora dopo che l’ambasciatore giapponese a Washington avesse consegnato la dichiarazione di guerra al governo americano.

L’attacco ebbe inizio alle 6 del mattino dopo che i piloti ebbero indossato la tradizionale fascia hachimaki con il simbolo del Sol Levante e bevuto il sakè. Al comando del capitano di fregata Mitsuo Fuchida dai ponti delle portaerei decollarono i primi 189 apparecchi: 45 caccia “Zero”, 54 bombardieri di picchiata “Val”, 40 “Kate” aerosiluranti e altri 50 armati di bombe da sganciare in quota. Alle 7.55 gli aerei comparirono all’improvviso sopra le navi americane ormeggiate nella baia di Pearl Harbor. Nello stesso momento, a Hiroshima, l’ammiraglio Yamamoto ricevette l’atteso messaggio in codice “Tora! Tora! Tora!” (Tigre! Tigre! Tigre!) che confermava il successo dell’attacco a sorpresa.

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L’attacco aereo giapponese ai campi d’aviazione americani.

Mentre le navi all’ancora erano colpite dai siluri dei Kate e dalle bombe dei Val, gli Zero si concentrarono sugli aerei americani sulle piste. Nel corso di questo primo attacco la reazione della contraerea statunitense fu tardiva e diede scarsi risultati. A partire dalle 8.40 i giapponesi scatenarono una seconda ondata di attacchi aerei. Questa volta vennero lanciati contro Pearl Harbor 167 apparecchi (54 Kate, 78 Val e 35 Zero) con il compito di bersagliare aeroporti e installazioni militari. Nonostante le insistenze dei suoi ufficiali l’ammiraglio Nagumo rinunciò a lanciare una terza ondata ritenendo sostanzialmente raggiunti gli obbiettivi della missione.

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La USS Arizona in fiamme: fu la nave che riportò il maggior numero di vittime tra l’equipaggio.

In effetti i giapponesi avevano ogni ragione per ritenersi soddisfatti. Per la prima volta una task force aeronavale si era spinta a 7 mila chilometri per colpire con successo un obbiettivo nemico per poi rientrare alle proprie basi. Non solo ma a fronte di perdite alquanto contenute (5 sommergibili tascabili affondati, 29 aerei distrutti, 9 sommergibilisti morti, 55 aviatori abbattuti e uno catturato) le forze armate nipponiche avevano inflitto al nemico danni considerevoli: Su 96 navi statunitensi presenti in porto quel giorno, tre corazzate furono distrutte o capovolte in maniera irrimediabile (Arizona, Oklahoma e Utah), mentre altre sei pur venendo affondate, rovesciate o arenate poterono essere recuperate (le corazzate CaliforniaWest Virginia e Nevada, il posamine Oglala, i cacciatorpediniere Cassin e Shaw).

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Il Presidente Franklin Delano Roosevelt firma la dichiarazione di guerra contro l’Impero del Giappone, l’8 dicembre 1941, il giorno dopo l’attacco di Pearl Harbor.

Furono gravemente danneggiate la corazzate Pennsylvania, la nave officina Vestal, la nave appoggio idrovolanti Curtiss, gli incrociatori RaleighHelena e Honolulu e il cacciatorpediniere Downes mentre subirono danni di media o lieve entità le corazzate Tennessee e Maryland, il cacciatorpediniere Helm e tre incrociatori. Gli aerei distrutti furono 188 mentre altri 151 vennero gravemente danneggiati. Le perdite umane ammontarono invece a 2.335 morti (2.008 della marina, 109 dei Marines, 218 dell’esercito) e 1.178 feriti a cui bisogna sommare i 57 civili morti e altri 35 rimasti feriti. Nonostante i notevoli risultati gli strateghi giapponesi fallirono nell’affondare le tre portaerei in forza alla Flotta del Pacifico (Enterprise, Lexington e Saratoga, non presenti a Pearl Harbor il 7 dicembre), circostanza che peserà notevolmente nell’andamento successivo della guerra, in particolare nel grande scontro aeronavale delle Midway (3-7 giugno 1942). L’aggressione nipponica alla base di Pearl Harbor generò comprensibilmente un moto di sdegno oltre ad un forte desiderio di vendetta. L’opinione pubblica americana, fin lì contraria ad un intervento diretto del Paese nel conflitto mondiale, a quel punto appoggiò senza riserve la dichiarazione di guerra votata dal Congresso pressoché all’unanimità.

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Vendica il 7 dicembre!: manifesto propagandista statunitense del 1942.

L’unica voce contraria all’ingresso in guerra dell’America fu quella di Jeannette Pickering Rankin, deputata repubblicana del Montana e fervente pacifista, peraltro già contraria all’ingresso del suo Paese nella Grande Guerra. Due giorni dopo l’attacco di Pearl Harbor, Germania e Italia dichiararono a loro volta guerra agli Stati Uniti per solidarietà all’alleato giapponese. Ben presto il Giappone si trovò in guerra anche contro Regno Unito e Paesi Bassi in seguito agli attacchi contro le colonie britanniche e olandesi, compiuti quasi in contemporanea a quello di Pearl Harbor. Ciò costrinse l’Impero del Sol Levante a combattere una guerra sproporzionata alle già logorate risorse a sua disposizione, il cui esito, fatalmente, sarebbe stato disastroso per le forze nipponiche. Abbastanza indicativa è in questo senso una famosa citazione attribuita all’Ammiraglio Yamamoto dopo Pearl Harbor “Temo che tutto ciò che abbiamo fatto sia aver svegliato un gigante che dormiva e averlo riempito di una terribile determinazione a lottare!”

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