La Cappella Minutolo, cuore gotico di Napoli

Quando si pensa ad uno stile artistico, a volte lo si percepisce come un monolite, un carattere unitario i cui elementi si ripetono sempre allo stesso modo nel tempo e nello spazio. Questa prospettiva è tuttavia distorta, in quanto ogni opera d’arte è influenzata da tanti aspetti, sia dal contesto nel quale è inserita sia dall’epoca nella quale sorge, in cui riceve spunti dai confronti altrui o impressioni dal contesto politico, sociale e culturale che lo produce. Tra questi uno stile interessante è il gotico, tradizionalmente collegato al Medioevo e alle luminose cattedrali francesi. Eppure, nonostante l’indiscutibile legame con il regno d’Oltralpe, suo luogo di nascita, questo stile seppe sviluppare i propri frutti per un lunghissimo periodo, tra la metà del XII fino alla metà del XVI secolo, diffondendosi dal Portogallo alla Polonia, dalla Svezia alla Terra Santa.

Veduta della Cattedrale di Chartres, fulgido esempio di edificio in stile gotico.

Un panorama vasto e composito come questo ha prodotto non solo variazioni diverse in base al luogo di realizzazione, ma ha sviluppato una vera e propria evoluzione anche entro gli stessi contesti, dettata dai materiali utilizzati, dal significato che ad esse veniva dato dai committenti e dalle comunità, ma anche dal grado di sviluppo tecnico che, specie nell’architettura, permetteva la sua costruzione, in quel laboratorio ingegneristico che era l’arte medioevale.

Un ambiente interessante per poter osservare queste trasformazioni e mutamenti si trova al di fuori dei confini odierni e storici della Francia, anche se le sue vicende storiche e culturali hanno creato con essa una connessione solida, perpetuatasi nel tempo. Questo contesto è la città di Napoli. Il legame tra la città partenopea e il gotico si sviluppa in modo estremamente peculiare, a partire dalla dominazione degli Angiò, ramo cadetto della casa reale francese dei Capetingi, protrattosi dal 1260 al 1420.

Standbeeld van Karel van Anjou
Statua di Carlo I d’Angiò, Re di Napoli, opera di Arnolfo di Cambio oggi conservata ai Musei Capitolini di Roma.

L’epopea degli Angiò a Napoli è narrata da tutti i libri di storia. Su invito di Papa Clemente IV, nel 1265 Carlo d’Angiò, fratello del Re di Francia Luigi IX il Santo, invase il Regno di Sicilia, allora controllato da Manfredi, figlio illegittimo dell’Imperatore Federico II. L’anno successivo Carlo affrontò Manfredi alla battaglia di Benevento, dove il sovrano svevo perse la vita. Due anni dopo, nel 1268, il nipote di Manfredi, il sedicenne Corradino, venne catturato dai soldati angioini a Tagliacozzo in Abruzzo e poi decapitato pubblicamente a Napoli per ordine di Carlo, che consolidò la propria posizione sul trono.

Nei progetti di Carlo vi era in primo luogo la costituzione di un dominio personale avente come centro il Meridione d’Italia, consolidando, in accordo con il fratello Luigi IX il Santo, l’egemonia francese sull’Europa occidentale e centrale e soprattutto sul Mediterraneo. In questo senso Carlo d’Angiò attuò un’accurata politica matrimoniale e diplomatica, stipulando accordi con gli ultimi eredi dell’Impero Latino d’Oriente e con i sultani di Tunisi e Tripoli e facendo sposare il figlio Filippo a Isabella di Villehardouin, erede del Principato d’Acaia, in Grecia, e la figlia Elisabetta al re d’Ungheria Ladislao IV. Per il figlio ed erede omonimo, Carlo scelse come consorte Maria d’Ungheria, sorella di Ladislao e ultima erede della dinastia arpadiana d’Ungheria. Tale politica matrimoniale riuscì a creare un vero network internazionale nel quale i numerosi discendenti della casata angioina avrebbero regnato in Ungheria, Albania, Acaia ed Epiro. In particolare il ramo ungherese diventerà l’ago della bilancia della storia dell’Europa Orientale e dei Balcani, con il suo membro più interessante, Luigi I, detto il Grande (1326-1382), Re di Ungheria e Polonia, imparentato con Asburgo, Jagelloni e Piast, Lussemburgo.

Tuttavia i progetti egemonici di Carlo I d’Angiò nel Mediterraneo conosceranno anche alcune importanti battute d’arresto. I suoi tentativi di estendere la propria influenza sull’Egeo saranno frustrati dalla riconquista di Costantinopoli (1261) da parte di Michele VIII Paleologo, il quale riuscirà a restaurare l’autorità bizantina su gran parte dei Balcani. Inoltre, lo scoppio della guerra del Vespro (1382-1302), si risolverà con la perdita della Sicilia a favore degli aragonesi.

Estensione dei domini di Luigi D’Angiò d’Ungheria (1326-1382). Si vedono anche gli altri domini angioini in Albania e nel Principato d’Acaia, nel Peloponneso

L’ampiezza del panorama internazionale sarà però anche tra le cause del declino del potere angioino, specie del nucleo napoletano. Alcune scelte dinastiche della nipote di Roberto d’Angiò, Giovanna I, spinsero infatti a coinvolgere nella lotta alla successione i cugini d’Ungheria, ma soprattutto il ramo adriatico dei Durazzo e il nuovo duca d’Angiò, Luigi (1339-1384), fratello di Carlo V di Francia. Questo momento, spesso visto in modo oscuro per il suo corredo di voltafaccia, tradimenti e assassinii, trova però anche momenti di grande luminosità, in una prospettiva anche europea. Tra questi la breve epopea del giovane erede di Carlo III di Durazzo, Ladislao, capace di avviare una vasta campagna di espansione tra il 1399 e il 1414, che gli permise, dopo aver eliminato i pretendenti angioini francesi, di sconfiggere i vari papi di obbedienza romana o pisana, come i comuni di Firenze, Siena e Bologna, portando i sui confini alla Toscana meridionale, all’Umbria e alle basse Marche, fermato solo da una morte precoce.

L’importanza e la centralità di questa dinastia si osserva, oltre alla politica, dal grande sviluppo artistico e culturale che seppero dare all’intero Regno, in particolare nella loro capitale, trasferita da Carlo I da Palermo a Napoli. Un contesto in cui il peculiare gotico seppe dare il suo particolare contributo. La speciale condizione del nuovo dominio angioino, un regno in Italia ma istituzionalmente e culturalmente più vicino alle signorie francesi e fiamminghe, permise infatti all’arte di subire e integrare istanze diverse, riprendendo modelli oltre alpini e nordici, riversati di qui al contesto italiano, mescolandoli alla cultura architettonica, pittorica e soprattutto scultorea italiana, più influenzata dall’antico e dal naturalismo.

Affreschi nel coro della Clarisse di Santa Maria Donnaregina, un complesso sistema di scene narrative profondamente influenzate dalla lezione di Giotto.

Un carattere che sarà un leitmotiv anche nei secoli successivi, permettendo l’influsso della cultura tardogotica borgognona e fiamminga sugli artisti della Napoli aragonese, come Antonello da Messina. Un incontro fatto soprattutto di uomini, che unisce i poeti e gli architetti di origine e formazione francese, autori di parte della Basilica di San Lorenzo, ad autori centrali della cultura italiana, da Petrarca e Boccaccio, molto legati a Roberto d’Angiò e per un periodo residenti a Napoli alle botteghe di Giotto e Simone Martini, grazie alle quali i pittori toscani poterono agire in diverse committenze regie, dalla cappella palatina di Castel Nuovo alla pala di San Ludovico di Tolosa in San Lorenzo, e dare il via alla loro diramazione napoletana.

Quest’impronta multiforme della nuova capitale angioina trova la sua celebrazione monumentale nei grandi complessi legati alla corte, sia come architettura sacra sia con esempi profani. Se in questa seconda categoria ricadono sia i palazzi d’abitazione delle famiglie aristocratiche sia il grande impianto militare e residenziale dei re all’interno della città, con il cuore a Castel Nuovo, punto di controllo del porto e dell’area mediana della città, ma anche residenza dei sovrani rivolta verso il mare, il piano religioso trova i dominatori angioini e la corte rivolgersi in particolare verso l’edificazione delle nuove sedi per i giovani ordini mendicanti, la cui grandezza e importanza si deve sia alla loro centralità tra XIII e XIV secolo sia, nel caso specifico, alla circostanza di collocarsi al di fuori della cinta muraria o in zone poco abitate lungo gli assi di sviluppo della città, garantendo grandi spazi e un legame forte con le nuove classi borghesi.

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La Tavola Strozzi. Anche se essa sia una tavola del Secondo Quattrocento, mostra molti aspetti della Napoli angioina, come il Castel Nuovo, al centro, e Beaufort, sulla collina, e i complessi religiosi di Santa Chiara e del Duomo, primo e terzo a destra

Tra questi il convento domenicano di San Domenico, di fondazione sveva e culla di formazione degli studiosi dell’Università, i conventi agostiniani di Sant’Agostino alla Zecca e San Giovanni a Carbonara, tra il 1287 e il 1339, il convento dell’ordine olivetano di Santa Maria di Monte oliveto, dal 1411, oggi Sant’Anna dei Lombardi. Tra questi spiccano i complessi francescani, da quello maestoso e maschile di San Lorenzo Maggiore, nel 1270, nell’antica agorà, al convento delle clarisse di Santa Maria Donnaregina Vecchia (1316), fino al complesso comune di Santa Chiara (1310), con un chiostro per i frati e uno per le suore. La ricchezza di realtà in questo caso specifico si deve al particolare legame che la dinastia costruì proprio con i frati Minori, utili anche in ottica di politica estera, in parallelo con quanto fatto dai cugini francesi con i domenicani, domini della Sorbona.

Tra questi poderosi interventi, ve n’è uno molto particolare, singolare sia per il suo legame ancora più forte con la dinastia e con la sua idea della città, sia per il fatto che esso sviluppava l’intervento regio su una realtà preesistente e non su una creazione ex novo. Questo luogo è la cattedrale, dedicata a Santa Maria Assunta. Questo luogo centrale nel cuore romano della città rappresenta per molti versi un vero e proprio sommario della storia cittadina, dove ogni secolo ha lasciato una sua pennellata, nella scultura e nella pittura, ma anche nell’architettura, in cui le trasformazioni, anche sostanziali, furono capaci di innestarsi nell’insieme in modo armonico, mantenendo parte del preesistente e accompagnandolo.

Soffitto mosaicato di San Giovanni in Fonte, battistero paleocristiano di Napoli, uno degli esempi più importanti fuori da Ravenna.

Il complesso episcopale partenopeo nacque dalla tarda antichità con la costruzione della basilica paleocristiana di San Salvatore, un grandioso edificio a cinque navate, accompagnato entro il suo perimetro da un battistero monumentale dedicato a San Giovanni in Fonte, con un ricco apparato decorativo a mosaico. Un complesso che lega il suo nome a personaggi importanti, magari solo per tradizione, come l’imperatore Costantino, fondatore della chiesa, papa Silvestro, che l’avrebbe consacrata con la cappella di Santa Restituta, ma soprattutto San Pietro, il quale sarebbe il fondatore della prima comunità cristiana, un’attribuzione dovuta forse ad un confronto politico e identitario con la non lontana Roma. A questo primo nucleo del IV secolo fanno seguito, nel corso dell’Alto Medioevo, altri interventi nel complesso, che vanno ad ammodernare l’edificio originario. In particolare la cattedrale del Salvatore venne restaurata per ben due volte, prendendo in seguito il nome di Stefania. Tale nomea nasceva dai due riformatori, i vescovi Stefano I e Stefano II. Il primo, tra V e VI secolo, avrebbe promosso un primo intervento, mentre il secondo, della metà dell’VIII, ne avrebbe compiuto il restauro dopo un incendio. Un restauro all’antica, tipico di una Campania bizantina profondamente legata ad un continuo riferimento al tardo impero.

In questa prospettiva si inserisce l’intervento angioino, capace di modificare profondamente il panorama. Il nuovo edificio si deve al volere di Carlo I, in accordo con l’arcivescovo regnante, Filippo Minutolo e poi Giacomo da Viterbo. Il progetto venne affidato in origine a maestranze francesi, con una basilica a tre navate, con un transetto più alto e poco sporgente e tre absidi, cui si aggiunsero altre cappelle affacciate sul transetto. Elemento interessante, in un edificio strutturalmente similare non tanto alle chiese francesi a deambulatorio ma alle chiese mendicanti italiane, molto alta e luminosa ma priva del decoro architettonico e delle gigantesche vetrate, è il fatto che il complesso episcopale venne di fatto ruotato di 90 gradi, modificandone il rapporto con la strada.

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Pianta del Duomo di Napoli. Intorno al nucleo centrale si vedono a sinistra la cappella di Santa Restituta e a destra il cappellone del Tesoro. La cappella Minutolo si trova in alto a destra, in parallelo al presbiterio.

San Salvatore venne conservata, mutata con il battistero in una cappella del nuovo luogo di culto, dedicata alla martire Restituta. Il cantiere proseguì oltre la morte di Carlo, lungo il regno il regno di figlio Carlo II, da alcuni considerato il vero fondatore, e da lui affidato a maestranze italiane, tra le quali si fanno i nomi di Nicola e Giovanni Pisano, grandi esponenti della scultura gotica italiana e attivi come architetti e scultori nei cantieri cattedrali di Pisa e Siena. Per la conclusione dei lavori si dovrà attendere però Roberto d’Angiò, figlio di Carlo II, che la inaugurerà e la dedicherà all’Assunta tra il 1313 e il 1314. Un grande cantiere quindi, importante nel suo contesto soprattutto per il suo status di origine rispetto al contesto italiano. Se i grandi complessi dell’Italia centrosettentrionale, nei quali lavorarono parte delle maestranze attive a Napoli, il motore costruttivo nasceva dalla comunità comunale nella sua molteplicità, che vedeva nel cantiere della cattedrale un vero e proprio luogo civico di cui la comunità si sentiva responsabile, nel caso napoletano tale ruolo viene assunto dall’autorevolezza del sovrano, che fonda e sostiene finanziariamente l’impresa, considerandola un elemento della sua politica sul territorio e una propria immagine nella città, in modo similare ai cantieri dei Capetingi in Francia e, più tardi, dei re e imperatori a Praga.

Presbiterio di San Giovanni a Carbonara, sovrastato dal monumento a quattro registri di Ladislao d’Angiò Durazzo.

Un legame che a Napoli diviene ancora più palese. Carlo I e II decideranno infatti, partendo forse da una tradizione transalpina ma anche dai modelli normanni di Ruggero II a Cefalù o di Guglielmo II a Monreale, di far costruire un vero pantheon angioino nel coro poligonale della cattedrale, disponendo qui grandi arche intorno all’altare. Un elemento che diventerà una scelta condivisa dai vari signori di Napoli, che lo allargheranno ai grandi cantieri cittadini, come la famiglia di Roberto d’Angiò a Santa Chiara, altri esponenti a San Lorenzo, Maria d’Ungheria a Donnaregina e, più avanti, il ramo degli Angiò Durazzo nel presbiterio di San Giovanni a Carbonara e la dinastia aragonese a San Domenico e a Monteoliveto. Una prospettiva che supererà, dal Quattrocento, la prerogativa monarchica, venendo assurta, proprio nel Duomo, dagli arcivescovi, che trasformeranno il presbiterio in un proprio feudo.

Nonostante questo forte legame con il mondo monarchico angioino e con il gotico la centralità della cattedrale e le vicende storiche e geologiche della città hanno lasciato segni profondi in questo luogo, rendendolo uno degli edifici che hanno più subito il mutamento delle sue forme primigenie. Da un lato la cappella del Succorpo, al di sotto dell’altare, una grande cripta all’antica con soffitto a lacunari e colonne classiche, nata come un reliquiario per le memorie di San Gennaro, costruito a inizio ‘500 per il cardinale Oliviero Carafa da Tommaso Malvito, probabilmente su progetti di Bramante.

Scorcio della navata centrale della cripta rinascimentale del Succorpo.

Dall’altra la cappella del Tesoro di San Gennaro, il nuovo gioiello seicentesco dedicato al santo, centrale sia per il suo statuto, legato ad una deputazione laica indipendente dal vescovo, sia come tempio al barocco napoletano, con pitture del caravaggesco Jusepe de Ribera e degli emiliani Domenichino e Lanfranco. Una trasformazione che si concluse nell’Ottocento, quando venne totalmente rinnovata tra il 1877 e il 1905 in stile neogotico la facciata a salienti, opera di Enrico Alvito e di architetti e scultori di rilievo, tra cui Francesco Jerace, autore di alcuni gruppi scultorei nel Vittoriano di Roma.

All’interno di questo complicato palinsesto il passato gotico non è del tutto scomparso. Tra le piccole tessere sparse rimaste per l’edificio se ne trova una in particolare, un luogo che è riuscito, grazie al suo particolare statuto, a conservare nella sua totalità il suo aspetto primigenio, permettendo di avere un’idea di come dovesse essere il duomo e Napoli nelle mani della casa d’Angiò. Tale luogo, ultima cappella a destra del presbiterio, è quella della famiglia Capece Minutolo, dedicata ab origine a San Pietro.

La centralità di questo piccolo luogo si sviluppa su più livelli, connessi sia alla sua storia sia a quella dei committenti, sia al fatto di rappresentare materialmente l’evoluzione del gotico in scultura e pittura in un ambiente abbastanza angusto quanto a dimensione. La sua storia primigenia non è del tutto chiara, seppur la si identifichi con un’originaria cappella dedicata a San Pietro e risalente al V secolo, rinnovata a seguito degli ammodernamenti di Stefano II nell’VIII secolo. Seppur di modeste dimensioni, che corrisponderebbero alle due campate piene odierne, il suo ruolo sarebbe stato centrale in rapporto con il complesso cattedrale. Essa, infatti, avrebbe preso il titolo di San Pietro dal fatto di sorgere presso un sacello, un altro antico luogo sacro, fondato proprio da San Pietro, simbolo dell’origine apostolica dell’arcidiocesi. In epoca successiva sarebbe stata inglobata in un campanile della cattedrale, che l’avrebbe accolta fino al rinnovamento duecentesco angioino.

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Visione d’insieme della Cappella Capece Minutolo, con i tre monumenti sepolcrali.

La centralità di questo luogo sorge proprio in questo periodo, connessa al venir sottoposta al patronato della grande e ricca famiglia Capece. Quest’ultima apparteneva alle famiglie più antiche della città, tanto da ricordare e costruire una sua diretta discendenza dei duchi Sergii, la dinastia di duchi bizantini che aveva governato la città tra il IX e l’XI secolo, prima della conquista normanna. La famiglia, feudataria di Canosa, ma anche in Sicilia e in altre parti del Regno, si articolò poi in più rami, di cui quello principale fu detto Capece Minutolo, probabilmente dal soprannome del suo fondatore. Proprio in questo ramo si inserisce il primo protagonista della cappella e dei suoi mutamenti, Filippo Minutolo. La figura di Filippo mostra già in sé la posizione che la famiglia e quindi la cappella vengono ad assumere, ben indicata dalla sua posizione nella nuova cattedrale, tra le cappelle presbiterali, vicina alla cappella maggiore. Filippo infatti divenne, fin dall’arrivo degli Angioini, un uomo importante e di fiducia, che mantenne con la corte fino alla morte nel 1301. Fu più volte ambasciatore per conto di Carlo I, partecipò ad alcune sedute del Parlamento del Regno e fu stretto consigliere di Carlo II. Centrale in questo contesto fu la sua nomina ad arcivescovo nel 1288, che lo portò ad un’attiva opera pastorale, sostenendo opere caritatevoli a Pozzuoli e proponendo, di comune accordo con il re, la rifondazione della cattedrale. Il legame con la corona si manifestò anche in episodi cardine nella storia, come quando promosse una processione di chierici e laici a Castel Nuovo presso papa Celestino V, con l’intento di farlo desistere dalle dimissioni, forse per sostegno alla sua idea di Chiesa, forse per il suo legame di origine con il Regno, oppure consacrando sacerdote Ludovico d’Angiò, secondogenito di Carlo II, futuro vescovo di Tolosa e santo.

Proprio al vescovo Minutolo si deve l’evoluzione della prima fase della cappella. Quest’ultima, coperta da due volte a sesto acuto, si articolava in due campate. Nonostante questa suddivisione i pilastri che sostengono le volte si fermano solo al registro superiore, creando di fatto uno spazio pensato come unitario.

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Il ricco pavimento a rote marmoree e ad intarsi marmorei, con al centro il leone Minutolo

La decorazione parte dal pavimento, un vero e proprio tappeto musivo in marmi policromi. La parte centrale in particolare è caratterizzata da una serie di rote, ossia cerchi, marmorei, con al centro un complicato intrico di tondi grandi e piccole uniti da un fascio multicolore. A questo disegno geometrico fanno compagnia però una serie di immagini zoomorfe, composte di rapaci, cervi e conigli, scene laiche di caccia costruite anch’esse con finissime tessere colorate. Un elemento che spiazza già in questi caratteri, parlando ancora quel linguaggio di origine bizantina e araba che aveva imbevuto il regno normanno e i cantieri cassinesi e che aveva saputo inserirsi appieno nel mondo gotico degli Angiò. Unico dettaglio difforme è invece la rota centrale, in marmo bianco, dove è rappresentato lo stemma di famiglia, un leone rampante abbigliato con una veste a balze a rilievo. A questo rimando alla tradizione, segno della continuità che ancora caratterizzava il primo periodo francese, fa seguito però un contraltare nella decorazione ad affresco parietale. Essa è molto estesa, sviluppata su tre registri sovrapposti sulle due pareti lunghe della cappella, oggi solo parzialmente comprensibili per la caduta degli intonaci specie sulla parete destra, più soggetta all’umidità in quanto rivolta verso l’esterno.

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Parte degli affreschi sulla parete sinistra della cappella. Si riconoscono in alto a sinistra la scena del Quo Vadis, al centro l’incontro con Paolo e a destra in basso la Crocefissione.

Essa si distingue infatti per il grande grado di aggiornamento che dimostra la committenza, aperta alle nuove istanze italiane dell’ultimo scorcio del XIII secolo. In essa si riconoscono, entro i due registri superiori, nelle lunette e nella sezione più alta, scene riferibili agli Atti degli Apostoli, in particolare connesse alla figura di Pietro, cui è dedicata la cappella. Tra di essi si riconoscono episodi come la guarigione di un infermo da parte del Principe degli Apostoli, il Domine quo vadis e l’incontro tra il santo e San Paolo. A essi si aggiungono altri episodi difficilmente riconoscibili, tra i quali scene di martirio, alcune generiche, altre più specifiche, come la crocefissione di Pietro, la lapidazione di Santo Stefano o quello di San Filippo. Il registro più basso ha invece un interesse diverso, rappresentando, oltre ad alcune immagini di argomento sacro, una Maddalena e una Crocifissione di Cristo, entro nicchie, una processione di personaggi laici e religiosi inginocchiati, ritratti in abiti cerimoniali e fantasiose armature da parata, i quali rappresentano i membri più eminenti e famosi della famiglia Minutolo, noti per le loro gesta e meriti civili e militari, in special modo a servizio della dinastia sveva e poi di quella angioina.

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Uno dei personaggi di casa Minutolo, con una cotta di maglia a rilievo.

Un programma quindi complesso, che unisce ad un’esaltazione politica e sociale della famiglia un continuo riferimento alla figura di Pietro, non solo come patrono ma anche come mitico fondamento della cattedra partenopea, retta proprio da Filippo Minutolo. Seppur non vi sia una certezza documentaria sull’autore, egli sarebbe stato identificato con Montano d’Arezzo. Questo pittore toscano, poco noto, ha però un ruolo centrale anche grazie alla cappella. Egli infatti mostra uno stile estremamente aggiornato, memore di Cimabue e delle conoscenze stilistiche della scuola romana di Cavallini e della fase iniziale di Giotto, apprese probabilmente a Roma o nel cantiere della Basilica Superiore di Assisi. Un pittore importante che seppe inserirsi nel grande crogiuolo angioino, dipingendo due cappelle per Carlo II in Castel Nuovo e diventando familiare di Filippo d’Angiò, fratello di Roberto, per il quale realizzò il decoro della sua cappella privata nel suo palazzo, diversi affreschi superstiti in San Lorenzo e la realizzazione della sua cappella nel santuario campano di Montevergine, del quale rimane la grandiosa Maestà.

Il grandioso programma trovava la sua sintesi nel presbiterio. Sempre in linea con questa commistione di stili, il vescovo Minutolo fece qui inserire due elementi, un ricco altare e soprattutto la sua sepoltura. Per quanto concerne il primo egli decise di recuperare un pezzo originario della cattedrale di San Salvatore, inserendo sopra la mensa una capsella marmorea, con la sola fronte decorata. Su di essa, destinata a tabernacolo eucaristico, viene rappresentato un grande arco trionfale sorretto da colonne tortili, in cui è presente una croce potenziata, da cui nascono alcuni rami floreali. Quest’immagine, che richiama l’iconografia del Tempio di Gerusalemme, qui indica il nuovo Tempio eucaristico identificato dalla croce e dall’Albero della Vita che da essa sgorga, accompagnato da due figure sacerdotali, quelle di Aronne e Zaccaria, che hanno il compito di incensare con i turiboli il cuore del nuovo tempio, ossi l’Eucarestia.

Visione d’insieme del sarcofago di Filippo Minutolo, con inserti marmorei sul fronte e un suo ritratto sul gisant che guarda al gotico francese.

A questo elemento antiquario fa seguito la sepoltura. Anche in questo caso il vescovo riesce a mescolare i registri artistici. Accanto ad un gisant, ossia la copertura, nella quale il prelato è rappresentato dormiente abbigliato con i paramenti vescovili, realizzato in uno stile gotico di matrice francese, allungato e idealizzato, con elementi di profondo realismo, come il cuscino, la parte frontale fa ancora riferimento al panorama bizantino, con rote marmoree circondate e legate da fasce multicolori e chiuse in alto e basso da iscrizioni latine in cui si ricorda il committente e le sue virtù.

Questa però fu solo una prima fase del cantiere della cappella, cui diedero seguito i successivi membri della casata, in particolare quelli ecclesiastici. Un primo passaggio in particolare si articola intorno al 1330 e ha come protagonista Orso Minutolo. Se la sua figura risulta politicamente meno rilevante, essendo stato eletto prima vescovo di Otranto e poi di Salerno, la sua sepoltura, unico suo segno nella cappella, lo pone in una posizione di assoluta preminenza. A differenza della tomba di Filippo infatti, si conosce l’identità del suo realizzatore, ossia quella di Tino da Camaino e della sua bottega. Tale identificazione pone l’opera entro la produzione di uno dei più importanti scultori della metà del’300, cresciuto alla scuola di Giovanni Pisano nella cattedrale di Siena e attivo in grandi commissioni, a Pisa, a Siena e a Firenze, oltre che a Napoli, dove realizzerà le sepolture dei duchi di Calabria Carlo e Costanza d’Asburgo in San Lorenzo, di Maria di Valois in Santa Chiara e il suo capolavoro, la tomba di Maria d’Ungheria in Santa Maria Donnaregina. Il suo stile, che subisce l’influenza di Giotto e di Simone Martini, mostra una grande attenzione alla monumentalità e alla plasticità e un interesse al naturalismo e all’espressività, mitigando però sia la forza sentimentale e la composizione mossa e drammatica del maestro Giovanni, preferendo una resa più morbida, elegante e armoniosa. In questo Tino manifesta un tratto tipico del gotico pieno del suo tempo, capace di mescolare lo stile elegante, filiforme e cortese di origine francese alla scuola espressiva italiana. Queste linee sono seguite anche nella tomba di Orso.

Visione d’insieme della tomba di Orso Minutolo, opera di Tino di Camaino

Da un lato il gisant riprende quello di Filippo, con il defunto dormiente in abiti vescovili, realizzato però con un realismo molto acceso, che riprende anche i tratti più sgraziati. Dall’altro il fronte unisce ancora di più le due tendenze. Entro tre tondi si inseriscono tre figure di mezzobusto, Pietro e Paolo ai lati, la Vergine con il Bambino al centro. Proprio la figura della Madonna è in questo interessante. La Vergine infatti presenza tratti molto plastici, con un mento pronunciato, che dialoga con un Bambino dal volto molto espressivo dalla gestualità muscolosa, che lo rendono simile ad un bambino reale e, allo stesso tempo, alle prime istanze classiche del protorinascimento. Questi tratti molto italiani si inseriscono in un contesto gotico francese, visibile sia nel formato della decorazione stessa, con inserti fitomorfi, nei volti dei due santi romani, più asciutti e ingentiliti, sia in alcuni dettagli, come la resa delle chiavi petrine o la corona della Madonna, di pura cultura francese.

L’apoteosi della Cappella Minutolo si raggiunge però con il terzo protagonista, Enrico Minutolo, che la modificherà tra la fine del XIV secolo e l’inizio del Quattrocento. La figura di Enrico riprende nel suo operato la centralità che era stata del suo antenato Filippo. Egli infatti seppe destreggiarsi e porsi in primo piano in un periodo contorto della storia europea, tra le lotte dinastiche angioine a Napoli e il sorgere dello Scisma d’Occidente. In entrambi i casi Enrico e la sua famiglia seppero muoversi in modo ambivalente, riuscendo ad ottenere diversi vantaggi. Nel caso di Enrico fu centrale in particolare la sua lunga carriera ecclesiastica. Cresciuto come vescovo a Bitonto, Trani e poi Napoli, riuscì ad entrare all’interno della Curia, grazie sia alle parentele con i papi romani Urbano VI e Bonifacio IX, sia per la fedeltà che lo legava proprio al partito residente a Roma. Tale condizione gli garantì sia ruoli pastorali come vescovo di Tuscolo e cardinale di Sant’Anastasia, sia politici come governatore a Bologna e in Romagna. La sua adesione al partito romano lo spinse tuttavia a tentare di ricucire lo scisma, a inizio ‘400, prima in un convegno a Siena e poi partecipando al concilio di Pisa, con il compito di esautorare entrambi i contendenti ed eleggere un nuovo papa, Alessandro V, partecipando poi, nel 1410, anche all’elezione del successore Giovanni XXIII, Baldassarre Cossa. Morì infine a Bologna nel giugno del 1412, venendo poi spostato nella sua cappella a Napoli, entro il sarcofago che si era fatto costruire.

Lunetta del portale centrale del Duomo, dove si riconoscono una madonna con il bambino di Tino di Camaino e ai lati San Pietro a sinistra e il cardinale Enrico Minutolo, presentato da San Gennaro, opera di Antonio da Priverno

Una figura di altissimo livello, che seppe lasciare traccia anche monumentale, sostenuto proprio dalla famiglia, sostenitrice di re Ladislao e vicina al vescovo di Napoli Giordano Orsini. Tra di essi il totale rinnovamento del Palazzo Vescovile e dei suoi annessi e soprattutto il restauro della facciata, in particolare del portale maggiore, il cui decoro si conserva oggi. Nella lunetta centrale, da lui affidata ad Antonio Baboccio da Priverno, il cardinale inginocchiato viene rappresentato davanti alla Madonna con il Bambino, opera recuperata di Tino da Camaino, accompagnato a sinistra da San Pietro e a destra da San Gennaro. Una scena altamente simbolica, con un’iscrizione di dedica e da un fregio con le armi dei Minutolo e dei Durazzo. Vero centro del suo intervento è però la cappella, nella quale operò coadiuvato dalla congiunta Isabella Romano, sia nella sua trasformazione che nel suo statuto. Attraverso i rapporti con i parenti e con papa Innocenzo VII, succeduto a Bonifacio IX, il cardinale riuscì ad ottenere diversi vantaggi per il luogo di culto, che venne ampliato con una terza campata a tribuna coperta ad ombrello e venne ufficialmente riconosciuta come juspatronato della famiglia, indicato all’ingresso da un’iscrizione marmorea sul pavimento. Ottenne per essa anche un’indulgenza plenaria in occasione della messa natalizia e di quella per San Pietro e la dotò di diverse rendite per sostenerne le spese di mantenimento.

Ma il grande sforzo fu compito soprattutto in materia artistica. Un primo passo fu la decorazione del nuovo settore absidato, affidato ad un autore ignoto quattrocentesco di cultura tardogotica, al quale vennero chieste scene della Passione di Cristo, da dipingersi sulle pareti oblique. Tra esse si riconoscono L’Ultima Cena, la preghiera nel Getsemani, la cattura, L’Ecce Homo, la Flagellazione, L’andata al Calvario, la Crocefissione e la Resurrezione. Volle inoltre inserire due scene sui muri di collegamento con l’edificio originario, oggi leggibili solo a sinistra, con una Madonna con il Bambino, Santa Caterina e Anastasia, patrona del cardinalato di Enrico. Cuore della trasformazione è il monumentale monumento funebre, un massiccio baldacchino voltato che occupa tutta la parte centrale della tribuna. Esso assume qui anche un valore nel contesto del gotico della cappella.

Visione d’insieme della tomba di Enrico Minutolo. Si può vedere anche al di sotto il tabernacolo di Filippo Minutolo, trasformato in una finestra per le reliquie

Se i predecessori Filippo e Orso rappresentavano l’arrivo di questo stile in Italia e il suo amalgamarsi alla compagine italiana, l’intervento di Enrico, tra Trecento e Quattrocento, si inserisce a pieno nella cultura del tardogotico europeo, caratterizzato sia dalla completa assimilazione dei diversi caratteri sia soprattutto nello sviluppo degli elementi propri di questo stile, sia nell’iperdecorazione sia nel portare all’estremo alcune ricerche precedenti. Un monumento in questo capitale, anche per un suo carattere, ossia la presenza del colore, realizzato con tempere all’uovo e solitamente perduto negli altri mausolei del periodo. La tomba si struttura come un monumentale padiglione gotico, sorretto da leoni stilofori e da colonne tortili, decorate a bande alternate da festoni di fiori e frutti, sorreggenti la volta aperta su tre lati da archi acuti polilobati. Su di essi una ghimberga, ossia una cuspide centrale con due guglie. Mentre le guglie riportano immagini di santi e, in alto, un Angelo annunciante e una Vergine Annunciata, la cuspide si conclude in alto con una rappresentazione dell’arma di famiglia, cui si sovrappone un Cristo Benedicente e, al culmine del baldacchino, una Madonna con il Bambino. La tomba e l’altare vi si trovano al di sotto, sorretti da colonnette tortili e da due angeli, che raffigurano due virtù, La Carità e la Mansuetudine, rese con un tono profondamente naturalistico. Il fronte della tomba si articola con una funzione funebre ma anche liturgica, come pala d’altare. A una predella rappresentante la teoria degli Apostoli, entro archi polilobati, con al centro la Vergine, fa seguito il registro centrale, diviso in tre parti. Il centro è preso dalla Natività. Tale tema scelto, oltre a far riferimento all’Eucarestia, si deve forse alle vicende personali del cardinale. La chiesa di Sant’Anastasia a Roma, della quale era titolare, era infatti sede prescelta tradizionalmente per la celebrazione delle messe natalizie, dalla vigilia fino alla sera, un elemento connesso anche all’indulgenza papale prevista proprio per quella celebrazione.

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Dettaglio della parte centrale del mausoleo. Al livello più alto la tomba, al di sotto la Natività, i santi e il donatore, infine la teoria degli apostoli

Ad accompagnare la scena sacra si pongono alcuni santi, che presentano il donatore in ginocchio, in vesti cardinalizie e con le mani inanellate. Tra questi da sinistra San Gerolamo, scelto forse come emblema del cardinale umanista, in cui Enrico si immedesimava, insieme con Sant’Anastasia, rappresentata in abiti regali con una corona alla francese, simbolo del martirio, titolare del suo cardinalato e alla quale venne allargato il patronato, insieme a San Pietro, sul fronte opposto. Ultima figura è quella di San Gennaro, patrono della città, scelto come suo predecessore sul soglio partenopeo e forse per il suo nascente culto, connesso con le prime liquefazioni.

Il terzo registro trova invece la tomba. Essa si sviluppa come un vero letto a baldacchino, entro cui la figura dormiente del cardinale in abiti vescovili è accompagnata da tre figure angeliche, che fungono da oranti, mentre altri due angeli da fuori, scostano le cortine delle tende facendo vedere all’interno. Un modello non isolato, che si può confrontare con precedenti illustri, come la tomba di Maria d’Ungheria o quelli contemporanei di Ladislao di Durazzo o della madre Margherita di Durazzo nella cattedrale di Salerno.

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Sepolcro di Maria di Durazzo, moglie di Carlo III d’Angiò nella navata della Cattedrale di Salerno

Il coperchio, a tronco di piramide, riporta sul fronte un Imago Pietatis, con Cristo che mostra i segni della Passione, mentre la Crocefissione è scolpita al di sopra, in toni espressivi e drammatici, con i dolenti Maria e Giovanni e un Cristo crocifisso che poggia i piedi sul teschio di Adamo, reso in modo tanto sintetico da sembrare un’opera contemporanea.

La cappella dei Minutolo, dopo questo grande intervento quattrocentesco, rimase un ruolo centrale e importante, seppur privato, della cattedrale. Centrale per la famiglia, che continuò a seppellire qui i suoi defunti, tra i quali Giovan Battista, la cui sepoltura sul pilastro esterno fu scolpita da Gerolamo d’Auria a fine ‘500. Un ruolo anche per la vita sociale e religiosa dell’episcopio, sia venendo visitata durante i funerali dei canonici, che giungeva qui per le orazioni destinate a vescovi e cardinali, sia portando le autorità a destinare l’apertura del portale destro della facciata, quasi in asse con la cappella, solo in occasioni particolari, come le cerimonie della famiglia. Una fama e una ricchezza che risuonano nella letteratura italiana. È proprio nella cappella, e in particolare nel sepolcro di Filippo Minutolo, che Boccaccio ambienta la novella di Andreuccio da Perugia. Giovane perugino a Napoli per comprare cavalli, egli sarebbe stato derubato da una bella e bionda siciliana, fino ad essere assoldato da dei ladri per rubare il ricco anello del cardinale. Messo nella tomba avrebbe spaventato i complici e gli astanti, riuscendo a recuperare il denaro perduto.

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Dettaglio di uno dei capitelli del sepolcro di Enrico Minutolo. Nel ricco decoro si riconoscono i quattro evangelisti e la ripetizione del cappello cardinalizio.

Un luogo particolare, la cappella Capece Minutolo. Un monumento apparentemente nascosto, che è riuscito attraverso la sua storia a conservare il suo contesto quasi totalmente intatto, nel quale si presenta l’immagine del suo tempo, un Medioevo variegato, fatto di uomini potenti e amanti delle arti, fatto di colore che rende vive le pareti e le sculture, che rende evidente quanto, anche nello stesso stile e quasi nel medesimo secolo, l’arte possa mutare in un panorama vario e diversificato.

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