Il 21 aprile 1836, sul campo di battaglia di San Jacinto, i ribelli texani, comandati dal generale e futuro Presidente della Repubblica del Texas Sam Houston si prepararono alla definitiva resa dei conti con gli odiati messicani, comandati in quell’occasione dallo stesso Presidente, il Generalissimo Antonio Lopez de Santa Ana. Lo scontro si tenne a una trentina di chilometri dalla città che ancora oggi porta il nome di Sam Houston.

In appena 18 minuti i texani, pur in inferiorità numerica, travolsero le forze messicane catturando lo stesso Santa Ana, il quale, in cambio del suo rilascio, venne costretto a firmare la “Dichiarazione di indipendenza del Texas”, fatto che sancì il definitivo distacco dello Stato della stella solitaria dal Messico. Ma quali furono le tappe che portarono il Texas a ribellarsi all’autorità messicana, a costituirsi in repubblica indipendente e infine a chiedere di diventare il ventottesimo stato degli Stati Uniti d’America? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare indietro nel tempo a circa un quindicennio prima della battaglia di San Jacinto. Nel 1821, al termine di oltre dieci anni di lotte, il Messico ottenne finalmente l’indipendenza dalla Spagna e due anni dopo, in seguito alla caduta dell’effimero regime imperiale instaurato dal generale Agustin de Iturbide, venne proclamata la nascita della Repubblica degli Stati Uniti del Messico.

Allora lo stato messicano era decisamente più esteso di oggi: i suoi confini arrivavano sino al Canada britannico e comprendevano gli odierni stati americani di California, Nevada, Utah, Arizona, New Mexico, Colorado oltre che, ovviamente, il Texas.
Più o meno in concomitanza con l’ottenimento dell’indipendenza da parte del Messico, una grave crisi economica, la prima nella storia della giovane nazione americana, si abbatté sugli Stati Uniti, gettando sul lastrico numerosi agricoltori, i quali, non più in grado di onorare i propri debiti, si erano visti costretti a cedere le proprie fattorie.
Interessato a favorire il popolamento dello stato federato di Coahuila y Tejas, esposto a frequenti incursioni degli indiani, il governo di Città del Messico stipulò un accordo con quello di Washington in forza del quale i coloni anglosassoni avrebbero potuto trasferirsi in Texas e acquistare terreni a prezzi simbolici. In cambio si chiedeva loro di acquisire la cittadinanza messicana, ispanizzare le proprie generalità e convertirsi al cattolicesimo romano (condizione, quest’ultima, spesso disattesa dai nuovi arrivati). Come risultato nel 1834 i coloni anglosassoni residenti nello stato di Coahuila y Tejas erano ormai 30 mila contro gli appena 7.800 abitanti di origine ispanica (tejanos). Tra le due comunità i rapporti erano tesi a causa dei pregiudizi degli immigrati yankee nei confronti degli ispanici e più in generale verso i cattolici.
La situazione quindi non poté che peggiorare quando nel 1833, al culmine di una carriera militare punteggiata da giravolte politiche e ribellioni armate, il Generalissimo Antonio Lopez de Santa Ana si issò con un colpo di stato alla presidenza della repubblica defenestrando il suo predecessore. Investito di poteri dittatoriali e forte dell’appoggio dei militari, Santa Ana sarebbe rimasto protagonista della vita politica messicana per i successivi ventidue anni, venendo rieletto per ben undici volte alla presidenza.
Soprannominato il “Napoleone del West”, proprio ispirandosi a Bonaparte il nuovo caudillo avviò un programma riformatore di stampo vagamente illuminista e anticlericale – Santa Ana tra l’altro era massone – per esempio ridimensionando il ruolo della Chiesa Cattolica nel sistema scolastico messicano e secolarizzando le missioni francescane nell’Alta California.
Il Presidente riformò inoltre il sistema delle carriere pubbliche, favorendo le promozioni in base al merito e consentendo l’ingresso nell’esercito e nella pubblica amministrazione anche a persone “non completamente bianche”. Ma soprattutto Santa Ana, prendendo a modello la Francia napoleonica, era deciso a ridurre le autonomie dei singoli stati federali in favore di un sistema politico più accentrato oltre che ad abolire la schiavitù, cosa che avvenne nel 1835.

Tutti questi provvedimenti erano come fumo negli occhi per i texani. I coloni erano infatti apertamente razzisti e anzi, molti di loro erano proprietari di schiavi. Essi inoltre erano favorevoli ad un sistema politico basato sulle autonomie locali e lamentavano l’eccessivo dirigismo e la corruzione del governo di Città del Messico. A livello economico avrebbero preferito coltivare cotone, di cui c’era grande richiesta da parte della nascente industria tessile europea mentre lo stato imponeva la produzione di carne e cereali.
Le prime avvisaglie della ribellione texana iniziarono a palesarsi nel corso della prima metà del 1835, quando si verificarono alcuni incidenti tra popolazione locale e guardie daziarie ad Anahuac e a Velasco. A fine giugno una seconda ondata di disordini interessò Anahuac, costringendo la guarnigione messicana a evacuare la cittadina. Santa Ana, irritato dalle notizie che arrivavano dal Texas dispose l’invio di rinforzi nella provincia allo scopo di soffocare la ribellione.

Nonostante tutto però, almeno fino alla metà di agosto del 1835 i texani rimasero relativamente fedeli al governo messicano, questo malgrado l’invito a disarmare le milizie, l’ordine di espellere tutti gli immigrati illegali e soprattutto la revoca della Costituzione federale del 1824. Ad accendere definitivamente la ribellione fu la crescente presenza di truppe messicane e la loro insistenza nel deferire di fronte alla corte marziali i capi texani radicali.
La situazione precipitò quando il colonnello Domingo Ugartechea, di stanza a San Antonio, ingiunse ai texani di restituire all’esercito messicano un cannoncino da sei libbre che era stato inviato a Gonzales nel 1831 per garantire maggiore protezione ai coloni contro possibili incursioni indiane. I texani tuttavia si opposero alla restituzione, ragion per cui Ugartechea mandò allora il tenente Francisco Castañeda con cento dragoni a recuperare il pezzo di artiglieria.

Quando l’ufficiale giunse alle rive del Fiume Guadalupe, gonfiate dalla pioggia, vicino a Gonzales, c’erano solo diciotto texani a contrastarlo. Nell’impossibilità di guadare, Castañeda si accampò, e i ribelli, sepolto il cannone, chiamarono altri volontari in soccorso. Due compagnie della milizia texana accolsero la chiamata.
La notte del 1° ottobre 1835 gli insorti attaccarono furtivamente il campo messicano. Vi fu uno scambio di fucilate ma non si registrarono vittime. Il giorno successivo furono aperte trattative nel corso delle quali i texani suggerirono a Castañeda di passare dalla loro parte ma l’ufficiale pur mostrando una certa simpatia per la causa dei ribelli, rifiutò turbato da una simile proposta. Intanto i texani cucirono una bandiera improvvista sulla quale campeggiava una rozza rappresentazione del cannone conteso e la frase “Come and take it!” ossia “Venite a prenderlo!”. In mancanza di palle di cannone i ribelli caricarono il pezzo a mitraglia con rottami metallici e, una volta caricati i fucili, aprirono il fuoco sui dragoni messicani, che preferirono ripiegare su San Antonio. La guerra d’indipendenza del Texas era appena cominciata!

Di lì a poco venne istituito un governo provvisorio con a capo il leader indipendentista Henry Smith, eletto Governatore del Texas mentre Sam Houston venne nominato comandante in capo del neonato “Esercito regolare del Texas”, vale a dire lo scalcinato insieme dei volontari che avevano imbracciato le armi contro il governo messicano. Molti di questi erano cittadini statunitensi giunti in Texas attratti dalla possibilità di ricevere appezzamenti di terreno da parte del governo provvisorio in cambio del loro apporto alla causa indipendentista.
Due giorni dopo la battaglia di Goliard – per la verità una scaramuccia che costò 1 ferito ai 125 ribelli texani e 1 morto e 3 feriti ai 50 soldati messicani coinvolti – combattuta il 10 ottobre 1835, i ribelli assediarono la guarnigione messicana di San Antonio de Bejar (oggi semplicemente San Antonio) comandata dal generale Martín Perfecto de Cos. In questa occasione emerse l’inconsistenza della leadership e la totale mancanza di disciplina all’interno del cosiddetto “Esercito regolare del Texas”: quando il generale Austin ebbe dato al suo esercito di volontari il noioso compito di attendere che le forze di Cos cedessero per fame, molti dei volontari semplicemente abbandonarono il campo di battaglia. Nel corso del novembre 1835, l’esercito texano si assottigliò a poco a poco, passando da 800 a 600 uomini e gli ufficiali presero a cavillare sulla strategia e sul perché si fossero ritrovati a combattere contro i messicani mentre parecchi di loro si dimisero.

Nonostante tutti questi problemi l’11 dicembre il generale Cos si arrese con tutti i suoi uomini, stremati dagli stenti. I prigionieri messicani furono rimandati liberi in Messico, dopo che ebbero promesso di non riprendere le armi contro il Texas.
A favorire i successi militari dei ribelli fu innanzitutto la rapidità con cui era iniziata l’insurrezione, tale da prendere letteralmente in contropiede le guarnigioni messicane, che non ebbero così il tempo di prepararsi al conflitto. In secondo luogo le vittorie texane sono da ricondursi alle armi impiegate dai ribelli, in gran parte equipaggiati con pistole e fucili da caccia a canna rigata, la cui gittata superava di gran lunga i moschetti ad anima liscia dei loro avversari. L’arma standard dei soldati messicani era in effetti una versione locale del moschetto “Brown Bess” di fabbricazione inglese, la cui gittata utile non superava i 70-80 metri, modificato per poter funzionare con la polvere da sparo locale, di pessima qualità.
Informato delle vittorie dei ribelli, Santa Ana decise di agire in prima persona. Tra la fine del 1835 e l’inizio del 1836 il Generalissimo allestì pertanto un corpo di spedizione – Ejército de Operaciones – forte di 6.500 soldati. L’esercito si raccolse a San Luís Potosí e marciò alla volta del Texas attraverso i deserti del Messico durante quello che si rivelò il peggior inverno mai registrato in quella regione. A causa di ipotermia, dissenteria, attacchi degli indiani Comanche e della scarsità di viveri soltanto 1.500 soldati messicani sarebbero arrivati a destinazione.

Giunto al Rio Grande il corpo di spedizione si divise: il grosso delle forze proseguì al comando di Santa Ana alla volta di San Antonio de Bejar mentre una parte delle truppe, comandate dal generale José de Urrea, marciarono in direzione della costa texana. Urrea sconfisse la resistenza dei ribelli texani e il 27 marzo 1836 ordinò che oltre 400 di essi, precedentemente catturati, fossero giustiziati dai soldati messicani in quello che venne ricordato come massacro di Goliad.
Dal canto suo Santa Ana raggiunse Bejar il 21 febbraio e da lì si preparò ad attaccare i ribelli texani asserragliatisi ad Alamo. Benché in seguito sarebbe stato ricordato come “Fort Alamo”, l’edificio era in realtà una ex missione cattolica messicana fondata nel 1724 con il nome di Mision San Antonio de Valero allo scopo di evangelizzare i nativi. Dopo aver svolto il suo compito per una settantina d’anni, nel 1793 era stata secolarizzata, rimanendo di fatto abbandonata per un decennio fino a quando, all’inizio del XIX secolo, venne in parte recuperata dal governo coloniale spagnolo, che vi acquartierò una compagnia di cavalleggeri provenienti da San Jose y Santiago del Alamo, da cui probabilmente deriva il nome di “Alamo” con cui il complesso divenne in seguito noto.

Nonostante la riconversione ad un uso militare, la costruzione somigliava poco ad una fortezza. Le sue mura, concepite per resistere ad un assalto degli indiani e non ad un bombardamento d’artiglieria, erano spesse appena 85 centimetri e anche nel punto più alto non superavano i quattro metri. Su di esse i texani avevano installato delle passerelle dalle quale sporgersi e fare fuoco dall’alto. Il complesso era poi caratterizzato da un grande cortile sul quale si affacciavano la chiesa – ridotta ormai ad un rudere – il chiostro e una serie di baraccamenti di uno o due piani. Lo stesso Generalissimo Santa Ana la definì “una fortificazione poco degna di tale nome”. All’interno della ex missione, sotto il comando del colonnello William Barrett Travis, si trovavano circa 200 tra texani e volontari statunitensi accorsi a dar loro manforte. Tra questi ultimi si trovava il famoso cacciatore ed esploratore Davy Crockett, già deputato al Congresso degli Stati Uniti. Infine, era presente il colonnello Jim Bowie, inviato ad Alamo dallo stesso comandante in capo Sam Houston con l’ordine di trasferire altrove tutti i pezzi d’artiglieria lì presenti e di fare terra bruciata di fronte all’avanzata messicana. Tuttavia, a causa della mancanza di carriaggi e di animali da soma Bowie fu impossibilitato ad eseguire l’ordine e decise pertanto di restare.

Così, al momento dell’attacco messicano i texani potevano fare affidamento sulla più imponente concentrazione di bocche da fuoco ad ovest del Mississippi: dai 18 ai 24 cannoni con un calibro variabile dalle 12 alle 18 libbre. Gli assedianti disponevano invece di cannoncini di appena 8 libbre al massimo, insufficienti per aprire brecce nelle mura.
La battaglia di Alamo ebbe inizio la sera del 23 febbraio 1836. Santa Ana ordinò di issare la bandiera rossa, a segnalare che lo scontro sarebbe terminato solo con lo sterminio di tutti i ribelli asserragliati nella missione. Il Generalissimo aveva infatti precedentemente dichiarato che qualunque volontario straniero venuto in Texas a combattere contro le forze messicane era da considerarsi a tutti gli effetti come un pirata. E contro i pirati era prevista la pena di morte.

Nei giorni seguenti si verificarono frequenti scaramucce tra le due parti con bombardamenti reciproci. Spesso i ribelli riutilizzavano le stesse palle di cannone sparate contro di loro dai messicani. Frequentemente gli assediati effettuavano sortite per procurarsi legna da ardere – le temperature notturne arrivavano a sfiorare lo zero – o inviavano staffette nel tentativo di ricevere rinforzi. Data la situazione disperata i texani provarono financo a intavolare trattative dichiarandosi disposti a una resa onorevole ma Santa Ana insistette per una resa senza condizioni segnando di fatto la fine di ogni negoziato.

Undici giorni dopo l’inizio delle operazioni il Generalissimo decise di rompere gli indugi e scatenare l’attacco finale. A mezzanotte, approfittando della nuvolosità, i messicani, equipaggiati con asce e scale, iniziarono a muovere verso le mura nel silenzio più totale. Il piano d’attacco fu il seguente: mentre due colonne di 350 e 400 uomini comandate rispettivamente dal generale Cos e dal colonnello Francisco Roque avrebbero attaccato da nord-ovest, altri 400 soldati guidati dal colonnello José Maria Romero avrebbero invece attaccato da est. Contemporaneamente un distaccamento di 125 uomini al comando del colonnello Juan Morales avrebbe puntato sulla chiesa. Infine una riserva di 400 uomini sarebbe rimasta al comando dello stesso Santa Ana.
Alle 5 del mattino ebbe inizio l’attacco: le sentinelle, insonnolite, vennero colte di sorpresa e uccise. Squilli di tromba e grida come “Viva Santa Ana! Viva la Repubblica!”, seguite da scariche di fucileria svegliarono i ribelli texani che, seppur frastornati, tentarono di opporre resistenza, respingendo i primi due assalti messicani. Al terzo però le truppe messicane riuscirono a superare le difese texane e la battaglia si frammentò in una serie di feroci scontri corpo a corpo.

William Travis fu tra i primi a cadere mentre Davy Crockett resistette a lungo davanti alla chiesa e, una volta terminate le munizioni, si difese imbracciando il fucile come una clava. Bowie invece, ammalatosi prima della battaglia, fu trascinato fuori dal letto e finito a baionettate dopo avere tentato disperatamente di difendersi menando fendenti con il suo famoso coltello. I texani morirono tutti ma anche i messicani pagarono la vittoria ad un prezzo molto alto: dai 400 ai 600 caduti.
Dopo il successo di Alamo Santa Anna divise le sue forze in colonne volanti, inviate attraverso il Texas, nell’intento di costringere a una battaglia decisiva l’esercito texano, ora guidato da Sam Houston. Quest’ultimo ordinò allora una ritirata verso il confine statunitense, cosa che fu peraltro imitata anche da molti coloni. Fu quindi adottata una politica della terra bruciata, che tagliava all’esercito messicano quei viveri di cui aveva pressante necessità. Da lì a poco, le piogge resero impraticabili le strade e la stagione fredda seminò largamente la morte in entrambi gli schieramenti.
La definitiva resa dei conti arrivò infine, come abbiamo accennato in apertura, il 21 aprile 1836 sul campo di battaglia di San Jacinto. Al grido di “Remember the Alamo” (Ricordatevi di Alamo!) i ribelli attaccarono le truppe messicane cogliendo una vittoria decisiva grazie alla cattura dello stesso Generalissimo Santa Ana che, come detto, in cambio della sua liberazione si vide costretto a riconoscere agli insorti l’agognata indipendenza. Il 14 maggio successivo vennero firmati i trattati di Velasco, che fecero cessare le ostilità e furono un importante passo avanti verso il riconoscimento dell’indipendenza del Texas.

La nuova Repubblica organizzò le proprie istituzioni sul modello statunitense. Nell’ottobre 1836 si tennero le prime elezioni presidenziali e Sam Houston, in virtù del ruolo avuto nel corso della rivoluzione, venne eletto Capo dello Stato. Inizialmente i leader texani, tra i quali il neo presidente, credettero nel sogno dell’indipendenza del Texas: dopotutto la nuova Repubblica disponeva di grandi estensioni di terra coltivabile, di importanti risorse naturali e di ottimi porti sul Golfo del Messico. Nonostante ciò il Texas doveva ancora vedersela con le rivendicazioni del governo di Città del Messico, che non si rassegnava alla perdita della sua ex provincia nord-orientale oltre che con la minaccia costituita dalle incursioni degli indiani delle pianure. Inoltre sul piano interno il nuovo stato era totalmente privo di un apparato politico e amministrativo stabile, con una società civile ancora tutta da costruire e con numerose teste calde che, ancora eccitate dall’indipendenza, avrebbero potuto tentare di tutto.

Per tutti questi motivi subito dopo la prima tornata elettorale fu indetto un referendum popolare riguardante l’annessione del Texas agli Stati Uniti d’America. Nonostante i legami, anche personali, con Sam Houston, l’allora presidente americano Andrew Jackson si vide costretto ad adottare una linea molto moderata a proposito dell’incorporazione del Texas. L’opinione pubblica statunitense considerava infatti i texani un popolo di avanzi di galera e la loro rivoluzione come la criminosa insurrezione di avventurieri, speculatori terrieri e proprietari di schiavi che volevano accaparrarsi con la forza di terre non loro. Anche tra i membri del congresso vi erano molte riserve all’ammissione del Texas nell’Unione, specie da parte dei deputati e dei senatori abolizionisti, che, in un periodo in cui il dibattito sulla schiavitù iniziava a farsi infuocato, non potevano tollerare la costituzione di un nuovo stato schiavista grande un terzo dell’Unione che avrebbe significativamente alterato i rapporti di forza tra favorevoli e contrari alla schiavitù.

Un’ulteriore ragione che imponeva cautela al governo statunitense circa l’annessione del Texas era costituita dal fatto che un passo simile avrebbe potuto condurre ad uno scontro armato col Messico, tuttora non rassegnato alla perdita del Texas. Per quanto la maggioranza dei texani fosse stata inizialmente affascinata dall’idea di un Texas libero e indipendente, dopo nove anni di tensioni con il Messico e un debito pubblico – per l’epoca enorme – di otto milioni di dollari, Houston, tornare alla presidenza nel dicembre del 1841 decise di giocare l’ultima carta possibile per salvare il Texas ovvero tentare ancora una volta l’annessione agli Stati Uniti.
Il rovesciamento di sorte per il Texas e il rinnovato interesse dei texani per l’annessione coincisero negli Stati Uniti con il diffondersi dell’idea che il destino dell’Unione fosse l’espansione verso ovest e che quindi il Texas non avrebbe potuto restare indipendente anche perché, dal punto di vista di Washington, una nazione confinante così aggressiva e orgogliosa, magari finanziata e sostenuta dall’Inghilterra, avrebbe potuto essere un fastidioso intralcio alle ambizioni statunitensi.

A partire dalla seconda metà del 1843, durante la presidenza di John Tyler, ebbero inizio le trattative tra Usa e Texas per l’annessione e a nulla valsero gli sforzi di alcune fazioni texane e statunitensi e delle potenze europee per farli fallire. Il 4 luglio 1845 il Congresso texano approvò in via definitiva l’annessione, ratificata il 13 ottobre successivo dai cittadini con 4254 voti a favore e 257 contro. Così, il 29 dicembre 1845, sotto la presidenza di James Knox Polk, il Texas divenne il 28° Stato dell’Unione. Le frizioni createsi con il Messico portarono nel 1846 alla guerra conclusasi due anni dopo con il trattato di Guadalupe Hidalgo attraverso il quale gli USA strapparono al vicino meridionale i territori dei futuri stati di Colorado, Arizona, Nuovo Messico e Wyoming, oltre che la parte meridionale di California, Nevada e Utah, fissando una volta per tutte il confine lungo il corso del Rio Grande.