STORIA DELLA SPAGNA DALLA CADUTA DI GRANADA (1492) ALL’ABDICAZIONE DI CARLO V (1556)
Il 2 gennaio 1492 al termine di un assedio iniziato nella primavera del 1490, la città di Granada, capitale del regno nasride, si arrese alle forze dei “Re Cattolici” Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Fu lo stesso Sultano Boabdil a offrire le chiavi della città a Ferdinando e Isabella mentre sulle torri dell’Alhambra venivano issati il crocifisso e lo stendardo reale.

La resa della città era stata preceduta da un accordo in base al quale, in cambio della capitolazione delle forze islamiche, i Re Cattolici si impegnavano a rispettare i diritti dei nuovi sudditi di fede musulmana – i cosiddetti mudéjares – i quali sarebbero stati liberi di scegliere se trasferirsi in Africa o di restare continuando a osservare la propria fede e i propri costumi e mantenendo le loro proprietà.
La presa di Granada rappresentò ad un tempo la fine di un’era e l’inizio di un’altra. Da una parte infatti essa costituì l’epilogo del plurisecolare processo della “Reconquista”, segnato dalla lenta ma inesorabile espansione dei regni cristiani iberici verso meridione, a scapito dei territori ancora sotto il controllo dei musulmani.

Dall’altra però la sottomissione dell’ultimo baluardo musulmano in terra iberica costituì la premessa per l’inaugurazione di una nuova e per certi versi ancor più gloriosa epopea: quella che in capo a un paio di generazioni avrebbe visto la Corona di Spagna diventare padrona di uno sterminato impero e ascendere al rango di potenza egemone d’Europa.
La conquista del sultanato nasride infatti consentì per la prima volta ai sovrani spagnoli di condurre una politica estera più ambiziosa, indirizzando le proprie energie al di fuori dell’orizzonte iberico. Con il 1492 si aprì una nuova fase della lotta contro i musulmani che avrebbe dovuto portare il vessillo crociato a sventolare oltre lo stretto di Gibilterra. Tuttavia, contrariamente a quanto auspicato dall’arcivescovo Francisco Jiménez de Cisneros, uno dei principali “falchi” della corte spagnola, l’occupazione della costa nordafricana si limitò a pochi centri costieri come Melilla (1497), Mers-el-Kebir (1505) e Orano (1509). A questi possedimenti extraeuropei andavano aggiunte le Isole Canarie, cedute dal Portogallo nel 1479 in seguito alla conclusione della guerra civile castigliana.

Il Cisneros pervaso dallo spirito di crociata, avrebbe suggerito ai sovrani di continuare l’avanzata sino ai limiti del Sahara, dando vita ad un impero spagnolo-mauritano. Ferdinando tuttavia preferì limitarsi all’occupazione di pochi, strategici, centri costieri, allo scopo di proteggere la Penisola iberica da possibili attacchi moreschi.
Il sovrano considerava il teatro africano secondario rispetto a quello italo-mediterraneo, dove la Corona d’Aragona controllava le isole maggiori di Sardegna e Sicilia, mentre il Regno di Napoli, comprendente il Mezzogiorno della Penisola italiana, era governato da un ramo cadetto della dinastia. Sarà proprio a difesa degli interessi della Casa di Trastámara che Ferdinando a partire dal 1495 interverrà in Italia contro i tentativi dei Re di Francia Carlo VIII e Luigi XII di impadronirsi del trono partenopeo. Sarà proprio la calata del sovrano francese Carlo VIII, avvenuta nel 1494, il innescare le cosiddette “Guerre d’Italia”, che provocheranno il definitivo declino dei litigiosi staterelli italiani.

Fu in quegli stessi anni, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, che la Spagna e l’Europa assistettero agli spettacolari sviluppi di un’impresa destinata a cambiare per sempre la Storia dell’umanità: la scoperta e la successiva conquista del Nuovo Mondo. Il navigatore genovese Cristoforo Colombo fece la sua prima comparsa in Castiglia nel 1486, dopo che la sua richiesta di uomini e navi per una spedizione atlantica era stata respinta dal Re Giovanni II del Portogallo. Colombo infatti, basandosi sullo studio di testi come l’Historia rerum ubique gestarum di papa Pio II stampata nel 1477, l’Imago mundi di Pierre d’Ailly del 1480 e Il Milione di Marco Polo, si era convinto della possibilità di raggiungere le regioni asiatiche del Catai (la Cina) e del Cipango (il Giappone) navigando verso occidente. Tuttavia le difficoltà finanziarie della Corona, allora pesantemente impegnata nella guerra di Granada, oltre al non irragionevole scetticismo suscitato dalle sue teorie portarono ad una prima bocciatura del progetto.

La successiva decisione dei Re Cattolici di finanziare il progetto di Cristoforo Colombo maturò nel clima di intensa eccitazione religiosa che caratterizzò le ultime fasi della guerra di Granada, tale da far sembrare realizzabili anche i progetti più strampalati. È certo peraltro che il genovese disponesse di amicizie importanti a corte tra cui spiccavano Luis de Santángel, segretario di Ferdinando, e padre Juan Pérez, già confessore della Regina Isabella.
L’accordo tra Colombo e i Re Cattolici venne messo nero su bianco il 17 aprile 1492 attraverso la stipulazione delle Capitolaciones de Santa Fe, un vero e proprio contratto privato sul modello di quelli stipulati tra la Corona e i capi militari delle spedizioni contro i mori nei secoli della Reconquista, attraverso il quale vennero riconosciuti al genovese il titolo di Ammiraglio del Mare Oceano e un decimo dei proventi derivanti da tutte le terre di cui avrebbe preso possesso in nome dei Reali di Spagna.

Così il 3 agosto 1492 Colombo salpò dal porto di Palos de la Frontera al comando di tre caravelle – le celeberrime Niña, Pinta e Santa Maria – sulle quali erano imbarcati circa 80 marinai. Il 12 ottobre successivo la piccola flotta gettò l’ancora di fronte a un’isoletta delle odierne Bahamas che l’ammiraglio battezzò San Salvador.
Rientrato in Europa nel marzo del 1493, nei successivi undici anni Colombo avrebbe guidato altre tre spedizioni arrivando ad approdare sulle grandi isole di Cuba, Hispaniola (oggi divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana) e Giamaica e toccando persino le coste degli odierni Honduras, Nicaragua, Panama e Venezuela. Nonostante ciò fino alla morte – sopraggiunta nel 1506 – l’Ammiraglio genovese rimase convinto di non avere scoperto un nuovo continente ma le estreme propaggini orientali dell’Asia. Soltanto nel 1501, in seguito alla spedizione di un altro italiano, il fiorentino Amerigo Vespucci, iniziò a prendere corpo l’idea che le terre scoperte da Colombo non potessero fare parte dell’Asia ma che fossero parte di un vero e proprio Nuovo Mondo, che proprio in onore di Vespucci verrà battezzato “America”.

I viaggi di colombo inaugurarono la fase delle esplorazioni delle terre situate ad ovest dell’Oceano Atlantico. Le scoperte geografiche però posero alla corona portoghese e a quella castigliano-aragonese il problema della definizione dei rispettivi diritti sui nuovi territori. Poiché per entrambe le potenze iberiche il motivo ufficiale delle spedizioni oltreoceano è l’espansione della fede cristiana appare ovvio il ricorso all’arbitrato del Papa, riconosciuto come massima autorità giuridica della Cristianità occidentale.
Nel 1493 Alessandro VI, il Papa Borgia, emanò una bolla denominata Inter Caetera, con la quale stabilì che una linea di demarcazione passante 100 leghe (circa 330 miglia nautiche) a occidente delle Isole Azzorre costituisse il confine tra le terre appartenenti alla Castiglia e quelle appartenenti al Portogallo, situate rispettivamente ad ovest ed a est del meridiano stesso.

Il documento papale deluse Re Giovanni II del Portogallo che aprì trattative coi Re Cattolici ottenendo con il trattato di Tordesillas del giugno 1494 lo spostamento della linea fissata dal Papa di circa 100 leghe più a ovest, garantendo al Portogallo il possesso di quella che diventerà la colonia del Brasile.
Negli anni immediatamente successivi alle scoperte geografiche ebbe inizio la colonizzazione del Nuovo Mondo e lo sfruttamento delle risorse che esso poteva offrire. Protagonisti di questa prima fase furono soprattutto alcune migliaia di soldati e avventurieri senza scrupoli animati dalla brama di ricchezza, i “conquistadores”, provenienti da quel ceto di cavalieri e gentiluomini di campagna noti come “hidalgos” e per lo più originari delle regioni più povere della Spagna come l’Andalusia e l’Estremadura.

Da sempre dedita alla guerra al servizio della Corona di Castiglia, questa piccola nobiltà si era trovata di colpo disoccupata in seguito alla fine della Reconquista finendo pertanto col “riciclarsi” nella conquista di questo misterioso Nuovo Mondo di fresca scoperta. Molti conquistadores del resto, animati da quegli stessi ideali cavallereschi in voga durante le guerre contro i Mori, considerarono la conquista dell’America come una crociata volta alla conversione dei nativi pagani ma dalla quale trarre anche fama e, soprattutto, ricchezza. A tal proposito, Bernal Diaz del Castillo, che prese parte in qualità di ufficiale alla spedizione di conquista del Messico, scrisse in seguito nella sua Historia Verdadera de la Conquista de la Nueva España che lui e i suoi commilitoni erano giunti in America “Per servire Dio e il Re e anche per diventare ricchi».
Stabilitisi nelle isole caraibiche gli europei si dedicarono alla spasmodica ricerca dell’oro. Gli indios vennero presto costretti a cercare le pagliuzze di metallo prezioso presenti nei torrenti venendo sottoposti ad uno sfruttamento disumano che, unito al diffondersi di malattie sconosciute come morbillo e vaiolo, decimò la popolazione indigena dei Caraibi. Nella sola isola di Hispaniola la popolazione passò dalle 600 mila unità del 1492 alle appena 10 mila del 1530. Poiché i giacimenti auriferi delle Antille si esaurirono in capo a poche decine di anni, presto gli spagnoli avviarono la coltivazione della canna da zucchero. Tuttavia, poiché le piantagioni necessitavano di una manodopera numerosa, data la progressiva estinzione degli indios, gli spagnoli presero ad acquistare dai portoghesi i primi schiavi africani provenienti dalla Guinea.

Tuttavia gli spagnoli non si limitarono a colonizzare le isole esterne al continente americano. Siccome gli amerindi facevano largo uso di monili in oro, si diffuse la leggenda che all’interno del continente americano vi fossero immense quantità d’oro e città fantastiche dove si viveva nell’abbondanza. Così, bramosi di oro e pietre preziose, dalle isole dei Caraibi i conquistadores iniziarono a spingersi nel cuore del continente americano. Qui gli europei entrarono in contatto con civiltà fino ad allora sconosciute, inquadrate in regni dotati di strutture politiche complesse con un alto grado di stratificazione sociale, la cui economia si basava sulla coltivazione del mais, un cereale sconosciuto in Europa. Allo stesso tempo però queste popolazioni erano prive di una tecnologia bellica capace di resistere allo scontro con la civiltà europea.
Così, in capo ad una generazione, tra il 1519 e il 1548, la Corona di Castiglia divenne titolare di un vastissimo impero coloniale esteso dalla California alla Patagonia. Tra i condottieri spagnoli due in particolare si guadagnarono una fama imperitura per le loro imprese di conquista: Hernan Cortes e Francisco Pizarro responsabili rispettivamente della distruzione di due potenti imperi indigeni, quello azteco e quello inca.

Ancora oggi ci si chiede come poche centinaia di uomini, con appena qualche decina di cavalli e cannoni, abbiano potuto avere ragione di regni popolati da decine di milioni di abitanti. Certamente tanto nel Messico azteco quanto nel Perù incaico gli spagnoli sfruttarono in maniera spregiudicata la diffusione di antiche profezie che indussero i sovrani locali a ritenere i nuovi arrivati come emissari divini per quanto Maya, Aztechi e Inca presero presto coscienza della natura umana e aggressiva dei conquistadores. Nemmeno la superiorità militare europea legata all’impiego di armi in acciaio, cavalli e polvere da sparo – sconosciuti in America – rappresentano una spiegazione sufficiente in quanto dopo le prime disfatte i guerrieri americani seppero adattare le proprie tecniche di combattimento.
Altro elemento che può aiutarci a spiegare la sconfitta delle popolazioni americane fu la spregiudicatezza con cui gli spagnoli seppero sfruttare a proprio vantaggio le divisioni, gli odi e i conflitti intestini che laceravano gli imperi autoctoni dall’interno, come nel caso della guerra civile in corso nell’impero incaico al momento dell’arrivo di Pizarro. Inoltre, come già avvenuto nei Caraibi, a giocare un ruolo fondamentale nella distruzione dei grandi imperi precolombiani furono ancora una volta le malattie infettive giunte con gli europei, contro le quali gli indios erano del tutto privi di difese immunitarie.

Una volta sottomessi militarmente gli amerindi, i conquistatori spagnoli procedettero all’estirpazione delle credenze tradizionali autoctone, imponendo valori religiosi e culturali propri della società europea. Proprio allo scopo di convertire al Cristianesimo le popolazioni locali giunsero in America centinaia di religiosi, in particolare frati francescani e domenicani. Questi eroici religiosi inoltre furono spesso i soli a preoccuparsi del destino delle genti americane, rimaste completamente in balia delle soperchierie dei conquistadores. Tra i maggiori difensori degli indios bisogna ricordare Padre Bartolomeo de Las Casas, che si batté contro lo sfruttamento schiavistico dei nativi, denunciando presso Carlo V la cupidigia e la malvagità dei propri compatrioti.
Superata la fase della conquista vera e propria, negli anni centrali del XVI secolo furono poste le basi per la creazione delle istituzioni preposte al governo degli immensi territori dell’America centrale e meridionale. I conquistadores spagnoli importarono nel Nuovo Mondo le forme di organizzazione e controllo del territorio tipiche della madrepatria. In America essi fondarono città e villaggi e istituirono municipi che, data la lontananza dal potere centrale, ebbero fin da subito notevole autonomia. Proprio per questo i Re Cattolici e poi il loro nipote e successore Carlo d’Asburgo cercarono di imporre il loro controllo sulla società coloniale.

In una situazione in cui i diritti di proprietà sulla terra tolta con la forza agli indios erano spesso assai labili, allo scopo di frenare i conflitti tra i conquistadores intorno allo sfruttamento delle risorse americane, nacque l’istituito giuridico dell’encomienda de indios. In altri termini il sovrano, in cambio dell’obbligo a prestare servizio militare, affidava ad un colono una certa porzione di territorio compreso degli indigeni in esso residenti. L’encomendero avrebbe dovuto insegnare i principi della religione cattolica agli indigeni a lui affidati, e questi in cambio avrebbero fornito prestazioni di lavoro gratuite nei campi e nelle miniere dell’encomendero.
L’encomienda nei fatti assunse quindi i caratteri tipici del feudalesimo europeo. Ciò costituiva motivo di tensione fra la Corona e la società coloniale in quanto il sovrano intendeva evitare la formazione di un’aristocrazia ispano-americana che avrebbe potuto opporsi al suo potere nel Nuovo Mondo, dove a causa delle distanze enormi l’autorità regia risultava assai debole.

Pressato dalle ripetute denunce presentate dai frati domenicani di Hispaniola riguardo la condizione di schiavitù degli indigeni americani, nel 1512 Ferdinando d’Aragona – reggente del Regno di Castiglia dopo la scomparsa della moglie Isabella nel 1504 – emanò le Leggi di Burgos con cui intendeva regolare i rapporti tra indios e spagnoli in America. Pur accettando l’istituto dell’encomienda il sovrano ribadiva la sua esclusiva potestà sugli indios ai quali era riconosciuto il diritto a ricevere un salario e a non essere sfruttati in modo disumano. La Corona però non disponeva degli strumenti concreti per dare attuazione a queste leggi. Anche per questo i successivi tentativi di Carlo V e di Filippo II di limitare il potere dei municipi e degli encomenderos porteranno allo scoppio di rivolte costringendo i sovrani a fare marcia indietro.
Bisogna dire poi che, anche se i sudditi della Corona d’Aragona presero parte all’esplorazione e alla successiva conquista del Nuovo Mondo, i territori americani vennero formalmente annessi non alla “Spagna” ma alla sola Corona di Castiglia, da cui il detto A Castilla y León, nuevo mundo dio Colón “Alla Castiglia e a Leon Colombo ha dato il Nuovo Mondo”. Sebbene non si ponessero limitazioni legali all’emigrazione dei sudditi aragonesi, catalani e navarresi la loro presenza non era gradita ed essi vennero trattati quasi fossero degli stranieri.

Mentre venivano poste le premesse per il futuro imperiale della Spagna, il 23 gennaio 1516 Ferdinando II il Cattolico morì. Aveva sessantaquattro anni, di cui trentasette di regno. La successione venne raccolta dal nipote sedicenne Carlo di Gand, figlio di sua figlia Giovanna, in seguito ricordata con l’epiteto di Pazza, e del di lei marito Filippo d’Asburgo detto il Bello, figlio di Massimiliano I, Imperatore del Sacro Romano Impero.
Il nuovo Re adolescente si trovò a regnare su una Spagna che in realtà, più che una compagine unitaria, si presentava come un insieme di regni diversi per lingua e tradizioni, ciascuno geloso dei propri privilegi e delle proprie prerogative. Per Carlo, nato e cresciuto nell’ambiente fiammingo e borgognone, il mondo iberico si presentò come alieno e per giunta ostile. Il nipote dei Re Cattolici, giunto in Spagna con il suo seguito di consiglieri fiamminghi, venne infatti percepito come un sovrano straniero tanto più che, in barba ad una sua famosa frase nella quale affermava di parlare “spagnolo a Dio, italiano alle donne, francese agli uomini e tedesco al proprio cavallo”, Carlo in realtà non spiccicava una parola di castigliano.
L’ostilità nei suoi confronti aumentò allorché nel 1519 l’ormai diciannovenne Carlo riuscì a succedere a suo nonno Massimiliano nella carica di Imperatore superando la concorrenza del suo ambizioso rivale, il Re di Francia Francesco I di Valois. In spagna, e in Castiglia in particolare, l’ascesa di Carlo al trono imperiale generò preoccupazioni legate all’emarginazione degli interessi locali entro una compagine politica dal baricentro tedesco-fiammingo. Le richieste fiscali, in concomitanza con la partenza del sovrano per l’elezione imperiale in Germania (1520) causarono la rivolta delle città castigliane, riunite in una confederazione detta dei Comuneros. Le comunità urbane tentarono di arrogarsi il diritto di parlare a nome del regno, minando il potere dell’aristocrazia feudale che a quel punto, superate le proprie divisioni interne, finì col fare causa comune con Carlo in difesa delle proprie prerogative. Nell’aprile del 1521, a Villalar le truppe fedeli al sovrano schiacciarono le milizie cittadine ribelli, ristabilendo così l’ordine.

A meno di vent’anni il neo Imperatore Carlo V si trovò così a capo di una compagine composita di regni e possedimenti tale da fare di lui il più potente signore della Cristianità: all’eredità dei Re Cattolici – Castiglia, Aragona, Sicilia, Sardegna, Napoli e le colonie americane – Carlo aggiunse infatti quella asburgica – Austria, Stiria, Carinzia, Tirolo e Boemia – e quella borgognona – composta dagli attuali Belgio e Paesi Bassi oltre alla Franca Contea – ricevuta dalla nonna paterna Maria di Borgogna. Carlo intendeva impiegare le ingenti risorse finanziarie e militari a disposizione per consolidare sul piano interno il potere regio nei propri stati, in maniera simile a quanto stanno compiendo i Re di Francia e, in politica estera, affermare il dominio asburgico in Italia e nello stesso tempo contenere l’espansione turco-ottomana nel Mediterraneo.

Tale disegno egemonico trovò un irriducibile oppositore in Francesco I di Francia. Nonostante la pace di Noyon, stipulata tra i due sovrani pochi mesi dopo l’ascesa di Carlo al trono spagnolo, presto il conflitto si riaccese nel 1521. Quattro anni dopo, nel 1525, le forze ispano-imperiali conseguirono un successo strepitoso contro l’esercito francese nella battaglia di Pavia, in Lombardia, durante la quale lo stesso Francesco I venne fatto prigioniero. Il Re di Francia fu così costretto a firmare l’umiliante pace di Madrid, con cui dovette rinunciare ai domini italiani e ai territori borgognoni.
Resosi conto del pericolo costituito dall’egemonia asburgica sulla Penisola, Papa Clemente VII abbandonò l’alleanza con Carlo V promuovendo la formazione di una coalizione anti-imperiale, la Lega di Cognac formata da Francia, Venezia, Firenze, Milano e Genova. Per tutta risposta nella primavera del 1527 un esercito imperiale irruppe in Italia puntando decisamente su Roma che venne occupata il 6 maggio. Una volta penetrati nella Città Eterna i lanzichenecchi imperiali, in gran parte luterani, si abbandonarono a uno dei peggiori saccheggi che l’Urbe avesse mai subito, tale da fare impallidire quelli perpetrati dai Goti e dai Vandali nell’Antichità.

Il superamento del contrasto tra Papa e Imperatore si ebbe nel giugno del 1529 con la firma del trattato di Barcellona, con cui Clemente, in cambio dell’appoggio alle iniziative militari di Carlo contro turchi e protestanti ottenne la restaurazione della signoria medicea su Firenze. Poco tempo dopo (agosto 1529) Carlo siglò con Francesco I la Pace di Cambrai – detta anche “pace delle due dame”, poiché non venne negoziata direttamente dai due sovrani, ma da Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e da Margherita d’Asburgo, zia di Carlo V – in conseguenza della quale il Re di Francia ribadiva la sua rinuncia a ogni pretesa in Italia. Di lì a un anno Carlo V si recò in Italia, a Bologna, dove ricevette l’omaggio dei principi della Penisola e venne incoronato Imperatore e Re d’Italia dallo stesso Clemente VII.
Già padrone di Napoli e della Sicilia, Carlo V rafforzò la sua egemonia sull’Italia attraverso l’alleanza con la Genova di Andrea Doria e la restaurazione di Francesco II Sforza sul trono ducale di Milano. Quando poi nel 1535 quest’ultimo morì senza eredi anche Milano venne incorporata nei domini asburgici.

Per essendo uscito vittorioso dalla guerra contro la Francia, Carlo conseguì risultati modesti nel tentativo di contenere la pressione turca nel Mediterraneo e nei Balcani. Sull’Impero Ottomano regnava allora il Sultano Solimano il Magnifico (r. 1520-1566), il quale nel 1526 guidò una grande spedizione in Ungheria nel corso della quale inflisse una durissima sconfitta nella battaglia di Mohacs all’esercito magiaro comandato dal sovrano Luigi II Jagellone, che cadde sul campo. Nel 1529 i turchi avanzarono ulteriormente assediando la stessa Vienna che però resistette. Pur costretti a ritirarsi gli ottomani conservarono ugualmente il possesso di gran parte dell’Ungheria.
Per quanto riguarda il teatro mediterraneo, nel 1522 Solimano costrinse i Cavalieri di San Giovanni a lasciare definitivamente l’isola di Rodi mentre il suo alleato, il comandante corsaro Khair-ad Din, detto Barbarossa, sottrasse Algeri agli spagnoli (1529) per poi impadronirsi di Tunisi (1534). L’anno successivo Carlo allestì una grande spedizione che riuscì a riprendere Tunisi ma l’Imperatore non riuscì a sfruttare questo importante successo e l’occasione per annientare i pirati barbareschi andò perduta. Quando poi nel 1541 lo stesso Carlo si mise a capo di una imponente flotta che però, giunta in prossimità di Algeri, venne spazzata via da una tempesta. A causa di questi insuccessi il Mediterraneo divenne un “lago islamico” nel quale i corsari magrebini agivano quasi incontrastati, attaccando e razziando le navi e le coste europee.

Ma la sfida più insidiosa all’autorità di Carlo V non venne tanto dalla Francia o dall’Impero Ottomano quanto piuttosto dalla ribellione dei principi tedeschi, in particolare quelli che avevano abbracciato la Riforma luterana. L’opposizione ai progetti di Carlo, che mirava a riorganizzare l’Impero attraverso la costituzione di un esercito, di un fisco e di tribunali imperiali, scaturiva dalla comune volontà dei principi di salvaguardare la propria autonomia politica oltre che di tutelare la libertà religiosa per i protestanti. Per contrastare Carlo V i principi non esitarono ad appoggiarsi alla Francia il cui Re Francesco I -come pure suo figlio e successore Enrico II – per quanto cattolico non esitò ad allearsi con gli “eretici” luterani o persino con gli “infedeli” turchi pur di indebolire il suo potente avversario.
Di fronte a questa situazione Carlo V si rese conto dell’impossibilità di realizzare il proprio sogno di una vita di fare dell’Impero un organismo politicamente e confessionalmente coeso. Pertanto nel 1555 l’Imperatore concluse con i ribelli la Pace di Augusta in base alla quale fu garantita a tutti i sovrani e alle città tedesche la libertà di aderire al cattolicesimo o al luteranesimo. In base al principio “cuius regio eius religio” (“di chi la regione, di lui la religione”) i sudditi sarebbero stati obbligati a conformarsi alla fede del proprio principe oppure a emigrare. Infine, l’anno successivo, Carlo abdicò rinunciando al governo di tutti i suoi regni. Prima di ritirarsi in un monastero dell’Estremadura – dove sarebbe morto nel 1559 – il sovrano divise i suoi possedimenti tra il figlio Filippo e il fratello minore Ferdinando. Al primo andarono i regni iberici con i possedimenti americani e italiani oltre ai Paesi Bassi. Il secondo invece venne investito dei possedimenti aviti della Casa d’Asburgo, ovvero Austria, Boemia e Ungheria, succedendo inoltre a Carlo nella carica imperiale. La dinastia asburgica finì pertanto col dividersi in due rami, uno spagnolo e uno austro-imperiale.
Per saperne di più:
- J. H. Elliott, La Spagna imperiale 1469-1716
- F. Benigno, Storia Moderna