La visione del mondo musulmano, anche di quelle realtà più vicine all’Europa, spesso si manifesta come quella di un fronte compatto ed unitario, un contesto connesso solamente dal lato religioso che ragiona e agisce in modo unilaterale, all’interno del contesto di tutta l’Umma, la comunità dei credenti. Una concezione che si scioglie sia attraverso il suo carattere geografico, esteso storicamente tra il Marocco e l’Indonesia, tra la Russia e la Somalia, sia per una ragione storica, che si articola dalla metà del VII secolo fino ad oggi. Un contesto quindi variegato, dove le diverse aree geografiche, divisesi presto e resesi indipendenti, costruirono una loro storia e una loro arte, in continuo e costante dialogo con le altre realtà musulmane ma anche con quelle cristiane. Queste caratteristiche, che più facilmente si leggono nel contesto turco o in quello persiano, con un forte senso di identità parallelo a quello religioso, coinvolgono anche il vasto mondo arabo e nordafricano, nell’area siro-palestinese e in quella Mesopotamica, così come nei territori africani, in Egitto e nel vasto Maghreb, esso stesso crogiolo di realtà diverse.

Questo vasto mosaico che da Tripoli si distende fino all’Atlantico, incanalato tra il deserto del Sahara e il Mediterraneo, smonta, con la sua storia, anche un altro “mito” sul mondo islamico. Spesso si vede la sua espansione, che trasformò profondamente il bacino del Mediterraneo e tutto il Vicino Oriente, come una marea inarrestabile, un’onda che in pochi anni rivoluzionò tutti i territori tra la Spagna e l’Asia Centrale. Se ciò può essere abbastanza vero nella prima fase, quella che partendo da Medina attraversò e conquistò le province orientali in Siria, Palestina ed Egitto dell’Impero Bizantino e assorbì totalmente il potente impero sasanide, tra il 632 e il 654, la conquista del solo Maghreb richiese molto più tempo, almeno fino al 705.
Una delle realtà più interessante di questo contesto è in particolare la vicenda della parte centrale di questo ampio paesaggio, che si situa tra le attuali Algeria Orientale, Tunisia e Tripolitania. Un luogo chiave e ponte tra la tradizione romano bizantina dell’Esarcato d’Africa e i principati seminomadi dei Berberi, e che trova una sua chiave di lettura in una città, nata proprio all’origine del Maghreb islamico, Al- Qayrawan, narratrice con la sua maestosa moschea delle vicende del suo fondatore, Uqba ibn Nafi al-Fihri, uno dei simboli dell’espansionismo delle origini, ma anche di un carattere distintivo proprio di quest’area, ponte tra Occidente e Oriente, tra il Mediterraneo e il deserto, legata al potere califfale e centralista ma spesso e volentieri fiera e attiva propugnatrice della sua specificità e autonomia.

Un punto focale per comprendere questa città e il ruolo del suo fondatore è innanzitutto il procedimento di espansione dell’Islam al di là del golfo della Sirte. Un primo ingresso della nuova realtà politica araba avviene nella sua fase embrionale, nel califfato dei Rashidun, dei Ben Guidati. Se il califfo Omar sembra non avere interesse a tale impresa, forse timoroso per la difficoltà della conquista o temendo che nuove conquiste sarebbero state poco gestibili in un contesto musulmano appena costituito e ancora magmatico, il vero iniziatore fu il suo successore Othman. Egli, infatti, indirizzò le prime scorrerie e interventi nell’area, coronati con la battaglia di Sufetula nel 647 contro Gregorio, esarca bizantino d’Africa e ribellatosi al controllo dell’Impero d’Oriente. Una vittoria che, se permise di ottenere alcuni territori dell’Impero nell’area della Tripolitania e della Tunisia meridionale, permise ai bizantini di mantenere Cartagine e i territori settentrionali e non intaccò le variegate realtà berbere romanizzate che controllavano l’entroterra. Un intervento limitato quindi, cui seguirono una serie di incursioni nell’interno, di respiro estremamente limitato e continuamente contrastate proprio dalle realtà berbere seminomadi.
Questa realtà specifica si protrasse quindi nel ventennio successivo, condizione influenzata da istanze differenti. Se da un lato sul piano locale le iniziative intraprese avevano un raggio ristretto e soprattutto vi era l’assenza di un centro di riferimento locale al quale fare capo nelle campagne, dall’altro questo stallo trovava le sue ragioni nelle tensioni interne alla nascente Umma. Il periodo infatti coincise con la nascita della prima grande fitna nella comunità islamica, uno scontro che da dibattitto religioso /politico sulla scelta del successore di Omar e sulle modalità di scelta, tra una via “meritocratica” e una ereditaria, capeggiata da Ali, nipote e genero di Muhammad, divenne presto pienamente politica, con l’assassinio di Othman e le battaglie mesopotamiche del Cammello e di Siffin, che indebolirono e portarono alla morte prima Ali e poi, con la battaglia di Kerbala, i suoi figli e discendenti. Una vicenda che vide alla fine trionfare Muʿāwiya ibn Abī Sufyān, membro della tribù meccana dei Quraysh e stretto collaboratore di Mohammad dopo la conquista della Mecca, oltre che imparentato con il califfo Othman.

Divenuto wali (governatore) in Siria e distintosi nelle campagne con Bisanzio nell’Anatolia orientale e nel Mediterraneo, venne riconosciuto califfo prima in Siria e poi a Gerusalemme, riuscendo così ad avere la meglio su Ali e sui suoi successori. Una figura importante, soprattutto per il fatto di essere il fondatore della dinastia Omayyade, la prima dinastia islamica tra il 661 e il 750, capace di dare un nuovo corso all’Islam, trasferendo la capitale a Damasco e costruendovi una corte culturalmente e politicamente influenzata dal modello romano e bizantino.
Proprio questo cambio al vertice portò ad una nuova spinta espansiva. Proprio nel 665 Mu’awiya ibn Huday, grande generale islamico e governatore dell’Egitto per volere proprio del primo omayyade, fu inviato con 20000 uomini in Tripolitania in aiuto di Uqba ibn Nafi. Il generale musulmano, compagno di Muhammad e pronipote di Amr ibn al As, conquistatore dell’Egitto, si era già distinto nelle campagne mediorientali. Questa prima spedizione tuttavia ebbe scarse conseguenze, con la conquista di Jalula e scorrerie a Susa, Biserta e Gerba.
Un successo arrivato invece al momento della spedizione successiva nel 670, quando Uqba riuscì a fondare, ad un giorno di cammino dal mare e altrettanto dalle montagne tunisine, una città di frontiera, una città campo militare, Al Qayrawan. Una scelta che, spesso letta con l’immagine di una città carovaniera cui gli arabi erano abituati, nasce invece da una volontà militare e pratica, che permettesse di avere quel punto di riferimento nel quale rifugiarsi nella sconfitta e sicura da possibili incursioni ma anche punto di partenza per le scorrerie sia verso i territori bizantini e il mare, sia verso la montagna strettamente controllata dai berberi. Una vittoria importante, di cui però il generale godette poco i frutti, richiamato in Oriente dal primo degli Omayyadi, forse perché utile nelle campagne anatoliche contro Bisanzio, forse per timore di un personaggio così importante in una provincia nuova e lontana da un controllo diretto. Questa condizione perdurò fino al 680, quando il figlio Yazid I lo nominò nuovo governatore in Africa, ponendolo a capo di una nuova spedizione. Quest’ultima ebbe grande risalto, poiché partendo dalla conquista di alcuni territori algerini orientali lo portò alla conquista dell’intero odierno Maghreb.

Seppur importante, questa campagna ebbe esiti effimeri e tragici. Se da un lato i nuovi territori, conquistati con pochi uomini e non organizzati, non riuscirono ad essere immediatamente assimilati, il ritorno ad oriente di Uqba vide la nascita e lo sviluppo di un’importante e stabile compagine berbera, guidata da un capo carismatico, Kusayla. Tale personaggio, già in contatto con le realtà musulmane ed egli stesso fattosi musulmano, attaccò a più riprese Uqba, vincendolo e uccidendolo vicino all’attuale Biskra, oggi in Algeria. La vittoria portò alla perdita di tutti i territori di recente acquisizione, mentre Kusayla si stabilì a Qayrawan, rispettando la popolazione musulmana residente e regnandovi per alcuni anni. Un dominio di breve durata, conclusosi con la sconfitta del generale berbero ad opera di Zuhahir ibn Qays al Balawi nel 686. Una vittoria significativa soprattutto perché cominciò ad avvicinare moltissime realtà berbere alla nuova dominazione musulmana.
Il dualismo nordafricano tra nuovi signori arabi e berberi non si concluse però con Kusayla. La compagine del deserto ebbe quindi una nuova figura cardine in una principessa avanti con l’età, ringiovanita dalla rinascita nazionalista dell’Ottocento, Dayiha, nota più con il soprannome di al- Kahina, parola araba che identifica una figura femminile con connessioni con il mondo del divino e della divinazione, che viene tradotta o con il ruolo di Sacerdotessa o, in negativo, con quello di Maga. Un nome che forse ha alla sua base un riferimento ad un ruolo sacrale del mondo femminile nel mondo berbero, cui gli arabi attribuivano in parte la responsabilità delle loro sconfitte. Dayiha in particolare articolò il suo agire, partendo dalla sua area di origine nell’Aures orientale, nell’oriente algerino, con episodi di guerriglia e di agguati, conclusisi solo raramente in battaglie campali in campo aperto. Una politica vincente, aiutata anche dall’alleanza con ciò che restava dell’Esarcato d’Africa. Interessante in tal senso la vittoria ottenuta contro il wali egiziano, Hassan ibn al- Numan, a seguito della quale i berberi tornarono a controllare i territori fino alla Tripolitania.

Un lungo successo che si concluse solo sul finire del secolo, con la duplice conquista di Cartagine, prima nel 697, poi definitivamente l’anno successivo e con il lento ripiegare proprio di al- Kahina, frutto sia di una politica problematica con le realtà stanziali che era venuta governando sia da sconfitte e defezioni che flagellarono la sua compagine, fino alla definitiva sconfitta presso Biskra. Una nuova realtà che non si concluse con un bilancio negativo. Se da un lato Cartagine perse sempre più la sua importanza, sia per la sua posizione esposta sul mare ma soprattutto per la concorrenza prima politico amministrativa di Qayrawan e poi commerciale della vicina e giovane Tunisi, le popolazioni berbere riuscirono a sviluppare una florida assimilazione con la compagine musulmana, tanto forte e significativa da guidare di fatto la prosecuzione della campagna in Occidente, sia in Africa che in Spagna, come dimostra il condottiero Tariq, conquistatore della Spagna, forse berbero ma sicuramente alla guida di un esercito di berberi.
Vero termometro di questa lunga e complessa epopea e dell’evoluzione successiva dell’Ifriqiya, almeno fino all’avvento dei Fatimidi, fu proprio la nuova città avamposto, la città che nel nome ricorda sia l’idea dell’accampamento ma anche, leggendola quasi in italiano, della città carovaniera, del luogo del commercio, al- Qayrawan.

Questa città è da questo punto esemplare in quanto divenne, fin dall’inizio, un vero perno della storia tunisina, un luogo famoso e rinomato sia come centro urbano, primo in Occidente e nel novero delle nuove fondazioni islamiche con Bassora, Kufa e Fustat, la base su cui nacque poi Il Cairo, sia come città eminente, presso cui risiedettero diversi compagni del Profeta, tanto da farla diventare prima di fatto e poi di diritto una delle città sante dell’Islam, con Mecca, Medina e Gerusalemme. Uno status che riuscì a conservare molto a lungo, superando sia le occupazioni di Kusayla e al Kahina e le successive riconquiste, ma anche le più distruttive rivolte musulmane kharighite, una terza via dell’islam nata dagli oppositori di un primo compromesso di Ali con gli omayyadi e che aveva avuto molto successo presso i berberi, in special modo per la sua tendenza all’egualitarismo religioso tra i membri storici del primo Islam e i nuovi arrivati alla religione di Allah, responsabili di ripetuti saccheggi e massacri in città tre il 742 e il 757. Una posizione che riuscì a mantenere anche grazie alla sua ricca classe mercantile, anche quando le dinastie ifriqiyte successive vollero scegliere altre città come loro capitali, da Mahdia a Tunisi.
Tra i luoghi che raccontano di più questi cambiamenti vi è in particolare quello che più simboleggia la città e la sua storia, oltre che soprattutto le influenze da oriente e da occidente che l’hanno e la plasmano ancora oggi. Questo luogo e la Grande moschea del Venerdì, nota in particolare con il nome proprio del fondatore, suo e della città, la moschea di Sidi Uqba. Il primo nucleo si deve infatti proprio al generale arabo, che aveva costruito la città con un modello abbastanza tradizionale, un nucleo circolare di abitazioni circondato da una serie di appezzamenti di terra distribuiti tra gli abitanti, al centro del quale troneggiavano i due edifici più importanti, la moschea del Venerdì, che doveva essere un semplice edificio quadrangolare con una piccola corte costruito presumibilmente in mattoni cotti al sole, e a fianco il palazzo del governatore, la sede dell’autorità che governava la nascente provincia. Questo primo nucleo venne però fin da subito rivoluzionato nella seconda metà del VII secolo. Essa, infatti, venne rinnovata inizialmente dal vincitore della Kahina e fondatore di Tunisi, Hasan ibn Nu’man nel 703.
A questo primo intervento fu aggiunto quindi un ampliamento verso settentrione, laddove ora si trova il grande cortile, in particolare sotto un nuovo governatore per conto della corte omayyade di Damasco Bishr ibn Safwan, tra il 722 e il 728. Una fase che trova la sua conclusione nel 774, con il completo riassestamento compiuto da Yazid ibn Hatin. Un complesso che andò quindi sempre più ingrandendosi e ingentilendosi, anche se oggi di questo rimane quasi nulla, se non tracce nel basamento quadrangolare del grande minareto, forse segno che in essa quell’edificio fosse già previsto in quel luogo e a base quadrata, riprendendo qui in particolare un aspetto di influenza proprio ommayyade. Nel primo periodo islamico, infatti, il minareto veniva sempre previsto come una serie di parallelepipedi sovrapposti, dai quali il muezzin chiamava alla preghiera. Una scelta che nasceva da un lato per esigenze militari e difensive, trasformando l’edificio in baluardo nelle situazioni di pericolo, dall’altro con l’idea di un campanile cristiano, un luogo ben visibile identificabile nel tortuoso intrico cittadino, verso il quale i fedeli erano attirati e guidati. Una funzione che avvicinava direttamente il minareto all’immagine del faro portatore di luce, un modello sicuramente ben noto alla compagine musulmana, che aveva potuto vedere anche quello omonimo di Alessandria, presente e attivo fino alla metà del XIV secolo. In fondo la parola araba manar identifica appunto il faro.
Coloro che costruirono sia la Qayrawan di oggi, ma soprattutto la moschea che ancora si può vedere furono invece i membri di una nuova dinastia, sorta nell’Ifriqiya alla fine dell’VIII secolo, nota come Aghlabidi. Il loro ingresso nella storia di Qayrawan segna in particolare un passaggio significativo nella storia dell’epoca d’oro del mondo islamico. Essi, infatti, discendevano da Aghlab ibn Salim al Tamimi, un personaggio di origine iraniana, proveniente dal Khorasan persiano. La carriera di questo personaggio che appare slegato dall’Africa del nord si deve in particolare a colui che se ne fece sponsor, ossia il nuovo califfo, Abū l-ʿAbbās al-Saffāḥ. Anche se questo personaggio può sembrare ignoto, il suo stesso nome tradisce il fatto che egli sia il fondatore e iniziatore della seconda dinastia califfale, di fortissima tradizione iranica, gli Abbasidi. Il primo califfo abbaside, che aveva sconfitto gli omayyadi nel 750, appoggiò fin da subito Aghlab e i suoi discendenti, creando con la loro dinastia un legame importante, sottolineato dalla nomina di Ibrahim ibn Aghlab a governatore nell’800, sotto l’egida di Harun al Rashid.

Questo legame con i sovrani di Baghdad ebbe per l’intera dinastia conseguenze significative. Un primo fronte fu di tipo politico. La dinastia, infatti, durata fino al 909, venne ad acquisire una posizione apparente ambigua e peculiare. Su un fronte essa manifestava un fortissimo legame con Baghdad, espresso anche come forza sunnita, utile in entrambe le direzioni. Se riconoscendo il califfo la dinastia si consolidava e si vedeva difesa e protetta dalle altre potenze presenti nel Mediterraneo occidentale, gli abbasidi vedevano riconosciuto il loro ruolo anche in territori distanti e difficilmente controllabili da governatori, utile in questo frangente proprio per la politica diplomatica dei califfi. Gli Aghlabi infatti, come forza stabilizzatrice, riuscivano a costituire un polo d’attrazione e di egemonia sia verso il variegato mondo maghrebino, smembratosi in quegli anni in diversi potentati e sultanati, sia soprattutto in contrapposizione con la nascente signoria omayyade esiliata in Spagna, prima come emirato e poi come contro califfato, che stava penetrando sempre più in Marocco. Una funzione che diventerà ancora più importante con il fiorire del nuovo governo fatimide, nato proprio in Tunisia e autodefinitosi sciita proprio in contrapposizione ai due califfi. Questa osservanza politica aveva però anche una contropartita. Proprio la posizione decentrata rispetto al centro del califfato e il peso politico assunto quindi dagli aghlabidi garantì allo stesso modo all’Ifriqiya un grandissimo margine di autogoverno e di libertà d’azione, ben visibile in diversi ambiti, non ultimi una politica espansionistica autonoma, che porterà i signori di Qayrawan alla fine del IX secolo a conquistare l’intera Sicilia, a formare basi in Sardegna e nel sud Italia, fino alle scorrerie romane del periodo.

Il legame con la corte di Baghdad non ha però solo una ricaduta politica. In linea con essa i principi aghlabidi svilupparono un sistema politico e amministrativo complesso e variegato, coinvolgendo esponenti di varia estrazione e origine, come anche culto. Molti visir aghlabidi appartenevano infatti a realtà diverse del mondo islamico, dagli arabi ai berberi, fino agli immigrati dall’Oriente mesopotamico e iranico. Allo stesso modo ebbero analoghe funzioni personaggi cristiani bizantini, vandali o originari del nord Africa, come pure membri delle numerose comunità ebraiche, qui attive fino alla metà del secolo scorso. Per la propria difesa i principi ereditarono anche l’uso di truppe mercenarie, non turche come in Oriente ma provenienti dall’area subsahariana. In questo contesto composito e tollerante trovarono casa anche le arti e la cultura. Seguendo il modello iracheno, gli aghlabidi avviarono diversi cantieri sacri e profani nelle principali città del regno, da Susa a Sfax, fino alla giovane città di Tunisi. Centro ne era però Qayrawan.

Qui in particolare nacque la Bayt al Hikma. Questo nome, tradotto, identifica la Casa della Sapienza, un luogo costruito e pensato come realtà di studio e confronto tra studiosi e saggi di varie materie, un humus tanto fertile da creare una delle più importanti scuole mediche del Mediterraneo e la sede principale della scuola giuridica malikita, oggi la più diffusa in tutto il nord Africa. Questo luogo tuttavia suggerisce ai più però anche un curioso parallelo volontario, ossia il fatto che essa porti negli stessi decenni il nome della più importante realtà culturale della Umma medioevale, quella Casa costruita a Baghdad dal califfo Abū Jaʿfar ʿAbd Allāh al-Maʾmūn, figlio di Harun al- Rashid, culla della matematica e dell’algebra odierna, sede della traduzione dei più importanti testi greci da Euclide a Tolomeo. Un luogo creduto oggi un preludio dell’Università europea occidentale. Un’analogia che si accompagna anche al contemporaneo sviluppo urbano della stessa Qayrawan. Alla città di Uqba gli aghlabidi accostarono una nuova città, a pochi chilometri, chiamata Abbasiya, nuova residenza reale che richiamava per funzione e pianta circolare proprio le nuove fondazioni abbasidi, come la stessa Baghdad. Più avanti a questa città si unì la fondazione di un nuovo centro, più distante e indipendente da Qayrawan, la città di Raqqada, nata qui come città palazzo degli ultimi aghlabidi, simile in questo a Samarra in Iraq o alla città tulunide di Al- Qatai, oggi un quartiere del Cairo. Un processo che tuttavia non fu esente da progetti autonomi e specifici dell’Ifriqiya.

Singolari sono in particolare da un lato la nascita dei ribat, piccole fortezze costiere costruite lungo il litorale, interessanti in quanto pensate anche come sede di “monasteri” musulmani, nelle quali i religiosi svolgevano sia la vita contemplativa che quella militare, dall’altro la creazione dei bacini aghlabidi, un intricato sistema costruito a Qayrawan di bacini idrici usati in un primo tempo come acquedotto e poi per irrigazione e rifornimento delle carovane che, attraverso un sistema di chiuse, cisterne e vasche di varie dimensioni, forma e profondità, garantivano lo stoccaggio delle acque piovane o derivate da un vicino wadi(fiume stagionale) fino a 60000 metri cubi, oltre che la loro accurata decantazione attraverso sedimentazioni successive.
Emblema di queste trasformazioni e di quest’età aurea della Tunisia medievale è però proprio la grande moschea di Uqba. Il legame tra i dinasti e questo luogo e con la città non fu fin da subito ottimale, tanto da preferirgli la nuova Abbasiya e punendo gli abitanti che avevano supportato una rivolta locale, distruggendo le primitive mura urbane. Un nuovo approccio venne a svilupparsi in particolare con Zihayat Allah I, terzo sovrano aghlabide. Un esponente importante, capace in particolare di avviare la conquista della Sicilia, con la presa di Palermo nell’831. Costui decise in particolare di far demolire del tutto la vecchia moschea omayyade e di ricostruirla dalle fondamenta nell’836. Il nuovo edificio rispecchia in parte la pianta che ancora caratterizza la costruzione odierna.

Essa si articola come un grande parallelepipedo trapezoidale disposto in direzione nord ovest- sud est, con due lati lunghi 120 metri e lati brevi lievemente disomogenei, tra i quali il muro qibli, che ospita il mihrab, è di 70 metri, quello opposto a nord di 65. Questo grande spazio, segnato da un’alta muraglia perimetrale, sorretta e rafforzata da una serie di contrafforti, poligonali sulla qibla, a base quadrata e sviluppati a scarpa sugli altri lati, si suddivide in due aree distinte, la corte scoperta(sahn) e la sala di preghiera, conclusa sul fondo dal mihrab. Nel progetto iniziale in particolare la corte doveva essere priva di tutti i portici e caratterizzata sul fronte nord dall’alto minareto. Il principe in particolare fece ricostruire la torre sulle fondamenta omayyadi, costruendone un parallelepipedo sovrastata da un solo livello più piccolo. La costruzione del minareto mostra, proprio per questo riferimento diretto alla tradizione omayyade, un legame stretto con quel mondo romano e bizantino consapevolmente fatto proprio a Damasco e che trovava in Ifriqiya un terreno fertile, legato alla presenza di antiche città romane e grandi monumenti antichi in rovina. In particolare, sul minareto stesso trovano posto diversi resti antichi e diverse iscrizioni, tra i quali alcuni tratti di architrave antica, usati con consapevolezza antica, per definire i battenti e l’architrave della porta di accesso. Di fronte ad esso si staglia la grande sala di preghiera. Essa sembra seguire anch’essa i prototipi delle basiliche romane e bizantine del V/VI secolo, con una serie di navate coperte da capriate sorrette da colonne, un modello già sviluppato nella Grande moschea di Damasco. La loro collocazione a distanze definite e la loro comune altezza gli conferiscono però un’unità spaziale intimamente islamica.
Negli edifici islamici, tuttavia, l’andamento delle navate non va dall’ingresso all’abside, ma per linee parallele rispetto al muro della qibla. Qui la moschea in particolare si articola in 7 navate suddivise in 17 campate ciascuna. Queste sono in particolare sorrette da colonne antiche, tutte diverse tra loro per colore e materiale ma di dimensioni compatibili, trovate probabilmente nei grandi siti antichi abbandonati nell’area, su cui sono collocati altrettanti capitelli, diversi per stile e soprattutto per epoca, riunendo tra sé capitelli ionici e corinzi di epoca imperiale, ma anche resti di edifici e chiese bizantine, ricchi di trafori a trapano e di croci cristiane. Su di essi si innestano gli archi a ferro di cavallo, i quali tuttavia, a differenza che a Damasco, sono preceduti da un inserto in pietra, un parallelepipedo che ricorda i pulvini(cuscini) di età romana. Un elemento innovativo, ripreso dalla moschea omayyade di Amr al-As del Cairo, utile in chiave statica, in quanto collegato agli altri da travi in legno o catene metalliche, analogamente ad alcune chiese veneziane. Diversamente dalle chiese cristiane, inoltre, gli archi si dispongono perpendicolarmente alla qibla, intervallati solo da tre serie parallele, tra la prima e la seconda navata, tra l’ultima e la penultima e circa alla metà dell’edificio. Alla tradizione la moschea di Uqba porta anche elementi nuovi.

In particolare, in essa si viene a elaborare una specifica forma a T, dove si articolano due navate principali, più grandi delle altre e che costruiscono due assi, il primo direttamente parallelo alla qibla, il secondo che parte dall’ingresso e che vi si inserisce trasversalmente in corrispondenza del mihrab. Un elemento significativo, sia perché costituisce degli assi preferenziali nella moschea, sia perché crea un precedente fondamentale per gli edifici successivi. Se questo, infatti, è un’elaborazione di un prototipo specifico, quello della seconda versione della moschea di Al- Aqsa sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, diventa anche il modello in oriente per la moschea di Abu Dulaf a Samarra e in occidente per l’ampliamento della moschea a Cordova, in Spagna, sotto il califfo Al-Hakam II.
Questo primo grande cantiere, data la sua importanza, venne presto coinvolto in ammodernamenti. Il primo si situa in particolare sotto Abū Ibrāhīm Aḥmad tra l’862 e l’863. Ad essere coinvolta in particolare è l’area più importante e sacra della moschea, ossia il mihrab. L’intervento di Abu Ibrahim è importante in tale contesto soprattutto per l’arrivo, fortemente legato ai rapporti diretti con il mondo abbaside, di una serie di elementi di tradizione mediorientale e persiana, per la cui realizzazione le fonti ricordano anche l’invio di materiali pregiati e lavorati direttamente dalla corte di Baghdad.

Il primo intervento compiuto coinvolge proprio il mihrab vero e proprio, costruito demolendo il precedente. La nicchia rituale in particolare è costituita con un nuovo tipo di arco, detto sforzato o cuspidato, con un vertice quasi “gotico”, sorretto da colonne in marmo e capitelli bizantini. La sua decorazione interna si articola in due registri. Nella parte più bassa, per quattro livelli, essa presenta una copertura marmorea. Se nelle parti laterali e lungo la parete essa presenta semplici lastre di pietra, all’interno assume forme più articolate, con rilievi e griglie traforate che riportano sia temi geometrici sia temi fitomorfi, come gigli e grappoli d’uva. Questi temi, ben presenti anche nel repertorio cristiano, denotano una tradizione orientale e bizantina. Un tema ben presente nella moschea, come nel vasto mosaico fitomorfo della calotta, più volte restaurato nel tempo. Il fronte dell’arco e, con lui, tutta la parte alta della qibla, si presentano invece con un andamento differente. Qui, inseriti nell’intonaco, si trovano una serie di mattonelle monocrome e policrome di forma romboidale, realizzate con la tecnica abbaside detta a lustro metallico, elaborata sui cantieri di Samarra da modelli forse orientali, che prevedeva tre cotture del manufatto, una dopo la realizzazione, una dopo la smaltatura e una terza con ossidi d’argento o d’oro. Analoga origine ha quindi una prima cupola, realizzata all’incrocio dei bracci sopra il mihrab. Essa, che riprende la lunga tradizione di cupole del mondo iranico, prevede, sopra archi con oculi, il passaggio ad una base ottagonale, ottenuta attraverso quattro pennacchi che sostituiscono quelli ad archi persiani.

Al di sopra l’ottagono è smussato agli angoli, ottenendo un tamburo circolare suddiviso in una serie di archetti, tra cui si aprono la serie delle finestre. La struttura si conclude poi con la cupola vera e propria, realizzata in stile orientale a spicchi concentrici. A valorizzare l’elemento orientale è anche la scelta decorativa, realizzata nei pennacchi a conchiglie e con archi polilobati. A concludere il quadro si colloca poi il minbar, il pulpito del predicatore, realizzato in prezioso legno di tek cesellato e montato in decine di pezzi.
La dinastia aghlabide, tuttavia, sembra seguire sempre con interesse la grande moschea. A concludere la fase crescente di questo edificio si colloca Abū Ishāq Ibrāhīm II, terzultimo emiro di Ifriqiya. Egli sembra riassumere le contraddizioni dell’ultimo periodo aghlabide: da un lato conquistatore di Siracusa e Taormina e ideatore di un tentavo di conquista della Calabria, dove morirà, dall’altro coinvolto in numerose rivolte berbere e in un tentativo di conquista tulunide, fino alla parziale rottura con Baghdad. Il suo intervento sembra portare verso l’esterno le innovazioni svolte dal suo predecessore nel mihrab. Un primo intervento in tal senso e il restauro della navata centrale che viene ulteriormente alzata rispetto al resto dei soffitti della moschea, rafforzando le strutture con archi trasversali, sorretti da colonne antiche che portano la navata ad avere colonne binate su entrambi i lati.

L’emiro decise inoltre di ampliare la moschea verso nord. Fece costruire due navate in più in quella direzione, andando a costituire un grande nartece o atrio che crea un diaframma tra moschea e corte. Questi elementi, che portano con sé gli archi sforzati del mihrab, si conclude con la nuova facciata, realizzata con una serie di archi sforzati sorretti da colonne accoppiate antiche e si caratterizza ai centri, sopra l’ingresso principale, da una seconda cupola. Questa, a base quadrata, si articola in un tamburo poligonale e una calotta a spicchi più ricchi e frequenti di quelli del mihrab.
La storia tortuosa della moschea non si conclude però con la fine del dominio aghlabide, nella prima metà del X secolo. Seppur i fatimidi non risiederanno mai in città costruendo una prima capitale a Mahdia, essi avranno comunque un rapporto stabile con essa allo stabilizzarsi del loro regno, fondando nelle vicinanze la città satellite di Sabra al Mansuriya, fornita di un acquedotto, nel 949. Seppur lontane le dinastie successive diedero ad essa un contributo. Risalgono all’età hafside, tra il 1206 e il 1574, le due porte principali all’edificio, collocate all’altezza del nartece sui lati lunghi, costruiti nel 1294 e coperte all’inizio del secolo successivo da altrettante cupole, coetanee di quella in alto al minareto.

All’epoca moderna si devono in particolare l’evoluzione della corte. Tra il XII e il XVII secolo furono costruiti i tre portici, che ripropongono i caratteri della facciata aghlabide, sostituendo però la pietra, utilizzata nel resto dell’edificio, con il mattone. Alla fine del XVII, sotto Muhammad Bey, si deve invece l’impluvium in marmo al centro della corte. Esso, che propone una serie di cornici polilobate incavate a livelli diversi, conclusi da fori di scarico. Se questa forza può suggerire una volontà estetica tipicamente islamica, legata al rapporto tra natura e uomo e all’immagine visiva e uditiva dell’acqua delle fontane musulmane, nacque anche con uno scopo più prosaico: procedendo per vasche concentriche con molti angoli l’acqua piovana ha momenti di stasi che favoriscono la sedimentazione delle impurità, portando la purificazione dell’acqua che scende poi in una cisterna sotto la corte.

Qayrawan, la grande capitale dell’Ifriqiya prima di Tunisi, costituisce con la sua grande moschea un simbolo della storia di questa grande regione, affacciata sul Mediterraneo centrale. Una storia che ricorda da un lato il lungo periodo della conquista, di cui il fondatore Uqba ibn Nafi, nato 1400 anni fa, è quasi un simbolo, di lotta ma anche di fusione e assimilazione di tutte le sue anime. Un simbolo anche dei secoli d’oro del medioevo islamico, con le prime dinastie, come gli aghlabidi, connessi con il resto del mondo musulmano ma anche autonomi protagonisti, nell’arte come nella storia, del Mediterraneo del loro tempo.