Il suo nome è indissolubilmente legato alla celebre Prospettiva che nel corso del tempo ha ispirato artisti come Nikolaj Vasil’evič Gogol e il nostro Franco Battiato. Quella strada si staglia per cinque chilometri nel cuore di San Pietroburgo, la città fondata nel 1703 dallo Zar Pietro il Grande lungo le rive della Neva, il fiume che collega il Mar Baltico al Lago Ladoga, il più grande specchio d’acqua d’Europa. Oltre quattro secoli e mezzo prima della nascita di San Pietroburgo, le rive di questo maestoso corso d’acqua furono teatro di uno scontro che vide il trionfo del Principe di Novgorod Aleksandr Jaroslavič, che proprio in virtù di questo trionfo passò alla Storia con il soprannome di “Nevskij”.

Il nostro protagonista nacque il 30 maggio 1220 nella residenza di famiglia di Pereslavl’-Zalesskij, nel cuore della Russia settentrionale. Nato un anno dopo il fratello Fëdor, Aleksandr era quindi il secondogenito maschio del principe Jaroslav II Vsevolodovič e di sua moglie Feodosia Igorevna. Il futuro eroe nazionale era dunque l’ultimo nato della frondosa dinastia rjurikide, ossia dei discendenti – o pretesi tali – di Rjurik, il semi leggendario condottiero variago – ossia vichingo – che secondo la Cronaca degli Anni Passati sarebbe approdato sulle coste baltiche dell’attuale Russia intorno all’anno 862 assieme ai fratelli ponendo le basi per la fondazione di un grande stato slavo-scandinavo noto come Rus’ di Kiev.
Dopo essere stata convertita all’Ortodossia nel corso del regno di Vladimir il Santo (980-1015) e aver toccato l’apice dello splendore e della potenza sotto il dominio di suo figlio Jaroslav il Saggio (r. 1019-1054) a partire dalla seconda metà dell’XI secolo la compagine kievana era andata incontro ad un inesorabile processo di disgregazione: all’epoca della nascita di Aleksandr, nella prima metà del Duecento, l’unità della Rus’ era ormai un lontano ricordo. L’antico regno era ormai irrimediabilmente diviso in una quindicina di principati di fatto indipendenti retti da esponenti della dinastia rjurikide i quali, pur riconoscendo formalmente l’autorità del Gran Principe di Kiev tendevano a considerarlo come una sorta di primus inter pares piuttosto che un sovrano assoluto.

Come abbiamo detto, il nostro eroe era figlio di Jaroslav signore di Pereslavl’-Zalesskij, allora parte del più vasto principato di Vladimir-Suzdal’, uno dei più potenti sorti dalla frammentazione della Rus’, sul quale regnava Jurij II Vsevolodovich, zio paterno di Aleksandr. Questi, grazie alla sua influenza, nel 1221 riuscì a far assegnare nuovamente al fratello minore Jaroslav la carica di Principe di Novgorod. Collocata all’estremo limite settentrionale della Rus’, la città di Velikij Novgorod (Novgorod la Grande) era stata la prima tappa della penetrazione dei variaghi verso il cuore della Russia. Proprio qui, nella prima metà del XII secolo si affermò un sistema politico peculiare definito durante il periodo sovietico come “Repubblica feudale” e che potrebbe far pensare a Novgorod come ad una sorta di Venezia del nord.
Anche se non disponiamo di un’esatta conoscenza della struttura politica della Repubblica di Novgorod e del suo funzionamento, sulla base dei resoconti storici a nostra disposizione possiamo desumere l’esistenza di un insieme di organismi collegiali quali la veče (l’assemblea popolare) oltre ai posadnik (amministratori cittadini) e i tysjackij (“chiliarchi“, comandanti militari ma in seguito anche funzionari giudiziali e commerciali), scelti fra gli esponenti delle famiglie aristocratiche della città.
Un altra importante figura era senz’altro l’Arcivescovo, il quale, oltre ad assolvere alle supreme funzioni spirituali aveva un ruolo di primo piano negli affari politici: presiedeva il consiglio dei notabili, fungeva da consulente delle autorità laiche e da arbitro nelle dispute tra fazioni antagoniste e talvolta guidava anche ambascerie all’estero. La sua sede era la Cattedrale di Santa Sofia, situata nel quartiere omonimo.
I mercanti e gli artigiani partecipavano attivamente alla vita politica della Repubblica: la Prima Cronaca di Novgorod, redatta tra il XIII e il XIV secolo, afferma che i cittadini di Novgorod godevano di una grande “libertà” (svobóda). Un’altra peculiarità di Novgorod rispetto agli altri potentati russi era legata al ruolo del Principe (Knjaz’) il quale, a partire dal 1136, anno della cacciata del Principe Vsevolod Mstislavič, non fu più un sovrano assoluto ma “semplicemente” il comandante in capo delle forze militari della Repubblica. Eletto tra i boiari più in vista dalla veče, era sottoposto al controllo di quest’ultima, che restava la sola titolare della sovranità.

Proprio come per il Doge a Venezia, varie erano le limitazioni a cui era sottoposto il Principe di Novgorod: la comunità lo ricompensava per i suoi servigi attraverso il versamento di un appannaggio ma allo stesso tempo le sue finanze erano sottoposto a severi controlli: il Principe poteva dedicarsi ad attività commerciali ma soltanto avvalendosi di intermediari di Novgorod e pagando pesanti dazi doganali, non poteva possedere più di una certa quantità di terra e di schiavi e persino pagare un tributo per cacciare o pescare. Tutto ciò mirava a impedire al Principe di disporre di risorse tali da arruolare un esercito personale con il quale avrebbe potuto sovvertire le istituzioni della Repubblica. A riprova di tutto ciò la družina – il seguito armato dei sovrani della Rus’- agli ordini del Principe di Novgorod era estremamente limitata mentre egli era obbligato a risiedere al di fuori delle mura cittadine, nella cosiddetta “Cittadella di Rjurik” (Rjurikovo Gorodišče).

L’infanzia del principino e del fratello maggiore Fëdor sembrava scorrere tranquilla nella routine che scandiva la vita di corte mentre nel 1222 la famiglia si allargò ulteriormente con la nascita del terzogenito Andrej. In quanto figlio cadetto pareva molto difficile che Aleksandr potesse un giorno aspirare a sedere sul trono di Vladimir, superato, nella linea di successione, oltre che dallo zio Jurij e dai cugini, anche dal padre e dal fratello maggiore. A rimescolare le carte, sconvolgendo la vita di Aleksandr, della sua famiglia e di milioni di loro compatrioti contribuì l’Apocalisse che di lì a poco si sarebbe abbattuta sulla Russia, un cataclisma paragonabile soltanto all’aggressione nazista durante la seconda guerra mondiale.
Tra la fine del 1222 e il principio del 1223 iniziarono a circolare notizie preoccupanti provenienti da oriente: le voci, in seguito confermate dai raccapriccianti resoconti dei pochi scampati alla ferocia degli invasori, riferivano di città e villaggi saccheggiati e dati alle fiamme oltre che di intere popolazioni passate a fil di spada o ridotte in schiavitù.

Chi erano dunque questi barbari descritti come i demoni dell’Apocalisse? Si trattava di un popolo nomade, selvaggio e pagano, i Mongoli. Da sempre dividi in gruppi tribali in lotta fra loro, nel 1206 erano stati riuniti sotto un’unica bandiera da Temujin, passato alla Storia con il nome di Gengis Khan, che significa “Signore Universale”. Sotto il suo comando i Mongoli soggiogarono il potente impero cinese e le ricche città carovaniere dell’Asia centrale, come Bukhara e Samarcanda, diventando padroni di un impero sterminato, esteso dalla Corea alle rive del Mar Caspio.

Dopo avere sottomesso l’Impero corasmio (situato a cavallo degli odierni Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan), i generali di Gengis Khan, Jebe e Subedei, proseguirono la loro avanzata in direzione del Caucaso alla testa di un tumen (unità tattica composta da circa 10 mila uomini) ciascuno. L’armata mongola attraversò l’Azerbaigian e la Georgia lasciandosi alle spalle una lunga scia di morte e distruzione per poi giungere nel bacino inferiore del fiume Don, nei territori controllati da Köten, Khan dei Comani. Questi, di fronte alla minaccia mongola, cercò di stipulare un’alleanza con il consuocero Mstislav Mstislavič l’Audace – Principe di Galizia e Volinia e nonno materno dello stesso Aleksandr Nevskij – alla quale aderirono anche i principi di Kiev, Černigov e Smolensk. Nel maggio del 1223 gli alleati si congiunsero ai Comani lungo il corso del fiume Dnepr. La coalizione poteva schierare un esercito di 80 mila uomini, e poteva quindi contare su una schiacciante superiorità numerica rispetto agli appena 20 mila avversari.
Alla fine del mese le truppe russo-comane intercettarono gli invasori tatari lungo le rive del fiume Kalka. Credendo di cogliere una facile vittoria Mstislav l’Audace attaccò senza curarsi delle mosse degli altri principi, rimasti coi propri soldati nei loro accampamenti poco distanti. I Mongoli allora finsero di ritirarsi di fronte all’attacco nemico per poi scaricare sui Russi devastanti piogge di frecce da distanza di sicurezza. Infine, una volta fiaccato l’avversario i cavalieri delle steppe vibrarono il colpo decisivo caricando senza pietà con sciabole e lance. In preda al panico Comani e Russi furono costretti ad una precipitosa ritirata.

Mstislav a quel punto si ritirò nel suo accampamento. Tre giorni dopo, ingannato con la promessa di aver salva la vita dietro riscatto, aprì le porte ai Mongoli che massacrarono tutti i suoi uomini mentre lui venne avvolto in un tappeto e soffocato, una morte riservata dai Mongoli agli avversari giudicati degni di rispetto. La battaglia del fiume Kalka costò la vita a circa 70 mila combattenti russi. Essa venne combattuta il 31 maggio 1223, il giorno prima del terzo compleanno di Aleksandr Nevskij. La vittoria spalancò ai Mongoli le porte dell’intera Russia europea eppure, inspiegabilmente, così come erano apparsi gli invasori si ritirarono nelle steppe orientali non prima di avere saccheggiato la ricca colonia genovese di Soldaia (l’odierna Sudak) in Crimea.
Gli anni successivi al passaggio della tempesta tartara furono, per l’infante e poi adolescente Aleksandr, segnati dalla formazione tanto intellettuale quanto, soprattutto, guerriera. Nel 1236 a coronamento del suo apprendistato, la vece lo acclamò come Principe della Repubblica di Novgorod al posto del padre. Aleksandr aveva allora soltanto sedici anni, un’età in cui allora si era considerati già adulti.

A un anno di distanza dall’ascesa di Aleksandr alla carica di Principe, i Mongoli fecero nuovamente la loro comparsa, molto più numerosi rispetto a quattordici anni prima. Questa volta i cavalieri delle steppe erano guidati da Batu Khan, nipote del grande Gengis, morto dieci anni prima. Per il popolo russo si trattò di un’autentica apocalisse: come demoni i Mongoli dilagarono in tutto il territorio prendendo e bruciando città come Rjazan’, Mosca e Vladimir. Nell’inverno del 1240 anche la stessa Kiev venne conquistata e rasa al suolo, evento che segnò il definitivo tramonto della Rus’. Possiamo immaginare il terrore e lo sgomento suscitati dalla furia tartara rileggendo le parole lasciateci dal vescovo Serapione di Vladimir, il quale, testimone diretto dell’opera devastatrice dei Mongoli, nel suo Sermone del 1240 descrisse la tragedia vissuta dai Russi come una manifestazione della collera divina per i peccati commessi:
“Dio inviò allora contro di noi un popolo spietato, un popolo selvaggio, un popolo che non risparmia né la bellezza della giovinezza, né l’impotenza dei vecchi, né l’infanzia. Noi abbiamo provocato la collera del nostro Dio […]. Le sante chiese sono state distrutte, gli oggetti sacri profanati, i luoghi santi insudiciati […]. I cadaveri dei venerabili monaci gettati sulla neve in pasto agli uccelli; la terra si è abbeverata dei sangue dei nostri padri e dei nostri fratelli [che colava] come un’acqua abbondante; il coraggio dei nostri capi e principi è svanito; i nostri uomini coraggiosi pieni di terrore sono fuggiti, una moltitudine di nostri fratelli e di bambini fu trascinata in schiavitù; i nostri villaggi sono diventati campi di ortiche la nostra grandezza è svanita, la nostra bellezza è stata distrutta […]. I pagani hanno raccolto i frutti del nostro lavoro.”
Soltanto le città di Novgorod e Pskov si salvarono dalla devastazione e questo perché spostandosi verso nord gli invasori asiatici incontrarono un ambiente fatto di foreste e paludi che rendeva difficile lo spostamento di grandi contingenti di cavalleria.

La conquista mongola inaugurò quel lungo periodo, durato circa due secoli e mezzo, che nella storiografia russa viene chiamato “giogo tartaro” durante il quale i principi russi furono costretti a riconoscersi vassalli dei Mongoli. Più precisamente, mentre gran parte del territorio sudoccidentale della Rus’ di Kiev finì sotto la diretta dominazione mongola, le regioni nordorientali dell’attuale Russia europea, caratterizzate da un clima decisamente più rigido e da un popolamento più scarso, continuarono ad essere governate dai medesimi esponenti della dinastia rjurikide, sottoposti però al pagamento di un tributo e all’approvazione del Khan dell’Orda d’Oro, vale a dire il khanato costituitosi in seguito alla divisione dell’impero mongolo dopo la morte di Gengis Khan. Dopo la conquista della Russia i Mongoli stabilirono la loro capitale a Saraj, situata lungo il basso corso del Volga, un’area in cui le condizioni ambientali erano più simili a quelle delle steppe dell’Asia orientale.
Anche Novgorod dunque, per quanto fosse scampata alla distruzione, fu assoggettata al pagamento di un tributo. In qualità di Principe, Aleksandr avrebbe dovuto mantenere buoni rapporti con i nuovi padroni tartari e contemporaneamente assicurare la difesa della Repubblica dagli antichi nemici provenienti da occidente: Tedeschi, Danesi e Svedesi. Questi infatti intendevano approfittare dell’indebitamento dei principati russi a causa dell’invasione mongola per stabilire presidi permanenti lungo la costa baltica e nella Russia nord-occidentale, allo scopo di controllare le lucrose rotte commerciali che attraverso i grandi fiumi russi conducevano fino al Mar Nero e a Costantinopoli.

Già nel 1238 il sovrano svedese Erik XI aveva ricevuto la benedizione di Papa Gregorio IX per condurre una crociata in terra russa. Così nell’estate del 1240, partendo dalle proprie basi in Finlandia – già possedimento svedese dalla metà del XII secolo – una flotta al comando dello jarl (conte) Birger Magnusson, cognato dello stesso Erik di Svezia, navigò fino alle foci del fiume Izhòra, un affluente della Neva, con l’intenzione di raggiungere il lago Ladoga e da lì calare su Novgorod.
Di fronte a questa minaccia, Aleksandr, da poco sposatosi con la principessa Aleksandra di Polock, si vide costretto a mettersi a capo della milizia di Novgorod con la quale marciò contro gli svedesi. Il 15 luglio 1240, dopo aver distrutto i ponti sulla Neva e appiccato il fuoco alle navi nemiche per tagliare agli svedesi ogni via di ritirata, le forze russe piombarono a sorpresa sugli uomini di Birger Magnusson approfittando della nebbia che avvolgeva il loro accampamento. La battaglia della Neva fu un autentico massacro: il condottiero scandinavo, si dice ferito dallo stesso Aleksandr, si salvò a stento alla strage del suo esercito fuggendo a bordo di una delle poche navi superstiti.

Come abbiamo accennato in apertura fu proprio in virtù di questa vittoria che Aleksandr si guadagnò il soprannome di “Nevskij”, che significa appunto “Della Neva”. Il successo contro gli svedesi però, se da un lato fece aumentare la popolarità di Aleksandr Nevskij presso il popolo minuto, dall’altro fece crescere i sospetti nutriti dalla borghesia mercantile di Novgorod, timorosa che il principe, forte dei successi militari, mirasse a esautorare le libere istituzioni repubblicane trasformando lo stato in senso monarchico e assolutista. Di fronte ai contrasti crescenti con la classe dirigente della Repubblica, Aleksandr dovette abbandonare Novgorod. Altre fonti invece riferiscono che fu lui stesso a optare per un esilio volontario. Qualunque sia il motivo del suo allontanamento, questo non durò a lungo: già l’anno successivo furono gli stessi boiardi che avevano complottato contro di lui a richiamarlo al potere affinché difendesse Novgorod contro nuovi invasori ancora più feroci degli svedesi.
Si trattava degli spietati Cavalieri Teutonici, membri di una potente confraternita monastico-militare fondata una cinquantina di anni prima in Terrasanta ma che già a partire dai primi anni del XIII secolo aveva trasferito la propria sede operativa nell’Europa Orientale. Vero e proprio braccio armato della Chiesa di Roma e dell’Impero germanico, oltre che ciecamente fedele alla propria missione evangelizzatrice compiuta per mezzo della spada i Cavalieri diedero inizio ad una vera e propria crociata contro le popolazioni baltiche ancora pagane – Lituani, Lettoni, Livoniani, Prussiani e Semigalli – con lo scopo di ottenerne la conversione al cattolicesimo. Nel 1237 si fusero con l’Ordine dei Portaspada, sorto nel 1202 per iniziativa di Albrecht von Buxthoeven, primo arcivescovo di Riga, con lo scopo di cristianizzare le popolazioni pagane stanziate nelle regioni di Curlandia, Semigallia e Livonia, corrispondenti alle attuali repubbliche di Lettonia ed Estonia.

L’azione dei Cavalieri Teutonici e Portaspada si inseriva in quel processo di conquista e colonizzazione delle terre slave e baltiche da parte delle genti germaniche cominciato nei secoli dell’Alto Medioevo e noto con il termine tedesco di “Drang nach Osten”, ossia la “spinta verso est”. A partire dal 1239, approfittando dello scompiglio generato dall’invasione tartara, i crociati avevano sferrato i primi attacchi in direzione della Russia nordoccidentale. Il fatto che, a differenza delle popolazioni baltiche, i Russi fossero cristiani – sia pure ortodossi e non cattolici – per i Cavalieri Teutonici era del tutto irrilevante: dal loro punto di vista si trattava di eretici da ricondurre alla “vera fede” cattolica.
Già nel 1240 i crociati teutonici, guidati da Hermann von Buxhövden, primo principe-vescovo della diocesi di Dorpat (l’attuale Tartu, in Estonia) e fratello del già menzionato Albrecht di Riga, erano riusciti a impadronirsi di Pskov, Izborsk e Kopor’e, ai confini occidentali del territorio di Novgorod. Le città vennero riconquistate al termine di una controffensiva sferrata l’anno successivo dalle truppe novgorodiane, che approfittarono della partenza del grosso dell’esercito crociato, inviato a reprimere una rivolta in Curlandia.

La resa dei conti con gli odiati crociati si consumò infine sabato 5 aprile 1242, lungo le sponde del Lago Peipus, conosciuto anche come Lago dei Ciudi, dal nome della tribù baltica stanziata nelle sue vicinanze. Difficile fare un’esatta stima delle forze in campo. L’esercito crociato schierava circa 2 mila effettivi, compresi i cavalieri teutonici con i loro scudieri e attendenti e i mercenari danesi, svedesi ed estoni. Le forze novgorodiane contavano invece circa 6 mila uomini ripartiti tra la milizia cittadina, la družina di Aleksandr Nevskij e un contingente di arcieri tartari ausiliari.
Impossibilitati a manovrare a causa della superficie scivolosa del ghiaccio, sottoposti al tiro martellante degli arcieri ed esausti per il combattimento e l’inseguimento precedenti, i crociati iniziarono a ritirarsi in disordine in mezzo al ghiaccio, e all’apparizione della fresca cavalleria russa cominciarono ad arretrare mentre gli estoni si diedero alla fuga senza opporre resistenza. Le cronache russe – la cui affidabilità è però dubbia – riferiscono che quando i cavalieri cercarono di passare sul lato più lontano del lago il sottile ghiaccio collassò, sotto il peso delle armature, e molti di essi affogarono.

Nonostante la dimensione epica conferita alla battaglia dal film del 1938 Alexander Nevskij, del cineasta sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, in realtà lo scontro comportò perdite abbastanza contenute: poche centinaia di morti per parte con appena una ventina di cavalieri teutonici uccisi. La battaglia del lago ghiacciato non fu quindi importante tanto dal punto di vista militare quanto simbolico: respingendo l’ondata crociata i Russi dimostrarono di saper resistere ai tentativi di penetrazione da parte degli eserciti occidentali, ribadendo il confine tra Cristianità cattolica e ortodossa, tra mondo baltico e mondo slavo. Un confine tutto sommato ancora valido: il Lago Peipus ha rappresentato il confine tra l’Estonia e la Russia, dall’indipendenza della repubblica baltica nel 1918 sino all’occupazione sovietica nel 1940, per poi tornare a segnare la frontiera tra le due nazioni con il ritorno all’indipendenza da parte dell’Estonia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991.

Nel 1246 il padre di Aleksandr, Jaroslav Vsevolodovič morì a Karakorum, in Mongolia, dove era stato convocato per ordine del Gran Khan dei Mongoli. Otto anni prima, in seguito alla morte in battaglia di suo fratello Jurij contro gli invasori asiatici, Jaroslav gli era succeduto come Principe di Vladimir, titolo che in seguito gli venne confermato da Batu, Khan dell’Orda d’Oro. Tra il 1248 e il 1250 anche Aleksandr e suo fratello maggiore Andrej furono quindi costretti a recarsi alla corte del Gran Khan per fare atto di vassallaggio. In cambio della promessa di non muovere guerra ai Mongoli e di versare i tributi richiesti Andrej venne nominato Gran Principe di Vladimir mentre Aleksandr fu investito della signoria di Kiev e di Novgorod.
Il fragile equilibrio raggiunto andò in frantumi due anni dopo, nel 1252, quando Andrej ebbe l’idea sciagurata di mettersi a capo di una ribellione provocando la prevedibile rappresaglia dei Tartari. Aleksandr allora di recò a Saraj e facendo ricorso alle sue doti di abile politico riuscì a ottenere dal Khan il diploma (yarlyk) di Principe di Vladimir oltre all’amnistia per Andrej.

Installandosi sul trono di Vladimir, lasciò la carica di Principe di Novgorod al figlio maggiore Vasilij che però venne presto cacciato dai cittadini, sempre gelosi della loro libertà, che ritenevano il nuovo principe un semplice strumento della volontà di suo padre. Aleksandr intervenne per restaurare il potere del figlio senza esitare a usare la forza ma, una volta tornato al potere Vasilij fu di nuovo fonte di grattacapi per suo padre: rifiutò di versare agli esattori del Khan il tributo richiesto cavalcando il risentimento anti-mongolo sempre diffuso tra la popolazione. Aleksandr dovette allora recarsi nuovamente a Saraj dove riuscì ad ammansire Ulaghchi, il figlio di Batu Khan ora al potere, scongiurando una nuova vendetta del sovrano tartaro.
Nella sua azione di governo Aleksandr Nevskij seppe dimostrarsi un politico cauto e lungimirante. Avendo perfettamente compreso che, almeno in quella fase storica, una guerra contro gli invasori tartari avrebbe avuto conseguenze disastrose, si risolse ad accettarne la dominazione ottenendo in cambio la fine di ogni scorreria in territorio russo. L’amicizia con i Mongoli inoltre gli tornò utile per consolidare il proprio potere nei confronti dei sudditi e degli altri principi russi.
Dopo aver rintuzzato un nuovo tentativo svedese di penetrazione in Carelia nel 1256, Aleksandr Nevskij si spense il 14 novembre 1263, a soli quarantatré anni, nella città di Gorodec, durante il viaggio di ritorno da una missione diplomatica a Saraj, dov’era andato per intercedere presso il Khan dopo l’ennesima rivolta dei suoi compatrioti contro i barbari dell’Asia. Prima di morire richiese la tonsura monacale e cambiò il proprio nome in Aleksej. Le sue imprese furono successivamente esaltate in un manoscritto redatto verso la fine del Duecento, la Vita di Aleksandr Nevskij, in cui veniva descritto come principe giusto e sovrano ideale.

Quattordici anni dopo la sua morte, nel 1277, suo figlio minore Daniil Aleksandrovič ascese al trono dell’allora piccolo e insignificante principato di Mosca dando inizio alla dinastia che diede alla Russia personaggi memorabili come Dmitrij Ivanovič Donskoj (1350-1389), vincitore della battaglia di Kulikovo contro i Mongoli nel 1380; Ivan III Vasil’evič (1440-1505), che pose fine una volta per tutte al dominio tartaro sulla Russia, e Ivan IV Vasil’evič (1530-1584), detto il Terribile, il primo sovrano russo a fregiarsi del titolo di Czar.
Alla fine del XIV secolo il ritrovamento delle sue spoglie incorrotte portò alla diffusione della sua fama di santità, confermata dalla Chiesa Ortodossa Russa che lo elevò ufficialmente alla gloria degli altari nel 1547. Nel 1725 lo Zar Pietro il Grande, primo Imperatore di Russia, ne fece traslare con tutti gli onori la salma all’interno del Monastero di Aleksandr Nevskij, situato nella nuova capitale San Pietroburgo. Lo zar istituì anche l’Ordine Imperiale di Sant’Aleksandr Nevskij, abolito insieme a tutte le onorificenze zariste nel 1917 dal governo rivoluzionario bolscevico, venne ripristinato da Stalin nel 1942 nel corso della “Grande guerra patriottica” contro gli invasori nazisti. Dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica venne nuovamente abolito per essere sostituito a partire dal 2010 con l’omonima onorificenza della Federazione Russa, segno evidente dell’affetto del popolo russo per la figura del principe-guerriero di Novgorod, tuttora celebrato come un eroe per la tenacia dimostrata nel difendere i confini della patria dall’invasore straniero.