Il 28 novembre 1443, nella città albanese di Kruja, di fronte ai signori albanesi e ad un esercito di 12 mila uomini, Giorgio Castriota Scanderbeg, dopo avere abiurato la fede islamica e riabbracciato il Cristianesimo, proclamò l’inizio della rivolta albanese contro il dominio ottomano. Per una strana coincidenza esattamente 469 anni dopo, il 28 novembre del 1912 – questa volta a Valona – gli albanesi innalzarono nuovamente il vessillo dell’indipendenza nazionale.

Antonio Maria Crespi.
A proposito dell’infanzia e della giovinezza del futuro eroe nazionale albanese possediamo poche notizie certe, circostanza che ha portato ad una sovrapposizione tra il mito e la realtà storica. I biografi di Scanderbeg tendono a collocarne la nascita in una data imprecisata tra il 1404 e il 1412. La fonte più accreditata, vale a dire lo storico, umanista e religioso albanese Marino Barlezio, che circa quarant’anni dopo la morte del Castriota ne scrisse la vita, afferma che Scanderbeg aveva sessantatré anni quando morì, nel 1468. Questo dato porterebbe a pensare che l’eroe sia nato nel 1405, come sostenuto anche da monsignor Fan Stilian Noli, Primo Ministro d’Albania tra il giugno e il dicembre del 1924 e autore, nel 1921, di una celebre biografia del Castriota.
Scanderbeg dunque venne al mondo al principio del XV secolo, quando ormai da alcuni decenni i Turchi Ottomani avevano dato inizio alla loro conquista della Penisola balcanica. L’assalto all’Europa aveva avuto inizio nel 1365 con la conquista da parte del Sultano Murad I della città di Adrianopoli (l’odierna Edirne) che divenne la nuova capitale del nascente stato ottomano. Sei anni dopo, nel settembre del 1371, i turchi consolidarono la loro presenza nei Balcani sbaragliando i serbi alla battaglia della Marizza, a cui fece seguito l’occupazione della Macedonia e della Grecia settentrionale.

Pochi anni dopo, nel tentativo di arrestare l’espansionismo turco, si costituì una coalizione di forze serve, bosniache e albanesi che al comando del principe serbo Stefano Lazzaro Hrebeljanović, il 15 giugno, giorno di San Vito dell’anno del Signore 1389, affrontò l’esercito ottomano comandato dal Sultano Murad in persona in quella che venne ricordata come la battaglia della Piana dei Merli o di Cossovo Polje. Lo scontro fu sanguinoso e costò la vita a entrambi i comandanti ma alla fine i turchi prevalsero consolidando ulteriormente la propria presenza nei Balcani.
Tra i principi albanesi che presero parte alla battaglia vi era anche il padre di Scanderbeg, Gjon (Giovanni) Kastrioti, signore dei villaggi di Sinë e Gardi-Bassa, situati sulle pendici ad ovest del fiume Drin, nell’odierna prefettura di Dibër, nel nord-est dell’Albania. Approfittando delle divisioni tra le comunità locali e i signori feudali albanesi, i turchi avevano avviato la conquista dell’Albania fin dagli Anni Ottanta del XIV secolo. Nel 1385 la pianura della Savra aveva assistito al trionfo delle forze ottomane, che sconfissero e uccisero il principe albanese Balsha II, il cui successore, il nipote Gjergj II Balsha, fu costretto a riconoscersi vassallo del Sultano.

Ricorrendo con grande spregiudicatezza tanto alla diplomazia quanto alla forza delle armi, Giovanni Castriota seppe ampliare i possedimenti paterni spingendosi fino alle rive dell’Adriatico e conquistando, nel 1395, Kruja. Pur sostenendo militarmente Bayezid I nella sua guerra contro Tamerlano, in seguito alla sconfitta ed alla cattura del Sultano in seguito alla battaglia di Ankara (1402) Giovanni non esitò a ribellarsi stringendo nel 1406 un’alleanza con la Repubblica di Venezia, della quale divenne cittadino onorario.
Tra il 1407 e il 1430 Giovanni Castriota combatté senza sosta contro i turchi restandone sconfitto almeno quattro volte, nel 1410, 1416, 1428 e 1430 e dovendo quindi impegnarsi di volta in volta a pagare un tributo al Sultano, a cedere il controllo di alcune fortezze alle forze turche oppure a consegnare i propri figli agli ottomani in qualità di ostaggi. Nel 1430, in seguito alla sconfitta nella battaglia di Tessalonica, Giovanni e tre dei suoi figli – Staniša, Costantino e Giorgio – furono costretti a d abiurare la fede cristiana e ad abbracciare l’Islam anche se, riferisce Fan Noli, si trattò di una conversione soltanto di facciata.

Tra i figli ceduti come ostaggi da Giovanni al Sultano si distinse in particolare il più giovane dei tre, Giorgio. Inquadrato nelle armate ottomane questi ne scalò rapidamente i ranghi segnalandosi per le straordinarie qualità militari dimostrate nel corso delle campagne asiatiche che gli valsero l’ammirazione e la fiducia del Sultano Murad II, il quale lo premiò investendolo del governo del sangiaccato di Dibra e affidandogli il comando di importanti forze nelle guerre contro i Serbi, gli Ungheresi e i Veneziani.
A riprova delle sue capacità militari divenne noto con il nome di “Iskender bey”, che significa letteralmente “Alessandro il signore”. Mentre bey è un appellativo che ricorda vagamente quello di sir utilizzato nel mondo anglosassone, il nome di Iskender, Alessandro appunto, era un diretto riferimento all’antico sovrano e condottiero macedone, simbolo per antonomasia del valore militare. E proprio dal nome attribuitogli dai turchi derivò l’appellativo di Scanderbeg – o Skënderbeu, in lingua albanese – con cui Giorgio Castriota era destinato a passare alla Storia.
La fama e gli onori conquistati presso la corte ottomana tuttavia non avevano a Giorgio le sue origini così come nemmeno i suoi compatrioti avevano smesso di sperare che un giorno il figlio di Giovanni Castriota sarebbe ritornato fra la sua gente per abbracciare la causa della libertà albanese. A riprova di ciò, quando tra il 1432 e il 1436 infuriò in Albania una violenta sollevazione contro la dominazione turca guidata dal principe Giorgio Arianiti-Comneno – futuro suocero di Scanderbeg – varie ambascerie si recarono presso il Castriota per indurlo a schierarsi dalla parte dei rivoltosi.

Giorgio tuttavia, deludendo le speranze dei suoi conterranei, declinò – sia pure a malincuore – ogni invito alla sedizione, costringendo gli ambasciatori a tornare a casa a mani vuote. Scanderbeg infatti riteneva che, almeno in quelle circostanze, una rivolta contro i turchi avrebbe avuto un esito disastroso: le guarnigioni ottomane in Albania erano numerose e bene armate e le fortezze controllate dai turchi praticamente inespugnabili senza artiglieria. Date le premesse la ribellione si sarebbe risolta in un bagno di sangue e l’ira del Sultano non avrebbe fatto altro che appesantire il giogo a cui era sottoposto il popolo albanese. La rivolta però covava da tempo nel cuore di Scanderbeg, il quale attendeva soltanto il momento propizio per uscire allo scoperto e passare all’azione. Proprio per questo mentre si trovava ancora al servizio dei turchi aveva intrecciato una fitta corrispondenza diplomatica con realtà cristiane come le repubbliche marinare di Ragusa e Venezia, il Regno aragonese di Napoli e l’Ungheria.
In effetti, accanto alla sincera volontà di liberare il suo popolo, Giorgio aveva anche dei motivi personali di risentimento nei confronti del Sultano: quando nel 1442 Giovanni Castriota morì, Murad assegnò il principato ad un rinnegato albanese Hassan Bey Verdsesa, ignorando i diritti alla successione di Giorgio, il quale, dopo la morte dei primi due fratelli maggiori Staniša e Costantino e l’ingresso in monastero del terzo, Reposh, restava l’unico erede di suo padre.

Poi finalmente nel 1443 giunse finalmente l’occasione tanto attesa da Giorgio per scatenare la sua ribellione. Nel tentativo di riprendersi il suo stato, strappatogli dai turchi, il Despota di Serbia Giorgio Brankovic si rivolse al pontefice Eugenio IV, il quale a sua volta emanò un appello alla crociata invitando tutti i principi cristiani a prendere le armi per scacciare i turchi dall’Europa. Esortato dal legato papale, cardinale Giulio Cesarini, nell’estate del 1443 il sovrano di Polonia e Ungheria Ladislao III Jagellone inviò un esercito di 10 mila uomini oltre il Danubio al comando del Voivoda di Transilvania Janos Hunyadi, meglio noto come il “Cavaliere Bianco” per via del colore della tunica che era solito indossare sopra l’armatura. Più o meno nello stesso periodo anche gli albanesi si sollevarono di nuovo contro il dominio turco.
Il 3 novembre Hunyadi varcò la Morava nei pressi di Niš e attaccò l’armata turca – forte di 20 mila effettivi – comandata dal Beylerbey di Rumelia Qasim Pascià. Questi, dopo un iniziale cedimento del suo esercito, una volta resosi conto dell’inferiorità numerica del nemico ordinò il contrattacco. Fu allora che Scanderbeg, che si trovava fra i ranghi dell’esercito turco al comando di un contingente albanese, disobbedì all’ordine e proseguì nella ritirata che coinvolse l’intera armata ottomana, che per poco non andò incontro ad una totale disfatta.
A questo punto, alla testa dei suoi uomini, sette giorni dopo Scanderbeg raggiunse Dibra. Da lì, scortato da un drappello di 300 fedelissimi e da suo nipote Hamzah Castriota – figlio di suo fratello Staniša – si diresse verso Kruja, nella quale riuscì a penetrare grazie ad un falso firmano sultaniale da lui esibito alle sentinelle di guardia. Una volta dentro la città gli uomini di Scanderbeg, appoggiati dagli abitanti di Kruja, massacrarono la guarnigione turca fino all’ultimo uomo. La bandiera turca venne ammainata e al suo posto fu issato il vessillo rosso dei Castriota con al centro l’aquila bicipite nera.

La notizia della conquista di Kruja si diffuse rapidamente in tutta l’Albania facendo guadagnare a Scanderbeg numerose ed entusiastiche adesioni alla sua causa. A questo punto, dopo aver abiurato l’Islam e riabbracciato la fede cristiana, Giorgio venne ufficialmente incoronato Principe d’Albania e Re d’Epiro. Quasi in risposta a quanti lo salutavano come liberatore, n corso del suo discorso ai capi feudali e al popolo, il Castriota pronunciò la celebre frase «Non fui io a portarvi la libertà, ma la trovai qui, in mezzo a voi!».
Occorre comunque precisare che la lotta indipendentista di Scanderbeg non fu dettata solamente da motivazioni religiose. Il vero obbiettivo del Castriota era infatti preservare l’indipendenza politica del popolo albanese e con essa la sua identità etnica. Questo proto nazionalismo, se così si può definire, era a sua volta il risultato di quel senso di unità etnica e linguistica proprio degli albanesi, i quali sentivano di essere parte di una realtà culturale ben distinta da quelle slave loro confinanti.

Forte del proprio prestigio, dopo avere proclamato l’indipendenza del suo popolo il passo successivo del Castriota fu quello di federare i clan e le fazioni nobiliari albanesi per combattere uniti contro le armate del Sultano. Pertanto, pochi mesi dopo la presa di Kruja, all’inizio di marzo del 1444, egli riunì gli esponenti delle principali famiglie aristocratiche albanesi – come i Muzaka, i Thopia, i Balsha e gli Scura – nella città veneziana di Lezha (Alessio) invitandoli a porre fine alle reciproche divergenze e fare causa comune contro l’occupazione ottomana. L’incontro ebbe buon esito e portò alla costituzione della cosiddetta Lega di Alessio, che riunì sotto il proprio stendardo buona parte dell’Albania settentrionale e centrale. Scanderbeg in virtù delle sue capacità militari della conoscenza del nemico conseguita nel corso della sua permanenza presso i turchi ne fu eletto comandante sebbene come una sorta di “primus inter pares” in quanto le sue decisioni avrebbero richiesto l’approvazione degli altri membri dell’alleanza.
Una volta acclamato leader indiscusso della resistenza albanese, Scanderbeg si preparò ad affrontare l’inevitabile vendetta di Murad, il quale era senz’altro deciso a punire in maniera esemplare il tradimento del suo ex pupillo. La lotta di Scanderbeg contro i turchi durò complessivamente un quarto di secolo, dal 1443 fino alla sua morte, nel 1468. Durante questo lungo arco di tempo il Castriota seppe avvantaggiarsi dell’ottima conoscenza del territorio la cui natura montuosa avrebbe costretto il nemico turco a muoversi lungo sentieri ben precisi e a fare uso dei pochi valichi disponibili, esponendosi così al rischio di imboscate e colpi di mano. Ciò avrebbe almeno in parte compensato la costante inferiorità numerica in cui si sarebbero trovate le forze albanesi.

Già all’indomani della proclamazione dell’indipendenza Giorgio poteva disporre di un esercito di circa 10 mila uomini che divennero il doppio considerando anche le riserve. Scanderbeg era un leader fortemente carismatico, che seppe conquistarsi l’assoluta fedeltà dei suoi sottoposti, coi quali condivise sempre i disagi e le fatiche della guerra. Con l’arrivo dell’estate del 1444 Murad, chiusa temporaneamente la questione della crociata ungherese, inviò in Albania un’armata che secondo le fonti contava dai 25 ai 40 mila uomini al comando di Alì Pascià. Avvertito per tempo dei movimenti delle truppe ottomane dalle sue spie, Scanderbeg si ritirò attirando il nemico nella valle di Torvioll, dove, presi alla sprovvista, i turchi vennero circondati e massacrati.
La sconfitta rese ancora più furibondo il Sultano che l’anno successivo organizzò una nuova spedizione affidandone il comando a Firuz Pascià con l’ordine tassativo di annientare Scanderbeg e i suoi albanesi. Ancora una volta il Castriota attese alle gole di Prizren il 10 ottobre 1445 e uscendo di nuovo vincitore dallo scontro. L’eco dei trionfi di Scanderbeg giunse fino alle orecchie del Re di Napoli Alfonso d’Aragona e del Papa Eugenio IV. Nel mondo cristiano la battaglia di Molta venne salutata come una vendetta per la sconfitta dell’esercito crociato ungherese nella battaglia di Varna, combattuta il 10 novembre 1444.

Nel 1450 fu lo stesso Murad II ad assumere personalmente il comando delle operazioni in Albania: alla testa di un esercito di 150 mila uomini, appoggiati da una potente artiglieria e dal corpo d’élite dei giannizzeri, il Sultano assediò il castello di Kruja, difeso da appena 2 mila soldati ma dopo sei mesi fu costretto a ritirarsi senza avere ottenuto nulla. Murad sarebbe morto di lì a poco nel 1451 lasciando il trono a suo figlio Mehmet II, che nel 1453 avrebbe espugnato Costantinopoli, ponendo fine alla millenaria storia dell’Impero Romano d’Oriente.
Incursioni turche in Albania di susseguirono per tutti gli anni cinquanta del XV secolo: pur non disponendo che di 20 mila uomini al massimo Giorgio Castriota riuscì sempre a dare notevole filo da torcere ai ben più numerosi avversari ottomani ricorrendo ad azioni di guerriglia favorite dall’ottima conoscenza dell’aspro territorio albanese. A motivo delle sue gesta, negli anni successivi Papa Callisto III conferì a Scanderbeg i titoli di Athleta Christi et Defensor Fidei ossia Atleta di Cristo e Difensore della Fede.

Nel 1459 Scanderbeg sbarcò in Italia per supportare l’amico e alleato Alfonso d’Aragona contro il rivale Giovanni d’Angiò, Duca di Lorena e pretendente al trono di Napoli. La campagna italiana di Scanderbeg terminò bruscamente nel 1462 allorché il condottiero albanese dovette rientrare precipitosamente in patria per far fronte ad un nuovo tentativo di invasione turco. Ad ogni modo, per il contributo prestato nella sconfitta dell’Angiò, nel 1464 Alfonso di Napoli nominò Giorgio “Generale della Casa d’Aragona” concedendogli i feudi di Monte Sant’Angelo, Trani e San Giovanni Rotondo. Quello stesso anno la morte di Papa Pio II determinò il fallimento della che il Pontefice avrebbe voluto organizzare contro l’Impero ottomano.
Scanderbeg dal canto suo continuò a difendere la sua terra fino alla fine. Soltanto la malaria riuscì a piegare la resistenza dell’indomito capopopolo albanese, che si spense a sessantatré anni il 17 gennaio 1468. La leggenda narra che prima di morire Scanderbeg ordinò, fra tutte le persone riunite accanto a lui, a un bambino di andare fuori, raccogliere tanti pezzetti di legno e di queste farne un mazzo. Al suo ritorno, Scanderbeg sfidò i presenti a spezzare questo mazzo, ma nessuno di essi riuscì nell’impresa. Fu così che il principe disse allora al giovane di disfare il mazzo e romperli uno per volta. Concluse dicendo: “Con questo gesto, io, vi volevo dimostrare che se restate tutti uniti nessuno potrà mai spezzarvi, ma dividendovi anche un solo bambino potrà condurvi alla morte”. Detto questo spirò.
A dispetto dell’esortazione di Scanderbeg, dopo la sua morte gli albanesi tornarono ancora una volta a dividersi non riuscendo più a ritrovare un leader dotato del carisma e dalla statura politica e militare del Castriota. Ciò fatalmente consentì ai turchi di riprendere la loro avanzata verso il cuore dell’Albania: dieci anni dopo la morte di Scanderbeg, nel 1478, le forze ottomane espugnarono la sua capitale, Kruja, mentre la resistenza albanese fu definitivamente domata tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta del Quattrocento. La caduta di Kruja segnò l’inizio della dominazione ottomana che si prolungò sino al 1912.

Con l’arrivo dei turchi il Paese si converti progressivamente alla fede musulmana, ancora oggi maggioritaria in Albania. Pur conservando una minoranza di cattolici e ortodossi, con l’inizio del dominio turco diverse migliaia di persone di fede cristiana lasciarono l’Albania in diverse ondate migratorie riparando nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia dove andarono a creare vere e proprie comunità della diaspora custodendo gelosamente le tradizioni e i costumi della terra natia, a cominciare dalla conservazione del rito religioso bizantino e dall’uso della lingua albanese. Ancora oggi queste comunità di italo-albanesi, detti arbëreshë, costituiscono una delle più importanti minoranze etno-linguistiche d’Italia con circa 100 mila membri e mantengono vivo il legame con l’Albania.
Bibliografia:
- Fan Stilian Noli, Scanderbeg (trad. ital. di Alessandro Laporta e Halil Myrto)
- Ettore Marino, Storia del popolo albanese: Dalle origini ai giorni nostri
- Giuseppe Staffa, I grandi condottieri del Medioevo