“E io Agnolo di Tura, detto il Grasso, sotterrai cinque miei figlioli co’ le mie mani; e anco furo di quelli che furono sì mal coperti di terra, che li cani ne trainavano, e ne mangiavano di molti corpi per la città”
Si stava avvicinando la fine del mondo. Presto sarebbe sorto il Giorno del Giudizio nel quale Dio avrebbe giudicato le anime degli uomini. Questo devono avere pensato molti dei contemporanei di fronte al diffondersi inesorabile della Morte Nera. Le immagini di desolazione mortale e di disperazione evocate da Agnolo di Tura divennero comuni non solo a Siena, patria del cronista, ma in tutta l’Europa. La Peste del 1348 sarà quindi al centro dell’articolo di oggi, nel quale proveremo a spiegarne le origini così come a scoprire quali furono le conseguenze.

Iniziamo col dire che la peste fece capolino un Europa dal tessuto socio-economico già compromesso. Circa trent’anni prima dell’inizio della pandemia infatti si interruppe definitivamente quella fase di grande sviluppo economico e demografico che aveva caratterizzato il Vecchio Continente nei tre secoli precedenti. Già verso la fine del Duecento l’economia europea aveva iniziato a mostrare i primi segni di affanno, testimoniati da un rallentamento della produzione e della crescita demografia. Ciò era imputabile allo squilibrio creatosi tra popolazione e risorse disponibili per alimentarla. Tra il X e il XIII secolo la popolazione europea passò da 36 a 80 milioni di individui. Tale spettacolare incremento demografico fu accompagnato dal dissodamento di nuove terre ma via via che la popolazione aumentava, non essendo in grado di aumentare le rese, gli agricoltori medievali iniziarono mettere a coltura anche i terreni più impervi e meno favorevoli come quelli montani.

Questo delicato equilibrio tra popolazione e risorse finì drammaticamente col saltare a metà del secondo decennio del XIV secolo a causa del generale peggioramento del clima che investì il continente europeo, ponendo fine al cosiddetto Optimum climatico medievale: a partire da quegli anni gli inverni iniziarono a farsi più lunghi e più rigidi venendo accompagnati da estati più corte e piovose. Gelate improvvise e violenti acquazzoni ebbero effetti devastanti sulle coltivazioni e la società medievale, priva di qualunque ausilio tecnico o scientifico che le consentisse di far fronte efficacemente ai cambiamenti climatici in atto, vide nuovamente materializzarsi lo spettro della carestia.

Bisogna dire che per la verità, come per tutte le civiltà preindustriali, anche la prospera Europa duecentesca aveva conosciuto annate grame e raccolti scarsi ma si era trattato di episodi sporadici, circoscritti nel tempo e nello spazio, fattore che aveva consentito ai governi locali di fare affluire derrate nelle regioni limitrofe impedendo quindi l’esplosione di pericolose tensioni sociali dovute all’aumento dei prezzi dei generi alimentari.
Tra il 1309 ed il 1315 si registrarono lunghi periodi siccitosi a cui si alternarono violente piogge , causando una grande crisi nella produzione agricola di vaste aree del Nord Italia, come Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna. Nel biennio tra il 1315 e il 1317 la carestia si manifestò invece in quasi tutto il continente causando un aumento esponenziale dei prezzi dei cereali, da sempre base dell’alimentazione. La situazione si fece talmente drammatica che le cronache coeve ci parlano di gente disperata che muore di fame per le strade, una circostanza mai registrata prima. I primi a subire le conseguenze della crisi furono i lavoratori agricoli e i ceti operai urbani, due categorie sociali già denutrite, abituate da da generazioni a nutrirsi quasi esclusivamente di cereali, e destinati a soccombere al primo prolungato rialzo dei prezzi.

Come si può facilmente intuire un organismo male o sottoalimentato finisce con l’indebolirsi più facilmente diventando con maggiore probabilità vittima delle malattie, creando quindi il terreno ideale per il propagarsi di epidemie, come quelle – prevalentemente di gastroenterite- verificatesi tra il 1339 e il 1340 che provocarono un deciso aumento della mortalità, soprattutto infantile, nelle città italiane.
Tali malattie erano peraltro favorite nella loro diffusione dalle pessime condizioni igieniche in cui vivevano i nostri avi: tanto in campagna quanto in città infatti la gente abitava in squallidi abituri privi di servizi igienici e acqua corrente. Nelle campagne i contadini vivevano in condizione di promiscuità con il bestiame, mentre i quartieri popolari cittadini, privi di fognature e sovraffollati, ricordavano gli slum della Londra vittoriana dell’Ottocento descritti nei romanzi di Charles Dickens.

Altre carestie si succedettero negli anni seguenti con effetti devastanti, in particolare quelle tra il 1338 e il 1343 che interessarono maggiormente l’Europa meridionale. Fu proprio in questo quadro fosco che la Peste arrivò improvvisamente sortendo effetti devastanti nella società medievale, già in affanno a causa della crisi agricola. Il morbo fece la sua comparsa tra la fine del 1347 e l’inizio del 1348. Esso aveva origini lontane, con ogni probabilità nell’Asia centro-settentrionale tra le odierne repubbliche russe dell’Altaj e di Tuva e la vicina Cina. Nel XIV secolo infatti la peste bubbonica risultava essere una malattia endemica tra i roditori che vivevano tra la Mongolia e il deserto dei Gobi. La malattia si diffuse verso occidente inconsapevolmente trasportata dalle carovane mercantili che confluivano nei porti del Mediterraneo seguendo la Via della Seta.
Tra il 1338 e il 1339 la pestilenza raggiunse le comunità cristiane nestoriane presso il lago Issyk-Kul, nell’odierno Kirghizistan e pochi anni dopo, intorno al 1345 si segnalarono i primi casi a Saraj, sul Volga meridionale, e in Crimea. Proprio qui, nel 1346 i guerrieri mongoli dell’Orda d’Oro assediarono la colonia genovese di Caffa (l’odierna Feodosia). La peste raggiunse la città proprio al seguito dell’Orda d’Oro: le cronache dell’epoca riportano infatti che gli assedianti praticarono una forma di guerra batteriologica ante litteram lanciando entro le mura di Caffa i cadaveri degli appestati con le catapulte. Gli abitanti di Caffa si sarebbero a loro volta immediatamente sbarazzati dei corpi gettandoli in mare, ma la peste riuscì ugualmente a diffondersi in città e purtroppo anche oltre.

Gli equipaggi di alcune navi infatti riuscirono a fuggire da Caffa. Tuttavia i marinai ignoravano che nelle stive viaggiavano alcuni sgraditi clandestini, vale a dire dei ratti neri infestati da pulci infette. Nelle settimane successive, le galee attraccarono a Trebisonda, Costantinopoli, e Messina in Sicilia, favorendo così la diffusione della peste. Questa, una volta arrivata sul continente europeo si diffuse molto rapidamente raggiungendo, in capo ad un paio d’anni, anche regioni lontanissime dal Mediterraneo come le Isole Britanniche, la Scandinavia e la Russia. Va detto che un’epidemia causata dallo stesso morbo, la cosiddetta “Peste di Giustiniano”, aveva già colpito nel VI secolo. Tuttavia, essendo ormai trascorsi oltre otto secoli la popolazione non aveva più quella che viene chiamata “memoria immunitaria” e anche per questo motivo l’epidemia era destinata ad avere effetti micidiali.

La peste colpì duramente le popolazioni nei territori in cui sparse il suo contagio ma se in alcune aree come la Toscana fu particolarmente violenta, in altre, come la Polonia o certe zone della Lombardia non sortì gli stessi devastanti effetti. È però un dato di fatto che dei circa ottanta milioni di europei viventi all’epoca – non sono ovviamente disponibili censimenti e possiamo solo fare delle stime – circa trenta milioni morirono per l’epidemia del 1348-1350. Se gli effetti mortali della peste non furono ovunque i medesimi, il terrore e lo sgomento suscitati dal morbo furono ovunque enormi.
I rimedi della medicina medievale erano primitivi e assolutamente inefficaci per contrastare il decorso del male, i cui sintomi erano spaventevoli: coloro che ne erano stati contagiati venivano colti da una febbre altissima, mentre il loro corpo iniziava a ricoprirsi di bubboni nerastri, finché i disgraziati non iniziavano a tossire emettendo sangue dalla bocca e dalle narici ad ogni respiro (ciò in seguito all’attacco del sistema respiratorio da parte dell’agente patogeno).

La morte sopraggiungeva inesorabilmente tra atroci sofferenze nel giro di pochi giorni dal contagio nell’80-90% dei casi. L’unica speranza per sfuggire a questo crudele destino era ritirarsi in luoghi isolati sperando di non essere raggiunti dal contagio esattamente come i ragazzi e le ragazze protagonisti del Decameron di Boccaccio, rifugiatisi in un casolare nella campagna toscana per sfuggire alla Peste che infuriava a Firenze.
Di fronte allo spettacolo di morte dato dai cadaveri insepolti e dai moribondi che aspettavano la fine gemendo ad ogni respiro la popolazione sgomenta e impazzita per il terrore reagì nelle maniere più diverse: in base alle cronache pervenuteci sappiamo che taluni si dettero all’alcool, al gioco e alle donne, scialacquando tutte le loro sostanze veramente come se non ci fosse un domani mentre altri ancora si diedero alla preghiera, al digiuno e alla penitenza sperando di ottenere da Dio il perdono dei peccati e la fine dell’epidemia.

Per questo motivo vennero organizzate solenni processioni pubbliche per chiedere la grazia della liberazione dalla peste ma queste manifestazioni, aumentando i contatti tra la gente, non avevano altro effetto che estendere ancora di più le occasioni di contagio. In seguito alla peste nacque inoltre un movimento di laici che ebbe grande successo in molte parti d’Europa prima di essere messo al bando dalla Chiesa: i “flagellanti”. Costoro andavano di città in città frustandosi pubblicamente con un flagello (da qui il loro nome) e invitando tutti a fare penitenza. La peste ebbe inoltre l’effetto nefasto di rinfocolare una volta di più il sentimento anti giudaico sempre strisciante tra la gente: accusati di essere i responsabili dell’epidemia avvelenando i pozzi, gli ebrei patirono ancora una volta l’odio della maggioranza cristiana, a caccia di un capro espiatorio per la tremenda disgrazia della peste.
Nonostante i deliri apocalittici suscitati dalla peste, che preannunciavano la prossima fine del mondo, una volta raggiunto il picco dei contagi l’epidemia pian piano iniziò a calare di intensità fino a cessare del tutto. Nonostante la grande quantità di perdite e di lutti patiti, ancora una volta prevalse negli uomini e nelle donne scampati al contagio la voglia di ricominciare a vivere: vedove e vedovi contrassero nuovi matrimoni dopo la morte dei propri consorti e, proprio come accaduto alla fine del secondo conflitto mondiale, si verificò un vero e proprio “baby boom”.
Un altro effetto dell’epidemia, e del conseguente crollo demografico, fu un generale incremento dei salari. Essendoci meno manodopera disponibile i lavoratori sopravvissuti poterono rivendicare paghe più alte. L’aumentata disponibilità di denaro rese possibile soddisfare il consumo di beni e prodotti prima difficilmente acquistabili perché generalmente troppo costosi.
Non a caso da partire dal periodo successivo alla peste si assiste ad una generale riorganizzazione delle campagne, con un calo della produzione cerealicola e un aumento di colture più redditizie dal punto di vista economico, come gli ortaggi, e dell’allevamento per la produzione di carmi e formaggi. Anche l’artigianato si rinnova: diminuisce d’importanza la produzione di panni di lusso, mentre cresce invece quella dei panni più a basso costo, come quelli di fustagno, destinati ad un pubblico più ampio ma con disponibilità economiche maggiori del periodo precedente l’epidemia.

Come conseguenza della pandemia le autorità incominciarono a emanare ordinanze e regolamenti nel tentativo di prevenire o limitare il contagio della peste. Ogni qualvolta ci fosse un’avvisaglia di una nuova epidemia, si prese l’abitudine di limitare i movimenti di merci e persone istituendo quarantene, certificati sanitari e migliorando le condizioni igieniche delle città. Successivamente si provvedette a creare comitati o ufficiali sanitari provvisori. In numerose città italiane ed europee sorsero apposite strutture destinate ad ospitare i malati di peste allo scopo di isolarli dai soggetti sani, i lazzaretti, così chiamati in riferimento alla figura di Lazzaro, il mendicante coperto di piaghe protagonista della parabola del ricco Epulone, raccontata nel Vangelo di San Luca.

Il trauma della peste lasciò tracce profonde anche nella psiche dei contemporanei e delle generazioni successive. Per esempio cambiò il modo di rappresentare e immaginare la morte: dalla seconda metà del trecento appaiono opere affrescate note come “trionfi della Morte”, nelle quali la Morte è rappresentata come un essere scheletrico dall’aspetto diabolico e beffardo che, in sella ad un ossuto cavallo, passa tra i vivi falciando chiunque trovi sulla sua strada.
Una delle conseguenze della grande pandemia del 1348 fu che a seguito di essa la peste divenne endemica in Europa, tornando a manifestarsi in forma più o meno violenta con una cadenza più o meno ventennale ogni volta reclamando il suo tributo di morti. A causa di ciò l’Europa impiegò parecchio tempo a riprendersi: solo due scoli dopo, nel Cinquecento, la popolazione era tornata ai livelli precedenti alla pandemia. Le epidemie di peste nel Vecchio Continente cessarono progressivamente tra la fine XVIII e l’inizio del XIX secolo, in concomitanza con l’avvento della rivoluzione industriale che contribuì a migliorare le condizioni economiche e igienico-sanitarie della popolazione. L’ultima grande epidemia di peste a interessare l’Europa occidentale fu quella che colpì Marsiglia nel 1720.

Le ultime grandi pandemie di peste della storia umana si collocano tra il 1894 e i 1906 in Asia: morirono circa undici milioni di persone tra India, Cina, Hong Kong, Taiwan e Giappone. Fu proprio in coincidenza con questa tragedia che, nel 1894, il medico svizzero Alexandre Yersin, riuscì a isolare il bacillo responsabile della malattia che in suo onore venne ribattezzato Yersinia Pestis. E oggi? La peste purtroppo non è ancora stata debellata una volta per tutte. Anche se fortunatamente non dobbiamo più assistere a epidemie su vasta scala l’OMS segnala ancora un certo numero di casi nei paesi afroasiatici. Casi sporadici vengono segnalati anche nel Sud-Ovest degli Stati Uniti, in modo particolare tra Arizona e New Mexico, dove la peste è veicolata dalle pulci che contagiano l’uomo attraverso i cani delle praterie. La peste continua a colpire – e talvolta anche a uccidere- suscitando lo stesso sgomento e lo stesso terrore che provocava nei nostri antenati.