Quante volte capita, visitando una grande città o capitale del mondo o d’Europa, che l’attenzione sia spinta e rivolta solo ad alcune realtà o monumenti, perle assolute, letteralmente isolate e sciolte, dalle altre attrattive e da quel fitto tessuto a ragnatela nel quale si trovano ad essere. Un elemento fondamentale, perché dà un contesto, un panorama, entro cui quelle opere trovano una collocazione e un ruolo in rapporto con altre, come anelli di un incrocio di catene. Una condizione che, se con frequenza caratterizza realtà importanti ma piccole e ignote, colpisce soprattutto quando ad esserne protagonisti sono pezzi più grandi, il cui aspetto, collocazione o la cui storia possono far credere immuni a questo status. Se a Londra, Parigi o Roma la varietà di opere di scultura, pittura e architettura riesce a rendere bene la loro natura varia e caleidoscopica, altre città, altrettanto famose e importanti, rischiano invece, pur avendone la natura, di lasciare di sé una visione unilaterale, come di un’isola dispersa nell’oceano.

Un caso in questo emblematico è quello di Atene, la capitale della Grecia. Una grande realtà, giustamente famosa come una delle culle della cultura occidentale, il crogiolo dove si sono sviluppate l’arte classica, il teatro, la retorica, la filosofia e la democrazia. Una storia che si materializza nel suo centro, in un luogo che sembra voler essere per definizione, per altezza e centralità, il suo simbolo. Questo è l’Acropoli, la parte alta dell’antica polis, il luogo del sacro ma anche del potere. Concetti che essa esprime attraverso le sue aree di culto ma anche attraverso il teatro di Dioniso, sulle sue pendici, o in quel monumento tra sacro e politica di marmo che è il Partenone, manifesto di Pericle e dell’Atene trionfante della metà del V secolo a. C. Eppure questa realtà importantissima, cuore dell’Atene antica e di quella di oggi, ha col tempo concentrato su di sé tutta la luce ed ha abbagliato, come un faro, lo sguardo di coloro che l’hanno visitata, portando a schiacciare lo spazio e il tempo su quell’unico monumento, oscurando la città stessa che ha dato origine all’Acropoli, sia nei luoghi che gli sono contemporanei sia in quelli che la storia le ha donato nei suoi secoli di vita, dall’Antichità al medioevo bizantino e latino, dall’età Ottomana a quella della modernità, capitale monumentale della nuova Grecia. Un processo a cui ha dato seguito anche il nazionalismo tra Ottocento e Novecento, immaginando e costruendo un’idea di Grecia più assonante al suo tempo che alla realtà storica nella quale si aggirava.
In questo vasto palcoscenico e palinsesto, mescolanza di tempi, funzioni, personalità e idee, contorto anche per la forma variegata e spontanea della città, in una pianura irregolare con diverse colline affioranti, può trovare spazio in particolare un monumento, che mostra in modo quasi palese la condizione di cui si è detto. Uno status che risalta ancora di più se si considerano i suoi caratteri, dalle dimensioni al posto in cui si trova, oltre dalla sua storia straordinaria, che lo pone quasi come un vero racconto in pietra della storia di Atene, dalle sue origini sino alla sua modernità. Questo monumento è il tempio dedicato a Zeus Olimpio, noto anche Olimpieion.

Il tempio di Zeus è un edificio estremamente interessante, seppur poco noto, per molti dei suoi caratteri, sia fisici sia soprattutto storici, dettati dal fatto di poter vantare non solamente una storia millenaria, ma soprattutto una vita tormentata, fatta di progressi rapidi e arditi, ma anche di lunghe pause e stasi, una vicenda di continue rinascite, che lo hanno portato ad avere almeno tre padri fondatori. Un percorso utile anche a rappresentare anche come attori diversi, agendo nello stesso luogo, abbiano potuto farne idealmente un manifesto di sé, della loro politica e del loro rapporto con la capitale dell’Attica.
La storia di questo luogo, dedicato al padre degli dèi e focus della mitologia greca, si sviluppa in un contesto particolare, seppure non vi sia una certezza archeologica sicura. Il tempio viene infatti collocato all’interno della parte più pianeggiante della città, all’interno della valle dell’Illisso, uno dei due fiumi che definiscono topograficamente l’Atene storica. Significativa è anche la sua posizione rispetto alla città antica all’epoca già esistente, per il fatto che si trovi esattamente sul fronte opposto rispetto al cuore politico e archeologicamente complesso di Atene, ossia l’Agorà, alle spalle del grande altopiano dell’Acropoli, sul lato verso cui la cittadella non garantisce alcun tipo di accesso, se non una piccola pusterla. Condizioni interessanti, perché garantiscono grandi spazi piani e soprattutto un terreno vergine sul quale costruire.

Una prima traccia, seppur molto sfumata e con poche certezze di scavo, dettate dall’essere stato un sito molto manipolato, si riferisce ad un primissimo tempio, databile alla prima età arcaica, circa il VII secolo a. C., costituito di un tempio in poros, una pietra locale grigia e giallastra tipica dell’Attica, costruito in una forma molto semplice, ossia periptero, ossia con una cella, con pronao d’ingresso colonnato, circondata da una sola fila di colonne di stile dorico. Il primo vero passaggio epocale che dà importanza e fama al tempio di Zeus si sviluppa però a partire dalla seconda metà del VI secolo, un periodo importantissimo per la Grecia antica e soprattutto per la stessa Atene, un momento capace di sviluppare vicende con una risonanza non solo nel presente ma anche nel futuro. Il luogo sacro venne in questo momento posto sotto la protezione e sovvenzionato dal cuore politico della città dell’attica, ossia dal tiranno Pisistrato e, dopo la sua morte e per un breve periodo, dai figli Ippia e Ipparco.
Il rapporto che Pisistrato ebbe con l’Olimpieion, da questo punto di vista, è significativo per diversi aspetti, non ultimo quello dello stesso profilo che, dalla Grecia classica fino ad oggi, è venuta ad assumere la figura del tiranno. Se oggi questa parola assume per antonomasia una connotazione negativa, simbolo dell’uomo di potere autocratico che manifesta e mantiene il suo potere eliminando la libertà e agendo con violenza e senza legittimità, nel mondo preclassico la sua semantica era più ampia, variegata e ambigua. Per i contemporanei di Pisistrato infatti, il tiranno veniva ad assumere spesso una posizione intermedia, un uomo solo che governava scontrandosi e combattendo l’aristocrazia che, fino a quel momento, aveva avuto il pieno controllo sulla città. I tiranni, di solito essi stessi membri della classe aristocratica con vaste proprietà terriere, spingevano quindi per sostenersi su di un vasto sostegno popolare, legato in particolare a quelle fasce meno abbienti della società urbana. In tal senso essi puntavano su interventi di ampio respiro, come riforme di tipo amministrativo, che indebolivano le strutture tradizionali delle grandi famiglie, così come sviluppavano spesso una politica economica diretta verso l’attività artigiana e commerciale, facilitando così le classi intermedie, e sfavorendo con ciò la grande proprietà. Sviluppavano anche grandi realtà comunitarie, come grandi feste e processioni, ma soprattutto lavori pubblici ad ampio spettro, capaci non solo di un valore elogiativo verso di sé, ma anche un bacino di lavoro per le classi disoccupate o meno abbienti. Su questa linea si mosse anche Pisistrato.

Egli infatti, legato all’aristocrazia ateniese, parente di Solone e con un buon seguito militare acquisito contro Megara, riuscii per ben tre volte ad ottenere il potere in città, occupando l’Acropoli la prima volta, giocando e alleandosi alternativamente con le litigiose famiglie aristocratiche cittadine, fino all’esilio momentaneo degli Alcmeonidi, futura famiglia di Pericle. La loro fuoriuscita non portò però ad una stridente conflittualità con l’aristocrazia, con cui ebbe buoni rapporti, appoggiando e sostenendo le classi subalterne. Per questo favorì una struttura più organica di gestione dell’Attica, tramite funzionari ateniesi che amministravano la giustizia nei demi di campagna, a discapito del controllo aristocratico, un legame favorito anche grazie al sostegno ai culti poliadici, ossia le divinità più legate a tutta la città e meno ai culti dei singoli clan, come la nascita delle feste Panatenee. Ebbe un ruolo importante anche nella politica economica ed estera, favorendo da un lato la nascita delle prime dracme ateniesi, con la caratteristica civetta, ma anche lo sviluppo qualitativo e quantitativo dell’artigianato, che grazie a questa politica vide prevalere la ceramica attica su quella corinzia, fino a quel momento egemone e simbolo del potere della sua polis di origine. Uno sviluppo possibile anche grazie ad una fitta trama di rapporti, sia con i tiranni di madrepatria e d’Asia, ma soprattutto con una sempre maggior presenza economica e politica nell’Egeo, specie nelle Cicladi, ma anche nell’Ellesponto, vero corridoio tra Mar Nero e Mediterraneo, ove si stabilirono comunità ateniesi, come i parenti di Milziade. Una prospettiva che trova il suo culmine nella cultura, grazie alla quale Pisistrato ospitò ad Atene poeti come Anacreonte e Simonide, finanziò la prima forma scritta dei canti omerici dell’Iliade e dell’Odissea, oltre che, a cavallo tra politica e arte, nei grandi cantieri.
Tra questi progetti di ampio respiro dal punto di vista architettonico, tra i quali si trova la parziale ricostruzione dell’acropoli arcaica e del tempio di Atena Polias, oggi noti attraverso scavi e resti conservati dopo la Seconda Guerra Persiana, si colloca proprio l’Olimpieion. Anche se probabilmente pensato all’epoca di Pisistrato, l’inizio dei lavori si deve ai suoi figli, che lo cominciarono nel 520 a. C. I progetto che Ippia e Ipparco volevano manifestare doveva essere un probabile segno del loro potere, oltre che testimoniare il loro aggiornamento allo stato dell’arte dell’epoca. Il progetto infatti prevedeva un tempio maestoso, costruito con il medesimo calcare del precedente, ma di dimensioni molto più grandi. In stile dorico, il tempio avrebbe presentato una cella con pronao, l’atrio d’ingresso, e un opistodomo, che lo ripete sul retro, circondati da due file di colonne su ogni lato, dandogli così la forma di un tempio diptero, largo 41 metri e lungo 108.

Queste forme monumentali, oltre che la disposizione delle colonne e le sue proporzioni, che non rispettavano il successivo canone classico del numero doppio di colonne più uno sui lati lunghi, non usuali nella terraferma greca, portano a pensare ad un prototipo asiatico, in particolare a quegli edifici templari grandiosi che caratterizzavano le colonie orientali, come l’Artemision di Efeso, o come i templi che i tiranni asiatici stavano costruendo proprio in quegli anni, dal tempio di Apollo a Dydima, vicino a Mileto, al tempio di Hera a Samo, nato nel 570 a. C già diptero e monumentale(52,5×105 x 18 m di altezza), e ulteriormente ingigantito dal tiranno Policrate(55x 112m). Questo progetto “faraonico”, come quello di Policrate non vedrà però del tutto la luce, congelato dalle lotte interne alla città con l’assassinio di Ipparco nel 514 e la cacciata di Ippia nel 510 a. C.
La storia del tempio entrò così in un primo periodo di stasi, condizione che visse per circa quattro secoli. Tale condizione nacque probabilmente da molteplici fattori. Da un lato la motivazione più significativa e più riportata dalle fonti fu quella politica. Il tempio di Zeus, anche se dedicato al padre degli dèi, era una “creatura” nata dal periodo tirannico e che la nascente democrazia, che doveva molti dei suoi aspetti al precedente tirannico, non poteva continuare. Questa linea, che vide il cantiere fermo e parte dei materiali riutilizzati per l’allargamento delle mura della città all’inizio del V secolo con Temistocle, portò il tempio ad assumere anche una valenza più ampia della sua realtà particolare. Lo stesso Aristotele, vissuto un secolo e mezzo dopo, descrisse il tempio di Zeus come un vero emblema dell’agire tirannico, che coinvolge la cittadinanza in progetti maestosi per distogliere la sua attenzione dalla vita politica e attiva. A questa motivazione centrale se ne possono accostare altre, forse più prosaiche. Da un lato la città democratica concentrò il proprio sforzo costruttivo in altre opere significative, come il grande programma dell’Acropoli, che si presentava come lo vediamo oggi, all’Agorà e al Pireo, il porto unito come da un cordone ombelicale alla città. Dall’altro la posizione del tempio, in una zona non particolarmente urbanizzata e a ridosso della nuova cerchia di mura poteva far pensare ad un uso diverso dell’area.
La seconda vita del Olimpieion invece si colloca qualche secolo più avanti, interessante sia sul lato artistico che su quello storico politico, dettato dal ruolo svolto nel mondo mediterraneo dal suo committente. Il personaggio coinvolto è infatti Antioco IV di Siria, discendente della discendenza macedone dei Seleucidi. La sua importanza sul monumento ateniese è interessante sia per il significato politico della scelta sia per la presenza, apparentemente inusuale, dei successori dei diadochi entro le poleis greche, mentre solitamente associati alle loro grandi capitali di Alessandria, Pergamo ed Antiochia.

Il caso ateniese è in questo singolare, data proprio la presenza di esempi interessanti, dal piccolo donario di Attalo, un complesso gruppo scultoreo filelleno posto sull’Acropoli da Attalo I o II di Pergamo tra il III e il II secolo, alle due stoa di Eumene II e Attalo II sull’Acropoli e nell’agorà, quest’ultima ricostruita dagli americani negli anni ’50, fino al Monumento a Filopappo, mausoleo del principe del regno di Commagene in Turchia orientale, costruito nel 116 d. C.
Seppur meno famoso di molti suoi predecessori, come Seleuco I, il fondatore, o il padre Antioco III, che fu uno dei grandi avversari di Roma nel II secolo a.C., almeno fino alla battaglia di Magnesia, Antioco IV ebbe una sua importanza internazionale. Un sovrano che fece un’ambiziosa politica estera, ma che dovette fare i conti sin dall’inizio con la nuova potenza romana. Cresciuto come ostaggio a Roma dopo la pace di Apamea, costruì con i romani un rapporto florido, che lo portò a creare legami con senatori e a comprendere molti aspetti della cultura e della politica romana, dai giochi gladiatori all’organizzazione dell’esercito, che egli volle introdurre in Oriente al momento della sua incoronazione nel 174 a. C, mediandoli con i caratteri ellenistici precedenti. La sua politica fu fin da subito ambigua, appoggiandosi in parte a Roma e in parte al composito mondo ellenistico, che con Eumene II di Pergamo appoggiò la sua ascesa al trono dopo l’assassinio del fratello, prima come reggente per il nipote e poi direttamente come sovrano.
Questo tratto si mantenne anche negli anni successivi, quando diede avviò ad una politica di nuovo sviluppo dei Seleucidi, sconfiggendo i briganti e pirati che imperversavano nell’area della Cilicia e avviando un’opera di sviluppo sociale e urbanistica soprattutto nei suoi possedimenti mediorientali, con la costruzione di città e trasferimenti di coloni greci in nuovi quartieri ad Antiochia e Babilonia.

Uno sviluppo che si fece anche militare, con la ricostituzione di una flotta e l’acquisto di elefanti da guerra, in sfregio al trattato costruito con i romani. Il banco di prova fu quindi la grande campagna avviata contro Tolomeo VI per il controllo dell’area oggi tra Libano e Palestina. Recuperati questi territori al regno di Siria, Antioco tentò di costituire un rapporto di vassallaggio dell’Egitto, aiutato in ciò dalle lotte interne alla dinastia egiziana. Un tentativo vano, che si risolse in un successivo intervento ancora contro Tolomeo VI e il fratello Tolomeo VIII, con l’intento in questa occasione di costruire un reale controllo siriaco anche sulla ricca terra a cavallo del Nilo. Un tentativo che però dovette tenere conto di Roma. Il senato infatti, richiamato proprio dagli egiziani, costrinse il sovrano nel 168 a.C. ad abbandonare l’Egitto in cambio di una pace duratura, utile all’Urbe ad evitare la rinascita di un nuovo potente nel Levante. La fine di quest’epopea vide Antioco vivere una parabola discendente, legata da un lato dallo sviluppo del nuovo impero partico nelle satrapie più lontane e orientali, dall’altro dall’evoluzione dell’evento che più si collega ad Antioco IV, ossia la rivolta giudaica guidata da Giuda Maccabeo e dai suoi parenti, una sollevazione nata dal conflitto tra siriaci e ebrei nel corso della campagna egiziana.
La rinascita del tempio di Zeus si colloca in particolare all’inizio di questa parabola, congiunto alla presa di potere di Antioco. Le stesse scelte stilistiche identificano le volontà del nuovo signore di Siria.

Antioco in particolare darà avvio ai lavori nel 174 a.C, l’anno della sua incoronazione, scegliendo il contesto ateniese per il forte legame che aveva costituito con lei negli anni successivi alla prigionia romana, periodo nel quale vi aveva risieduto. Lo stile scelto è in questo interessante, mostrando il suo legame sia con l’occidente romano che con il mondo ellenistico orientale. Su di un fronte in particolare decise di mantenere la conformazione originaria del tempio, rendendolo però ancora più maestoso, tanto da diventare il più grande tempio della grecità, con una successione di 104 colonne alte 17 metri e larghe 2, aggiornandole però nella parte più alta, ponendo qui capitelli corinzi. Cambiò anche il materiale utilizzato, preferendo al calcare il marmo pentelico, estratto sull’omonimo monte sulla via di Maratona, ma più elegante e prezioso. Questi elementi, derivati dagli sviluppi che la tarda classicità e l’ellenismo, mostra quanto essa dipenda dai grandi cantieri propri dell’età dei diadochi, dove l’armonia greca dialoga con le spinte al monumentalismo del vicino Oriente e del mondo persiano. Elemento interessante è però che il progetto non venga affidato ad un architetto greco o siriaco, ma ad uno romano, Decimo Cossutio, simbolo in questo sia del fortissimo legame del sovrano con l’Urbe e la grande influenza della città fuori dai suoi confini prima della conquista effettiva della Grecia, ma anche del grado di comprensione e applicazione che già all’inizio del II secolo gli artisti romani dimostravano riguardo l’arte e l’architettura di origine greco orientale.
Il grande progetto di Antioco rimase tuttavia, come il suo illustre predecessore, in uno stato di cantiere. Questa condizione non privò tuttavia il tempio di una sempre maggiore importanza, mostrata sia dalla scelta di Lucio Cornelio Silla di asportarne due colonne e trasferirle a Roma presso il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, preludio ad una sua ricostruzione, sia dalla volontà dei sovrani alleati di Roma, circa mezzo secolo dopo, di finanziare il completamento dell’edificio, da dedicare contestualmente al genio del primo imperatore, Ottaviano Augusto. Tale volontà ricostruttiva diverrà realtà solo nella prima metà del II secolo d. C, con il terzo fondatore, l’imperatore Adriano.

L’intervento adrianeo sul tempio di Zeus manifesta un ruolo altrettanto centrale, in particolare per il taglio urbanistico che viene ad avere nella mente dell’imperatore. Il forte legame che l’imperatore filelleno riuscì ad avere con le varie province dell’Impero, in particolare con la Grecia e le realtà orientali, spinse Adriano ad intervenire anche visivamente in molti di questi contesti, compresa la città ellenica per eccellenza, ossia Atene. Qui di età adrianea si riconoscono interventi diversi, tra i quali la maestosa biblioteca all’interno dell’agorà. Ma proprio l’Olimpieion rappresenta un elemento innovativo e simbolico. Il tempio dedicato a Zeus infatti andò a porsi come nucleo e centro di una vera e propria espansione urbanistica che interessava l’area ad oriente dell’Acropoli, laddove dopo l’indipendenza si svilupperà la città moderna, con Piazza Syntagma, lo Zappeion e lo stadio Panatenaico. Questa prospettiva trova la sua sintesi nel grande arco, noto con il nome dell’imperatore, che troneggia su due livelli a pochi passi dal tempio. Su di esso Adriano fece scrivere “Questa è la città di Teseo e non di Adriano”, sul lato rivolto ad occidente, verso l’Acropoli e viceversa sul lato che dal tempio si apriva verso meridione e oriente.
Le scelte in materia artistica nel tempio di Zeus sono in questo caso di continuità.

Adriano fa completare il tempio più o meno sulle linee dategli da Antioco, inaugurato ufficialmente nel 132 d.C. Un grande sviluppo si ebbe nella decorazione e nell’apparato sia esterno che interno. A quattro statue in marmi orientali e egiziani dell’Imperatore faceva seguito un ricco corredo interno, fatto di marmi policromi, rilievi alla base delle colonne con personificazioni delle province, statue bronzee di divinità ma anche di uomini famosi come l’oratore Isocrate o il mitico re di Atene Deucalione, riconosciuto come primo fondatore del tempio. Questo ricco contesto era coronato da un lato da una gigantesca statua di Zeus nella cella, realizzata crisoelefantina, ossia con parti in oro e avorio, segno di ricchezza ma anche oggetto antiquario memore dei capolavori di Fidia ad Atene e soprattutto ad Olimpia, ma anche da una colossale statua dell’imperatore, posta all’interno dell’opistodomo sul retro.

Le grandi trasformazioni del tempio di Zeus trova quindi una nuova vita dopo l’epoca d’oro dell’Impero Romano, con una continua evoluzione. Fu nel corso del III secolo saccheggiato e danneggiato dagli Eruli, popolo germanico che invase i Balcani intorno al 260, venendo quindi restaurato, rimanendo attivo almeno fino all’editto di Tessalonica, che riconobbe con Teodosio I il cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero, o comunque al 425 d.C con Teodosio II, con la chiusura definitiva di tutti i templi pagani.
La sua centralità e il suo ruolo, anche in quello di rovina, rimasero anche in epoca moderna. Il suo stato di rovina lo pose fin da subito come ambito luogo di raccolta di materiale da costruzione per nuovi edifici, dalla grande basilica tardo antica e bizantina che sorse nelle sue vicinanze tra V e VI secolo alla moschea di Tzistarakis, costruita nel Settecento su modelli codificati sin dall’epoca di Solimano il Magnifico e oggi uno dei punti di riferimento del quartiere di Monastiraki. Uno stato di abbandono che cominciò però ad attirare l’interesse di intellettuali e umanisti sin dalla fine del Medioevo, come dimostra una sua riproduzione nei taccuini di Ciriaco d’Ancona, umanista italiano della metà del Quattrocento e noto per essere uno dei primi occidentali ad avere un contatto diretto con le antichità greche.

Il tempio mantiene oggi 16 del 104 colonne originali, di cui una caduta e smontata dei rocchi, ossia le sezioni che la compongono, per terra, frutto di un fulmine che la colpì nel 1852. Una storia che torna protagonista con gli scavi, proprio dal 1889, con le campagne della Scuola Inglese di archeologia di Atene, guidata da Francis Penrose, autore di ricerche sull’acropoli e nel sotterranei della cattedrale di Saint Paul, per continuare ad inizio ‘900 con il tedesco Gabriel Welter, ricercatore anche in altri contesti europei e sull’isola di Egina, di cui studiò il tempio di Atena Aphaia, fino al greco Ioannes Travlos, attivo a partire dagli anni ’60 del XX secolo.
Il tempio di Zeus Olimpio ad Atene è un monumento assai significativo, anche se poco noto. Un luogo ricco di una storia variegata, fatta di momenti di gloria e periodi di sonno, attraverso i quali i suoi tre fondatori hanno scolpito nella pietra epoche e momenti della storia del Mediterraneo, ma anche simbolo dei mutamenti storici di una città capitale, ricca di storie più vaste di ciò che ci si aspetterebbe. Tessere di quel vasto mosaico che è la storia e l’arte della terra sacra ad Atena.