Fontana di Trevi, piccola storia di Roma

A volte capita che, anche in grandi città, spesso stranote, si riescano a trovare luoghi e opere importantissimi ma sconosciuti, lasciati da parte dal grande turismo alla ricerca del molto noto. Eppure, accade anche che questi stessi luoghi famosi, ricercati e visitati da milioni di persone ogni anno, si trovino ad essere essi stessi nel profondo ignoti, famosi solo come una grandiosa scenografia teatrale, trattati come luoghi obbligatori da vedere, magari per metterci una bandierina. Un simbolo svuotato cui si dà il compito di rappresentare una città.

Un’immagine di questo tipo che intacca anche monumenti quasi iconici per definizione, luoghi celebri non solo per sé stesso ma anche per il suo ruolo assunto attraverso le arti, dalla pittura all’incisione, dalla fotografia al cinema. Luoghi che invece avrebbero da raccontare vicende complesse, capaci di essere testimoni di più epoche, specie di quelle che, credute come note, non sono nella realtà.

Visuale generale di Roma vista da ovest, da un incisione cinquecentesca.

Tra questi si può collocare uno dei monumenti più famosi della capitale d’Italia, Roma, un vero e proprio simbolo cui i turisti da tutto il mondo devono per forza fare visita, una delle fontane più famose della città, anzi quasi il prototipo per eccellenza delle fontane romane. Un simbolo altisonante che nasconde però una storia ancora più interessante, una vicenda contorta e contraddittoria, durata in fondo due secoli e mezzo. Un monumento utile anche per poter sbirciare, come da un vecchio chiavistello, un periodo nei fatti sconosciuto, schiacciato tra il Barocco trionfante e seicentesco di Bernini e di Urbano VIII e la Roma rivoluzionaria e reazionaria di Napoleone e dell’Ottocento prerisorgimentale e risorgimentale. Un’età come il Settecento romano, interessante nella politica, nella società ma soprattutto nelle arti, da quelle figurative che hanno disegnato una parte della Roma di oggi ma anche in altre, come il teatro e la musica. Questo luogo è la Fontana di Trevi.

Apparentemente un luogo come fontana di Trevi può apparire poco interessante. Un luogo vissuto quotidianamente, anzi quasi soffocato da quel turismo che la vede protagonista. Eppure, dietro quest’immagine che pur esiste, vero feticcio per il turista internazionale, si nasconde una storia complessa e sintomatica della stessa storia della città. Una storia che risale ad un’età molto precedente a quello della fontana di oggi, alla prima età imperiale.

Rappresentazione dei principali acquedotti romani nell’agro laziale, con l’Aqua Virgo in rosso.

La vicenda della fontana nasce infatti con quella che è la sua linfa vitale, il suo cordone ombelicale, la sua ragion d’essere. Questa è l’Aqua Virgo, un grande acquedotto di età romana, famosa soprattutto per l’essere uno dei pochi condotti antichi che resistettero al periodo di stasi e abbandono del Medioevo ma anche della prima età moderna. L’Aqua Vergine in realtà era stata una delle ultime realizzazioni idriche della Roma classica, nata per volere di Marco Vipsanio Agrippa intorno al 19 a.C, sotto l’imperatore Augusto. Una condotta importante, soprattutto per il ruolo che ebbe per il genero, generale e plenipotenziario di Ottaviano, che nel medesimo periodo, tra il 33 e il 12 a.C., costruì in città un ampio sistema di lacus (fontane a vasca, abbeveratoi), salientes (fonti a getto) e piscinae(cisterne). L’Aqua Virgo in particolare era la grande arteria idrica del Campo Marzio, il grande centro cerimoniale e monumentale, e si concludeva nell’area oggi del Pantheon, dando vita ad una grande fontana e soprattutto al complesso termale delle Terme di Agrippa, restaurate poi da Alessandro Severo.

Un’origine importante, famosa anche per la connessione che venne a creare con il nome per cui oggi è nota. Essa infatti l’avrebbe ereditato dalla sua origine mitica, riportata dai testi classici, che avrebbe raccontato di soldati romani rimasti assetati alle porte della città, privi di alcun sostentamento. Qui avrebbero incontrato una Vergine, di nome o di fatto, che avrebbe indicato loro una fonte salubre e ricca, nella quale avrebbero trovato ristoro. Un termine che farebbe pensare però anche all’acqua stessa, apprezzata fino al Tardo Impero per la purezza e non calcareità.

Altorilievo di Andrea Bergondi posto sulla Fontana che rappresenta la Vergine che fa conoscere la sorgente dell’Aqua omonima.

Un’onomastica che sembra seguire la condotta stessa, fino al nome della fontana di cui stiamo trattando. La fonte originaria si trovava e si trova in località Salone, sulla via Collatina, incastonata tra la via Tiburtina, verso Tivoli e la Prenestina, verso Palestrina e i Colli Romani. Questo luogo prese il nome di Trebium, forse proprio per l’essere posto tra le tre grandi strade consolari. “L’acqua di Trevi” compiva quindi un grande arco, da nord est a nord ovest e poi verso sud, per 21 km quasi tutti in galleria, valicando anche la via Lata, via cerimoniale, oggi via del Corso. Punto di arrivo, dopo i primi secoli, fu poi un altro luogo, noto dal X secolo come Trejo, dove oggi sorge la grandiosa fontana. Un termine forse derivato dalla sorgente, forse legato alla topografia dell’area conclusiva che qui presentava uno slargo di un crocicchio, al quale affluivano tre vie, un trivio appunto. La sua prosperità e la sua fortuna subirono però alcune traversie, specie nell’Alto Medioevo. Rimasto integro come l’Aqua Claudia, l’Aqua Marcia e l’Aqua Traiana all’assedio ostrogoto di Vitige nel 537, durante la guerra gotica, venne danneggiato all’epoca di quello longobardo di Astolfo. Il declino non fu però molto lungo, venendo restaurato da papa Adriano I, il pontefice di Pipino il Breve e della basilica di Santa Prassede. Questo restauro non è però fondamentale solo per la città, ma anche per la stessa Fontana. Ad Adriano si deve infatti la costruzione della prima fontana che allo spazio e alla funzione che sarà poi quella dell’attuale fa riferimento. La scelta di dare centralità proprio all’Aqua Vergine e a questo luogo nasceva probabilmente dal restauro, ma soprattutto per il fatto che l’acqua che derivava da essa costituiva la fonte principale di approvvigionamento dell’area già del Campo Marzio, luogo che era però passato da luogo rituale e celebrativo a residenziale per eccellenza, quella Roma che vi si troverà per tutto il Medioevo e la prima età moderna.

Carlo Magno conferma a papa Adriano I le donazioni di suo padre Pipino il Breve, affresco dalle stanza vaticane.

Essa in particolare si presentava in modo molto dimesso, una lunga parete rettilinea con tre bocche da cui zampillava l’acqua, che ricadeva entro una serie di tre vasche rettangolari addossate alla parete stessa. Essa però, a differenza dell’attuale assetto, aveva un andamento est ovest, dando di fatto le spalle al Quirinale. Una forma minore, utile soprattutto come abbeveratoio e fontanile, che garantiva il suo scopo pratico anche senza segnalarsi per monumentalità. Della sua forma non rimangono però testimonianze in loco, a causa delle trasformazioni successive, anche se alcuni dati si possono trovare attraverso le fonti, anche in luoghi inconsueti. Se infatti alcune indicazioni si trovano nel Liber Pontificalis, la grande cronaca dei papi, riguardo l’operato di papa Adriano I e la sua politica delle acque, un’immagine della fontana stessa si trova a diversi chilometri di distanza. La futura fontana è raffigurata infatti in una rappresentazione della città di Roma in un sottarco della sala del Mappamondo nel Palazzo Pubblico di Siena, vicino alla Maestà di Simone Martini, dipinta qui nel 1412 dal pittore tardogotico senese Taddeo di Bartolo.

Fontana della fine dell’Ottocento fuori Porta del Popolo, che richiama però ciò che doveva essere la fontana di Niccolò V.

Quest’apparente insignificanza, nonostante il fatto di essere la Mostra dell’Aqua Vergine, punto finale delle condutture idriche, cominciò ad essere superata già alla metà del secolo, attraverso due figure importanti per il Rinascimento romano, papa Niccolò V e l’umanista e architetto Leon Battista Alberti. A quest’ultimo il papa chiese sia di avviare e realizzare nel 1453 un restauro dell’intera conduttura della fonte, ma soprattutto di ornare in modo degno proprio la Mostra, che egli descrive come fatiscente. Posto all’interno dei tanti progetti antiquari e umanistici dell’urbanistica della città che il papa stava compiendo, l’intervento di Alberti fu comunque limitato, andando a restaurare l’esistente ma rendendolo più armonico, sostituendo le tre vasche separate con un unico vascone rettangolare sovrastata dall’iscrizione NICOLAVS V. PONT. MAX.POST ILLVSTRATAM INSIGNIBVS MONUMEN. VRBEM DVCTVM AQVAE VIRGINIS VETVST. COLLAP. REST. 1453 (Nicolò V Pontefice Massimo, dopo aver abbellito con insigni monumenti la città, restaurò il condotto dell’Acqua Vergine dall’antico stato di abbandono nel 1453.) A questo intervento sarebbero seguiti, sempre nel XV secolo, altri lavori, legati probabilmente alle condotte, la cui acqua risultava meno pura per l’immissione e la captazione, nel suo percorso, di una serie di canali a latere, in special modo sotto Sisto IV della Rovere.

La posizione defilata della Fontana di Trevi fino alla metà del ‘500 trovò una nuova vitalità proprio in quel periodo, legata sia al recupero degli antichi acquedotti romani, migliorando quelli attivi o riattivando gli altri, sia nella nuova politica urbanistica che trova il suo principale protagonista in Sisto V Peretti. Entro questo contesto si colloca un progetto, costruito in più fasi, dall’architetto comasco Giacomo della Porta. Della Porta fu uno degli artisti più importanti del Secondo Cinquecento romano, formatosi nell’ambito michelangiolesco e con il Vignola, autore di diversi cantieri, dalla chiesa di Trinità dei Monti alla facciata della chiesa del Gesù, dal cortile del Palazzo della Sapienza alla continuazione del cantiere di San Pietro, nel quale si occupò di concludere la cupola. Un autore che si interessò anche di fontane.

La fontana delle Tartarughe, vicino Palazzo Mattei, uno dei capolavori idrici di Giacomo della Porta.

Oltre a ruoli di soprintendenza sulle acque, egli costruì la Fontana delle Tartarughe e quella del Pantheon, ma anche le fontane gemelle del Moro e del Nettuno in Piazza Navona, vero gioiello del pieno Manierismo. Proprio in questa duplice veste egli intervenne a Trevi. Un primo coinvolgimento avvenne tra il 1563 e il 1570, tra papa Pio IV Medici e Pio V, vide l’architetto in veste di ingegnere idrico, cui venne chiesto un restauro della rete dell’Aqua Vergine, aumentandone sensibilmente la purezza e soprattutto il flusso, anche sostituendo le antiche condutture in travertino. La fontana fu invece centrale sotto Clemente VIII Aldobrandini, alla fine del secolo. In questo caso Giacomo della Porta diede avvio ad un progetto più articolato dei precedenti. Partendo dall’esistente, da lui descritto come una vasca rettangolare di tredici metri e mezzo per circa otto e mezzo, avrebbe proceduto ad allargare la fronte della fontana, demolendo alcuni edifici a sinistra e ottenendo una fontana a tre ante. Avrebbe quindi ampliato la vasca principale, in cui avrebbe confluito l’acqua attraverso ben undici bocche, accompagnata su entrambi i lati da due lunghi lavatoi, nei quali sarebbe confluita l’abbandonante risorsa. Un progetto quindi grandioso, seppur nella sua semplicità e nel rispettare la sua funzione di fonte pubblica. Un progetto che però, seppur congegnato, rimase tuttavia sulla carta.

Il primo grande cerimoniere della Fontana di Trevi e colui che diede forma al suo passaggio a fontana monumento fu però “l’Amico delle acque”, Gian Lorenzo Bernini. Il grande artista barocco, scultore, architetto e scenografo, si inserisce in questa storia intorno al 1640, quando il suo intervento fu richiesto da uno dei suoi mecenati più importanti e secondo padre, papa Urbano VIII Barberini. L’intervento berniniano fu in tal senso significativo, perché pose le basi teoriche e stilistiche a coloro che gli succedettero. Egli infatti modellò la nuova fontana seguendo una serie di idee care proprio al Barocco, portandovi quegli elementi imparati da scultore e che proprio con papa Barberini stava mettendo in pratica nei principali cantieri della città. Un primo punto fu innanzitutto la collocazione topografica. L’artista decise di mutare l’andamento storico, ruotandolo di circa 90 gradi, portando il fronte a nord della piazza. Tale scelta venne dettata da più esigenze. Un primo obbiettivo era di tipo politico urbanistico. Ruotando la fonte su quel lato essa sarebbe stata visivamente in contatto da un lato con via del Corso, una delle strade più importanti della città, ma anche in continuo dialogo con il nuovo perno della topografia cittadina, il palazzo del Quirinale e la sua torre.

Incisione del Falda del 1665 che ritrae la fontana di Trevi a quel tempo. A sinistra il grande progetto incompiuto di Bernini, con di fronte la chiesa di San Vincenzo e Anastasio e sullo sfondo il torricino del Quirinale.

La centralità del palazzo, già esistente dalla sua trasformazione come villa sotto Gregorio XIII, era all’epoca ancora più forte per essere, da papa Paolo V Borghese, il nuovo palazzo del potere papale, più salubre e più adatto al governo rispetto al Vaticano. A questa scelta ideologica, che rendeva esplicito il legame tra il controllo delle acque e il potere dei papi, facevano seguito anche scelte artistiche e scenografiche. La rotazione della fonte garantì infatti a Bernini di poter demolire l’antica vasca quattrocentesca e alcuni palazzi alle sue spalle, ampliando sensibilmente il trivio originale. La nuova fonte assunse così una maggior centralità, perdendo la sua primaria funzione d’uso e assumendo un tratto più celebrativo. Una vera fontana monumentale, in diretto dialogo con le altre Mostre che i papi avevano costruito per i nuovi acquedotti rivitalizzati, dalla Mostra dell’Aqua Felice di Domenico Fontana e Sisto V (Felice Peretti) a quella dell’Aqua Paola di Carlo Fontana e Paolo V, noto come il Fontanone.

Il fontanone dell’Acqua Paola al Gianicolo.

I nuovi spazi portarono quindi ad un vero e proprio gioiello barocco. La fontana infatti sarebbe apparsa, con un grandioso effetto scenografico, al viandante giunto qui attraverso i tortuosi vicoli romani, in modo simile al successivo progetto per il colonnato petrino. La vista però non sarebbe caduta solo sulla fonte, ma l’avrebbe superata con un cannocchiale prospettico. Bernini infatti scelse la nuova collocazione anche per la presenza, alle sue spalle, di radi edifici, aperti nel mezzo da un ampio giardino privato presumibilmente all’italiana. L’effetto sarebbe stato quindi un ibrido, in parte fontana pubblica affacciata sulla città, in parte ninfeo o grande vasca inserita in un giardino, in modo simile al suo Nettuno a Villa Peretti Montalto. A queste scelte di scenografia urbana dava seguito la fontana stessa. Essa sarebbe stata diretta erede del modello manierista delle basse vasche concentriche in travertino, attraverso cui l’acqua sarebbe scesa a cascata, non ancora la fonte a getto come il Tritone di piazza Barberini, più tarda di soli due anni. Al centro, su di un piedestallo chiuso alle spalle da un basso muro ad esedra, avrebbe troneggiato una statua di Vergine, omonima dell’Aqua e immagine della mitica scopritrice della sua sorgente, accompagnata da una pecora.

Fontana del Nettuno di Della Porta in Piazza Navona, prototipo della fontana manierista.

Ad accompagnarla probabilmente, come nel teatro barocco della cappella di Santa Teresa, diverse figure ai lati, tra cui il papa e Gian Lorenzo Bernini, rappresentato mentre mostra il progetto al pontefice. Un progetto importante, perfettamente inserito nella politica urbanistica di Urbano VIII, sullo stesso livello del baldacchino di San Pietro, il palazzo di famiglia o le fontane del Tritone e della Barcaccia, opere coadiuvate anche da Bernini. Una posizione che spinse il papa anche ad azioni oggi vandaliche. Come il bronzo del Pantheon era servito per il Baldacchino o, forse, per fare cannoni, Urbano VIII autorizzò Bernini ad utilizzare i marmi e le rovine romane in città, in special modo a ricavare marmi e travertini dal mausoleo di Capo di Bove, oggi Mausoleo di Cecilia Metella, uno dei monumenti più noti della Roma repubblicana. Un obiettivo che però fu bloccato da alcune delibere delle autorità comunali di Roma, segno della sua importanza e del peso che esse avevano nella capitale dei papi.

Mausoleo di Cecilia Metella, grande monumento della Roma repubblica, quasi vittima del progetto per la Fontana.

Il progetto berniniano però non ebbe seguito. Il programma infatti venne stoppato da un lato per ragioni economiche, dettate in particolare dalla prima fase della Guerra di Castro, tra il duca di Parma Odoardo Farnese e il papa per il controllo dei vasti domini farnesiani tra Lazio e Toscana intorno alla cittadina di Castro, dall’altro politiche, per la morte del papa e la successiva svolta antibarberiniana di papa Innocenzo X Pamphilj, che costrinse alla fuga i cardinali nipoti Antonio e Francesco e alla momentanea eclissi del loro protetto Bernini. Il progetto berniniano si salvò però ”sulla carta”, attraverso due piante di Carlo Fontana e soprattutto incisioni e disegni, come quello del Falda del 1665, che rappresenta la piazza e il cantiere a quella data, o quello di Jan Miel, pittore fiammingo amico di Gian Lorenzo, che raffigura la fontana per come sarebbe dovuta apparire.

Nonostante il blocco del cantiere però la fontana visse un periodo altalenante, tra stasi e progettualità estrose. In un primo tempo essa perse infatti d’importanza, oscurata dalla volontà dei papi di spostare la Mostra dell’Aqua Vergine presso i palazzi di famiglia, diventati da Palazzo Barberini vere sedi distaccate dei palazzi Apostolici. Da un lato la Fontana dei Fiumi in Piazza Navona, davanti palazzo Pamphilj, dall’altro progetti simili in piazza Colonna, davanti al palazzo di Alessandro VII Chigi, trasformando la fonte di Della Porta già collegata all’Aqua Vergine. Il progetto sembrò arenarsi definitivamente con Clemente X Altieri, che fece vendere i materiali e i travertini del cantiere per sovvenzionare il restauro di altre fontane.

Fontana dei Quattro Fiumi di Bernini in Piazza Navona nuova Mostra dell’Aqua Virgo.

Questa discesa di importanza non si vide però, ancora, sulla carta, con l’elaborazione di diversi progetti. Tra di essi un progetto anonimo datato al 1700 in cui compaiono per la prima volta un Nettuno accompagnato da tritoni, come in Navona, disegni di Bernardo Castelli, nipote di Borromini, e del mondo intorno a papa Clemente XI Albani del 1706 circa che prevedevano l’utilizzo della Colonna Aureliana, o un modello di Carlo Fontana che fondeva la grande vasca antica oggi in piazza del Quirinale all’obelisco sallustiano, che ora campeggia di fronte a Trinità dei Monti. Un continuo concorso di menti che sembrò trovare la parola fine intorno agli anni ’20 del XVIII secolo. Papa Benedetto XIII Orsini cercò di porre fine alla diatriba affidando la realizzazione delle statue del progetto berniniano allo scultore Paolo Benaglia, in particolar modo quella della Vergine. Un intervento interessante, proprio per quest’ultima. L’artista infatti, forse per un errore di interpretazione o per una scelta rigorista del papa, realizzò una statua con una Vergine con il Bambino, interpretando la Vergine romana con Maria. Il progetto però rimase in fieri, con la statua mariana accantonata nel convento domenicano della Minerva. Esso però era già in parte abortito. La famiglia Conti, parenti di papa Innocenzo XIII e possessori di alcune case alle spalle, decisero di far restaurare le loro proprietà, innalzandole e chiudendo il giardino con un muro alle spalle della fonte, impedendo così l’artificio berniniano e ostacolando la ripartenza del cantiere.

Il nuovo secolo fu però il momento della nuova rinascita e della fama, che ancora oggi l’accompagna. Il nuovo cantiere, iniziato da Clemente XII Corsini, è in tal senso simbolo di un secolo che, in campo storico e artistico, vede spesso Roma in un cono d’ombra, sopravanzata dai cantieri di Parigi, Napoli e Vienna. Un periodo nel quale invece la città assunse un ruolo interessante, che ha disegnato una parte della Capitale che conosciamo oggi e che ha fatto da fucina sia per il nascente Grand Tour delle classi dirigenti di tutta Europa sia del nuovo stile neoclassico, nato in seno al conciliabolo culturale del cardinale Alessandro Albani, nipote di papa Clemente XI, attraverso le opere di Mengs e gli studi di Winckelmann. Una grande crogiuolo che trova la sua origine da un lato dalla sua centralità antiquaria e antichistica ereditata dal Rinascimento e dal Barocco, dall’altro da una sua particolare condizione, ossia di porto sicuro nel contesto europeo, lontano dagli orizzonti bellici delle Guerre di Successione, ma anche meno coinvolta nelle dinamiche politiche e diplomatiche, specie dopo la pesante umiliazione del cardinal Fabio Chigi, nipote di Alessandro VII, a Luigi XIV e ai dignitari francesi. Una Roma che, seppur ancora terreno di scontro tra le fazioni europee, si presentava come un grande luogo di scambio e una realtà dove la cultura fioriva e dove poteva anche essere, come nel ‘600, un’abile arma della politica. Una cultura estremamente interessante e soprattutto variegata, sia tra le arti che all’interno di esse. La prima metà del ‘700 vede infatti lo sviluppo della Roma dell’architettura, ma anche quella della musica, luogo di formazione di Pietro Metastasio e palcoscenico sia per compositori e musicisti italiani, come Arcangelo Corelli, ma anche stranieri, come Georg Friedrich Händel.

Piazza di Spagna e la scalinata di Trinità dei Monti, da un incisione di Piranesi.

Un successo eguagliato anche dalle arti figurative, caratterizzate proprio a partire da Roma stessa da un tratto particolare, ossia quello di presentare, in modo disgiunto ma più spesso unito, elementi riferibili ad un’ascendenza barocca e rococò, ricca di dettaglio e di decorazione illusionistica, a profondi rimandi ad un classicismo più asciutto e antiquario, preludio alla stagione che stava per aprirsi proprio in Roma. La palma di ciò si ha proprio in architettura, dove artisti più o meno coetanei apportarono prospettive diverse, dal taglio più asciutto e monumentale di Alessandro Galilei, autore della facciata di San Giovanni in Laterano, a quello più morbido e rococò di Ferdinando Fuga, artefice di quella di Santa Maria Maggiore e del Palazzo della Consulta, alla mediazione stilistica di Luigi Vanvitelli, che da qui lo esporterà con Fuga nella Napoli di Carlo III di Borbone. Un panorama che trova la sua acme nelle grandi opere urbanistiche sulla città, vere scenografie di pietra come le scalinate di Ripetta e soprattutto di Trinità dei Monti, entrambe opere di Alessandro Specchi per i papi Clemente XI e Benedetto XIII.

Incontro tra papa Benedetto XIV e Carlo di Borbone in Quirinale di Giovan Paolo Pannini.

Una grande caldera fumante, ben dipinta dai vedutisti come Gaspard van Wittel, padre di Luigi, e soprattutto Giovanni Paolo Pannini, narratore in pittura non solo delle scenografie della città ma anche della vita e delle vicende significative della capitale dei papi.

In questo frangente nasce l’intervento di Clemente XII, membro e esponente più importante della famiglia Corsini, casata fiorentina nata nel Trecento come ricchi mercanti e banchieri e decaduti con la crisi del 1340, riportata in auge tra Cinquecento e Seicento, quando furono in grado di costruirsi a Firenze diversi palazzi, come quello detto del Parione sul Lungarno e una cappella nella Chiesa del Carmine, di fronte alla Brancacci. Il papa decise di dare nuova linfa al progetto, indicendo un concorso aperto ai maggiori artisti cittadini, da Vanvitelli a Fuga, da Galilei a Nicola Salvi. L’obbiettivo del papa era quello di trovare una soluzione capace di accettare il palazzo dei Conti ma, soprattutto e ancor più, dare finalmente un volto alla fontana, pensata come e più del progetto berniniano come fontana monumentale e come Mostra architettonica, fiera conclusione dell’Aqua Vergine. A vincere fu l’architetto Salvi, con un progetto in collaborazione con lo scultore Giovanni Battista Maini, addetto ai decori scultorei. Il Salvi, oggi poco noto aveva tuttavia un ottimo curriculum, nel quale si trovano lavori in palazzi patrizi e cappelle, ma soprattutto un grandioso teatro effimero pirotecnico realizzato nel 1728 per il matrimonio del Re di Spagna.

Visione d’insieme della Fontana di Trevi.

Il progetto scelto corrisponde nell’impostazione a quello oggi esistente. La facciata originaria, di cui vengono rispettati gli andamenti laterali delle finestre a timpani triangolari e curvi sono uniformati da un basamento a bugnato e da serie di paraste corinzie di ordine gigante, che tengono insieme i due piani. La sezione centrale, ottenuta in parte coprendo il muro di casa Conti in parte alcune delle sue finestre, mantiene l’andamento classico, andando a costruire un grande arco di trionfo, con colonne e architrave aggettanti. L’arco centrale venne coperto con una calotta a cassettoni, nel quale venne a collocarsi una gigantesca statua di Oceano, dio supremo delle acque, raffigurato mentre procede in avanti su di un carro a conchiglia, tirato da due cavalli, uno calmo a destra e uno imbizzarrito a sinistra, simboli del carattere capriccioso del mare e reminiscenza platonica del cavallo bianco e nero, entrambi trattenuti e guidati da due tritoni, che suonano grandi conchiglie come trombe marine.

Il carro marino di Oceano e ai lati l’Abbondanza e la Salubrità di Filippo della Valle.

A quest’apoteosi marina, che dà quasi l’impressione che la fontana sia più una darsena o un lungomare che uno spazio finito, fa seguito il ricco decoro scultoreo, realizzato dalle più grandi personalità della materia in città. Partendo dal basso l’Oceano è accompagnato, nelle nicchie laterali, da due personificazioni femminili, l’Abbondanza, con una cornucopia in mano piena di frutti e un’anfora sgorgante ai piedi, e la Salubrità, con lancia e un bacile in mano, entrambe opere di Filippo della Valle, attivo anche con Fuga alla Consulta. Due personaggi particolari e inconsueti, quasi assenti in altri contesti, ma che ben rappresentano i benefici proprio dell’Aqua Vergine, come fonte di abbondanza della terra e come fonte di salute per gli uomini, specie attraverso la sua purezza. Al di sopra di queste, nello stesso stile estremamente classicista, due bassorilievi.

Altorilievo di Giovanni Battista Grassi , con Agrippa che ordina la costruzione dell’Aqua Vergine, con l’architetto ai suoi piedi.

Essi ricordano platealmente l’origine stessa della fonte, a destra l’effettiva scoperta con la Vergine in piedi e un soldato romano in ginocchio con un’anfora e a sinistra Agrippa che ordina la costruzione della nuova Aqua Vergine, con l’architetto che mostra al lui il disegno delle arcate, forse un sottile richiamo all’idea berniniana. Queste sono opere di Andrea Bergondi e Giovanni Battista Grossi. L’arco si conclude in alto con l’attico, diviso in tre sezioni, definite da statue. Esse raffigurano L’Abbondanza della Frutta di Agostino Corsini, La Fertilità dei Campi di Bernardino Ludovisi, La ricchezza dell’Autunno di Francesco Queirolo e l’Amenità dei giardini di Bartolomeo Pincelloni. Immagini più consuete, che dialogano ancora con l’importante funzione dell’acqua della fonte ma che rappresentano forse anche l’immagine delle quattro stagioni. Troneggia su tutti infine lo stemma Corsini, coronato dalla tiara papale e sorretto da due vittorie alate, raffiguranti la Fama, che la diffondono attraverso lunghe trombe, opera dello stesso Paolo Benaglia. Se un lato più asciutto aveva caratterizzato il prospetto della fontana, il suo spirito barocco trabocca dal suo corpo. Esso si espande nella piazza attraverso un articolato sistema di scogli, che giocano nelle forme e nella disposizione proprio con l’elemento principe, l’acqua, che sgorga in una serie di cascate e flutti. Un elemento che deriva direttamente dalle opere e dagli studi di Bernini, specie dalla fontana dei Fiumi.

Scogli in travertino della Fontana. A destra si vedono alcune delle piante scolpite, pensate come paesaggio in dialogo con le piante vere.

Come in questa inoltre, l’architetto gioca direttamente con la natura. Gli scogli sono riempiti di una serie infinita di piante, europee e soprattutto esotiche, che si dispongono in disordine tra i flutti, che nella mente dell’autore avrebbero dialogato non solo con l’architettura rocciosa ma soprattutto con le altre piante vere che sarebbero nate sulle concavità della fontana. Un vero e proprio paesaggio in miniatura.

Nonostante il progetto però, il cantiere subì diversi rallentamenti e problemi, tanto da durare trent’anni. Iniziò infatti nel 1732, costando in tutto 176.000 scudi, tutti ottenuti dai proventi del gioco del Lotto. Il progetto procedette però con estrema lentezza, sia per problemi economici sia per una crescente ostilità tra l’architetto Salvi e il Maini, addetto al decoro scultoreo. Una condizione che spinse il papa ad una decisione drastica, ossia quella di inaugurare ufficialmente la fontana, anche se essa era ancora in fieri.

Attico in cima alla fronte della fontana, con le statue delle “stagioni”, le Vittorie alate con tube e lo stemma Corsini, che corona l’iscrizione dedicatoria. Sul fregio la dedicazione di papa Benedetto XIV.

La prima dedicazione trova una traccia proprio al di sotto dello stemma pontificio. Su di una iscrizione il papa fece scrivere «CLEMENS XII PONT MAX AQVAM VIRGINEM COPIA ET SALVBRITATE COMMENDATAM CVLTV MAGNIFICO ORNAVIT ANNO DOMINI MDCCXXXV PONTIF VI» (Nell’anno del Signore 1735, sesto del proprio pontificato, Clemente XII P.M. adornò con un’opera meravigliosa l’acquedotto vergine, celebre per la [propria] abbondanza e salubrità). La scelta del papa permise infatti al Corsini di intestarsi la fontana stessa, che né il papa, né i due artisti, morti tra il 1751 e il 1752, videro mai finita nella sua totalità. Una nuova fase trovò come protagonista papa Benedetto XIV Lambertini. Il papa bolognese, noto come grande intellettuale, lettore dei testi dei philosoph francesi e fondatore dell’Accademia delle Scienze di Bologna, diede nuovo impulso al cantiere negli anni ’40, proseguendo sulle orme del suo predecessore. Sulla medesima linea però, data la lungaggine che stava avendo il cantiere, decise di reinaugurare la fontana nel 1744, seppur essa non fosse ancora completata del tutto. Fece quindi inserire nel fregio superiore a lettere bronzee PERFECIT BENDICTUS XIV PONT. MAX (Benedetto XIV papa fece completare). Lo stesso papa Lambertini affidò quindi, nel 1747, l’incarico a Giuseppe Pannini, figlio del vedutista Gian Paolo. Da un lato questa decisione diede lustro alla fontana, per la quale Pannini modificò le vasche più alte, trasformandole in una serie di grandi conchiglie. Allo stesso modo però la sua presenza fu temporalmente limitata, soprattutto per le volontà di rivoluzionare il programma generale dello stesso scenografo e architetto, non in linea con le scelte pontificie.

Dettaglio del corpo centrale della fontana con il carro di Oceano. Sopra di lui la dedicazione di Clemente XIII.

A dare finalmente fine alla fontana furono però altre figure, ormai a cavallo della metà del secolo. Alla morte del papa infatti, il nuovo pontefice Clemente XIII Rezzonico, veneziano, diede l’incarico allo scultore Pietro Bracci e al figlio Virginio. L’artista, vicino al cardinal Albani e amico del giovane Antonio Canova, si occupò in particolare di realizzare il grande gruppo centrale del carro di Oceano, riprendendo i disegni dei Maini e ammodernandoli, riuscendo così a creare un’opera in equilibrio tra la carica espressionista di Bernini e le nuove tendenze neoclassiche.

Il papa, quindi, aprì definitivamente la fontana il 22 maggio 1762 e dimostrandolo con la terza dedicazione, posta sul fregio del registro più basso, che passa sopra le statue del registro inferiore ruotando alle spalle dell’Oceano al colmo della nicchia. Su di essa si legge” POSITIS SIGNIS ET ANAGLYPHIS TABULIS IUSSU CLEMENTIS XIII PONT. MAX. OPUS CUM OMNI CULTU ABSOLUTUM A. DOM.MDCCLXII(Fatti porre le statue e i rilievi per ordine di Clemente XIII i lavori furono completati nell’anno del Signore 1762).

La nuova fontana, quasi un simbolo del nuovo sviluppo del Settecento Romano, divenne molto ammirata sia dai letterati e dai viaggiatori, che di essa raccontavano di un’opera strepitosa, superba e ricca, capace di sopravanzare qualsiasi altra architettura costruita in Roma nello stesso secolo, sia soprattutto dagli stessi artisti, che la misero al centro delle loro opere, sia della serie di vedute sia nelle opere incisorie, spesso comprate come souvenir dai visitatori provenienti dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Russia. Tra di essi Giuseppe Vasi e soprattutto Giovanni Battista Piranesi.

Galleria delle Vedute della Roma Moderna, dipinto di Giovan Paolo Pannini del 1759 per l’ambasciatore di Francia. In basso a destra la Fontana di Trevi.

Maestro in ciò fu però Giovan Paoli Pannini, che realizzerà diverse vedute della fontana e deciderà di inserirla, insieme agli altri cantieri coevi, tra le meraviglie della Roma di oggi nel pendant realizzato per l’ambasciatore del re di Francia nel 1759, dove erano rappresentati in una quadreria immaginaria da un lato le bellezze archeologiche, dall’altra i nuovi ritrovati dell’arte del suo tempo e dei secoli appena passati.

La fontana di Trevi è un monumento importante, famoso soprattutto come un simbolo di Roma e della romanità, aiutato in ciò dal cinema, dalla Dolce Vita di Fellini e Totòtruffa 62, ma anche alla musica del compositore Ottorino Respighi, che per lei scrisse un poema sinfonico nel 1916. Un capolavoro che però non è solo una quinta turistica e nazionalpopolare, ma è anche, attraverso questo suo essere monumentale e scenografica, un piccolo compendio della storia di Roma, dalla Roma dei Cesari, che ha creato la sua linfa, a quella del Rinascimento e del Barocco, fino e soprattutto a quella del Settecento, erede di Bernini ma anche crogiuolo delle novità del tempo, tra testi illuministici francesi e riscoperte archeologiche e classiche, la culla di Canova e del Neoclassico che avrebbe invaso l’Europa.

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