Scramble for Africa

Povertà, fame, malattie, analfabetismo, guerre civili e instabilità politica cronica. Il tutto all’interno di confini chiaramente artificiali, che sembrano tracciati con squadra e compasso, linee che hanno separato e continuano a dividere popoli tenendone invece uniti altri fra loro rivali. Questo è, in soldoni, la situazione di gran parte del continente africano. Un continente che però, paradosso dei paradossi, è uno dei più ricchi della Terra, nelle cui viscere si nascondono alcuni delle risorse più pregiate al mondo come diamanti, uranio, coltan – senza il quale i microprocessori dei nostri computer e cellulari sarebbero altrimenti inutilizzabili – solo per fare alcuni, banali, esempi.

In questa vignetta, che sintetizza efficacemente l’imperialismo occidentale, il colosso africano viene preso d’assalto e soggiogato dagli europei.

L’interesse europeo nei confronti del Continente Nero non risale, come si pensa comunemente, alla seconda metà del XIX secolo. Le potenze coloniali come Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo avevano infatti già cominciato a fare capolino in Africa già un paio di secoli prima. La presenza europea allora era tuttavia limitata a poche basi costiere. Scopo principale dei bianchi non era infatti stabilire un dominio di tipo politico e militare ma inserirsi in un business tanto antico quanto aberrante: la tratta degli schiavi. A partire dalla seconda metà del XVII secolo infatti, con la definitiva affermazione dell’economia di piantagione, le colonie europee del Nuovo Mondo richiedevano un costante afflusso di manodopera. Tuttavia gli immigrati europei non erano disposti ad un lavoro tanto massacrante e gli indios erano già stati in gran parte sterminati dalle malattie infettive importate dai colonizzatori bianchi.

Imbarco di schiavi africani su una nave negriera.

Così gli europei si inserirono nel mercato degli schiavi, fin lì gestito quasi esclusivamente da mercanti africani e arabi. Questi ultimi da secoli acquistavano schiavi nell’Africa sub sahariana per poi rivenderli nei mercati dell’Africa settentrionale o del Vicino Oriente. Gli sventurati coinvolti nella tratta erano in massima parte prigionieri di guerra o soggetti privati della libertà come punizione per aver commesso qualche grave colpa. Mercanti e compagnie commerciali originarie di numerosi Paesi europei – Francia, Gran Bretagna, Spagna, Portogallo ma anche Olanda, Danimarca e Svezia – fondarono quindi lungo la costa africana tra gli attuali Senegal e Angola una serie di fortini e in grado di fare da centri di raccolta e poi di smistamento e imbarco della “merce umana” verso il Nuovo Mondo. La cattura e il trasporto degli schiavi era invece di esclusiva competenza dei capi locali, i quali non consentivano i bianchi di entrare nei loro territori. Costoro erano a loro volta scoraggiati a spingersi nell’interno anche a causa di malattie quali ad esempio la malaria che mietevano un gran numero di vittime tra gli europei.

Mappa che illustra la tratta transatlantica degli schiavi africani tra XVI e XVIII secolo.

Inaugurata nella seconda metà del XVI secolo, la tratta atlantica perdurò sino alle soglie del XIX secolo coinvolgendo circa 12 milioni di africani. Soltanto verso la fine del Settecento, in coincidenza con le rivoluzioni americana e francese si assistette ad un primo cambiamento di mentalità nei confronti della schiavitù: la libertà accordata ai neri che si batterono al fianco di Washington e la rivolta scoppiata ad Haiti nel 1791 inflissero un primo, duro colpo al regime schiavista. Tuttavia, mentre il commercio degli schiavi fu abolito già all’inizio dell’Ottocento – nel 1815 a margine del Congresso di Vienna venne adottata una risoluzione contro la tratta dei neri – per giungere alla definitiva messa al bando della schiavitù si dovette aspettare la seconda metà del secolo: negli Stati Uniti ciò avvenne nel 1865 al termine della guerra civile, a Cuba nel 1886 mentre in Brasile addirittura solo nel 1888!

Vignetta che raffigura la spartizione del mondo fra le grandi potenze.

È proprio nei decenni finali del XIX secolo che si assistette ad un rinnovato interesse delle potenze europee nei confronti dell’Africa. Dopo la fine della schiavitù e il crollo degli imperi americani con l’indipendenza delle colonie ispano-portoghesi e la nascita degli Stati Uniti, si aprì infatti una nuova fase del colonialismo europeo nelle quale alla penetrazione commerciale subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e di sfruttamento economico. Questi cambiamenti avvennero in tempi estremamente rapidi: se ancora nel 1852 il Primo Ministro britannico Benjamin Disraeli dichiarava che “le colonie sono macigni legati al nostro collo”, appena una generazione dopo la febbre coloniale aveva contagiato i governi e le opinioni pubbliche d’Europa, anche in Paesi – Germania, Italia, Belgio – privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente.

Esploratore europeo con due pigmei congolesi. Alcuni di essi sarebbero stati esposti negli 
zoo umani, vere e proprie mostre basate su una concezione razzista e coloniale dell’umanità.

Le ragioni che spinsero gli europei all’interno del Continente Nero, sfidando terre sconosciute e ambienti inospitali quali la foresta equatoriale e la savana, furono molteplici. Da una parte vi erano motivazioni di carattere paternalistico, nelle quali si mescolavano nazionalismo, senso di superiorità razziale e spirito missionario ben riassunte dal concetto del “fardello dell’uomo bianco” elaborato da Rudyard Kipling, ovvero il supposto “dovere” degli europei di civilizzare i popoli “selvaggi”. Vi erano poi giustificazioni umanitarie” a sostegno della conquista coloniale, prima fra tutte la volontà europea di porre fine alla schiavitù, ancora praticata da africani e mercanti arabo-musulmani.

Non bisogna però dimenticare, in un’epoca di spettacolare sviluppo industriale, quale fu l’importanza della molla economica che spinse le potenze europee a ricercare nuove fonti di approvvigionamento di materie prime – come ad esempio stagno, carbone, gomma e più tardi petrolio – a basso prezzo necessarie alle industrie del Vecchio Continente nonché nuovi mercati di sbocco per le proprie merci.

L’interesse dell’opinione pubblica nei riguardi dell’Africa, peraltro già sollecitato dall’opera dei missionari, venne alimentato dalle grandi esplorazioni organizzate per volontà dei governi europei e dei grandi istituti scientifici – come la Royal Society londinese – che dalla metà dell’Ottocento ebbero come obbiettivo soprattutto l’Africa, le cui regioni più interne erano ancora pressochè sconosciute. Ad alimentare l’organizzazione di questi viaggi contribuì da una parte la sincera curiosità scientifico-geografica – tra gli obbiettivi vi fu quello di trovare finalmente le sorgenti del Nilo – e dall’altra la prospettiva delle ricchezze che i territori scoperti avrebbero potuto offrire.

Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà durante la sua spedizione in Congo.

Fu questa l’epoca dominata da figure di esploratori spesso circondate da un alone di fascino e di ammirazione come ad esempio l’italo-francese Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà – cui fu intitolata la città di Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo – l’americano Henry Morton Stanley, il quale esplorò per conto del Belgio il bacino del fiume Congo, e l’inglese David Livingstone. Partito per l’Africa con l’obbiettivo di portarvi il Vangelo e di porre fine alla schiavitù, tra gli anni Cinquanta e Sessanta Livingstone esplorò per primo la zona dello Zambesi viaggiando in lungo e in largo per l’Africa meridionale, che attraversò da un oceano all’altro.

Il successo nella penetrazione e nella conquista delle regioni africane da parte dei bianchi era assicurato dalla messa a punto di farmaci antimalarici come ad esempio il chinino che ridussero notevolmente la mortalità tra gli europei oltre che dallo sviluppo di armi da fuoco sempre più sofisticate – fucili a retrocarica e poi mitragliatrici – che assicuravano ai conquistatori una netta superiorità nei confronti degli indigeni. La devastante efficacia delle armi europee condusse in taluni casi al quasi completo stermino di quelle popolazioni che si opposero al colonialismo come nel caso dei Nama e degli Herero, due gruppi tribali dell’attuale Namibia, che vennero decimati dalle truppe coloniali tedesche tra il 1904 e il 1908.

Ricostruzione dell’incontro tra Henry Morton Stanley e David Livingstone avvenuto a Ujiji il 10 novembre 1871. Stanley aveva intrapreso un viaggio con  lo scopo di ritrovare il missionario scozzese dato per disperso alcuni anni prima.

Un altro fattore che facilitò la conquista europea era rappresentato dalla sostanziale decadenza delle civiltà e degli imperi locali. Per esempio in Africa occidentale gli antichi regni del Ghana (IV-XI secolo) o del Mali (XII-XV secolo), che avevano dominato la regione per secoli, si erano da tempo frantumati a causa delle guerre civili e del perdurare della tratta degli schiavi. Pertanto, all’arrivo degli europei la regione era divisa in una serie di potentati musulmani con una tradizione statuale ancora viva sia pure in declino nella quale l’elemento religioso islamico funzionava da collante tra le diverse tribù. Nel Corno d’Africa si trovava invece l’Impero d’Etiopia, uno stato retto da una struttura istituzionale ancora di tipo feudale ma che, forte della sua secolare identità cristiana copta, costituiva il regno più vasto e più solido del continente. Nell’Africa centrale e meridionale, in cui invece erano del tutto assenti elementi di coesione politica o religiosa, vivevano società tribali disaggregate dedite alla caccia, alla pastorizia nomade ed a una primitiva forma di agricoltura. Si trattava di realtà ormai dissanguate, oltre che dalla tratta degli schiavi, da terribili lotte intestine.

La conquista europea dell’Africa avvenne quindi in maniera sorprendentemente rapida. Ancora nel 1870 le potenze europee controllavano appena un decimo del Continente Nero: i francesi occupavano Algeria e Senegal, gli inglesi la Colonia del Capo – la parte meridionale dell’odierno Sudafrica – mentre i portoghesi l’Angola e il Mozambico. Meno di cinquant’anni dopo, nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, l’intero continente africano risultava spartito tra le potenze europee. Indipendenti dalla dominazione coloniale restavano soltanto la Liberia – creata nel 1822 come patria per gli ex schiavi afroamericani ricondotti per loro desiderio in Africa – e l’Impero d’Etiopia, che respinse con decisione i tentativi di conquista da parte dell’Italia

Mappa del Continente Nero prima e dopo la “Corsa per l’Africa” iniziata col Congresso di Berlino del 1884-85.

A innescare la corsa all’accampamento delle colonie erano state due azioni compiute rispettivamente da Francia e Gran Bretagna, vale a dire l’occupazione della Tunisia (1881) e l’intervento militare in Egitto (1882). Entrambi i governanti dei due paesi nordafricani -il Bey di Tunisi e il Khedivè d’Egitto – erano nominalmente vassalli del Sultano ottomano ma di fatto agivano come sovrani indipendenti. L’intervento delle due potenze europee era motivato dalla necessità per i governi di Parigi e Londra di salvaguardare i propri interessi economici visto che sia la Tunisia che l’Egitto erano fortemente indebitati con le banche francesi e inglesi. Inoltre il controllo dell’Egitto assumeva per i britannici un’importanza ancora più rilevante in seguito all’apertura (1869) del Canale di Suez, via d’acqua strategica per i collegamenti con l’Oriente e con l’India. 

La prima traversata del Canale di Suez nel novembre 1869.

Dall’Egitto, gli inglesi si trovarono ben presto impegnati nel vicino Sudan, vastissimo territorio sotto controllo egiziano nel quale era scoppiata nel frattempo la rivolta capeggiata da un predicatore musulmano estremista, Muhammad Aḥmad, autoproclamatosi Mahdi. Costui nel 1885 riuscì a conquistare la capitale sudanese Khartoum, fondando uno stato islamico che le truppe britanniche riusciranno ad abbattere soltanto nel 1898.

Altri contrasti tra le potenze europee sorsero nell’area del bacino del fiume Congo, dove si scontrarono gli interessi contrapposti di Francia, Gran Bretagna, Germania e Portogallo. A quel punto si inserì nella contesa un quinto protagonista: il sovrano del Belgio Leopoldo II. Fermamente convinto che le colonie d’oltremare fossero la chiave per la grandezza di uno Stato, fin dalla sua ascesa al trono Leopoldo aveva lavorato instancabilmente per assicurare al proprio Paese un possedimento coloniale.

Leopoldo II di Sassonia-Coburgo-Gotha (r. 1865-1909), sovrano del Belgio. Fin dall’inizio del suo regno si adoperò per ottenere il controllo di un possedimento coloniale.

Dopo aver tentato senza successo di ottenere la cessione delle Filippine dalla Spagna, il Re del Belgio iniziò a concentrare le proprie ambizioni verso l’Africa, fondando nel 1876 l’Association internationale africaine per la promozione dell’esplorazione e della colonizzazione del Continente Nero. Dato il sostanziale disinteresse tanto del popolo quanto del governo belga, Leopoldo si attivò per acquisire il controllo di una colonia da privato cittadino.

Per dirimere le dispute in campo coloniale tra il 1884 e il 1885 venne convocata una grande conferenza internazionale a Berlino. Oltre ovviamente ai rappresentanti tedeschi, vennero invitati a partecipare i delegati di quelle potenze che già avevano interessi in Africa vale a dire Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Belgio e Stati Uniti. Inoltre, «allo scopo di assicurare alle risoluzioni della conferenza l’assenso generale» furono invitati, ma soltanto come “osservatori”, l’Austria-Ungheria, la Svezia-Norvegia, la Danimarca, l’Italia, l’Impero ottomano e la Russia. Padrone di casa fu il vecchio Cancelliere di Ferro Otto von Bismarck, il quale poteva ergersi ad arbitro imparziale della contesa africana essendo il suo Paese ancora pressoché disinteressato alle questioni coloniali. Bismarck infatti era contrario all’acquisizione di possedimenti oltremare da parte della Germania in quanto convinto che ciò avrebbe messo in urto il suo Paese con la Gran Bretagna. 

Vignetta realizzata da Edward Linley Sambourne nel 1906 per rivista satirica Punch che riassume la tragedia del colonialismo belga in Congo: un serpente con la testa di Leopoldo II stritola uno sventurato indigeno.

La conferenza codificò le norme che avrebbero dovuto regolare la spartizione dell’Africa. Il principio adottato fu quello dell’effettiva occupazione ufficialmente notificata agli altri stati come unico titolo atto a legittimare il possesso europeo di un territorio. In altre parole la potenza che avesse occupato per prima un territorio se ne assicurava l’esclusiva sovranità, non solo del suolo con le sue risorse ma anche delle popolazioni che lo abitavano.

Sempre durante il congresso di Berlino, al termine di laboriose trattative le principali potenze occidentali riconobbero l’esistenza del cosiddetto “Stato Libero del Congo” – corrispondente all’attuale Repubblica Democratica del Congo – vero e proprio possedimento privato di Re Leopoldo. La colonia si estendeva su un territorio vasto circa 2,4 km2, pari a circa ottanta volte l’estensione del Belgio.

A partire dal 1885 e per i successivi ventitré anni, mentre in Belgio venivano varate riforme volte a contrastare il lavoro minorile e concesso il suffragio universale maschile, in Congo Leopoldo instaurò un regime di sfruttamento disumano delle risorse naturali e della manodopera indigena, ridotta in condizioni di semi-schiavitù. La tragica avventura dello Stato Libero del Congo terminò soltanto nel 1908 quando cominciarono a diffondersi le notizie riguardanti il regime di terrore in vigore nel possedimento personale di Leopoldo, che in 23 anni aveva causato la morte di circa 10 milioni di congolesi. Il parlamento belga costrinse allora il monarca a rinunciare alla colonia privata, che passò sotto il controllo dello stato, prendendo il nome di “Congo belga”.

Otto von Bismarck assieme ai delegati delle potenze occidentali alla Conferenza di Berlino.

Negli anni tra la conclusione della conferenza di Berlino e l’inizio del XX secolo Francia e Gran Bretagna in particolare diedero inizio a una vera e propria gara per l’espansione sul suolo africano. Mentre i francesi puntavano ad allargare i loro possedimenti da ovest verso est, dall’Atlantico al Mar Rosso, gli inglesi al contrario miravano a costruire un dominio senza soluzione di continuità che andasse “dal Capo al Cairo” secondo le parole del politico e magnate sudafricano Cecil Rhodes. Quest’ultimo fu tra i principali fautori dell’espansionismo britannico nell’Africa australe che portò le truppe britanniche a scontrarsi con i boeri, ossia i discendenti dei coloni olandesi insediatisi in Sudafrica a partire dal XVII secolo. Le guerre combattute tra britannici e boeri – nel 1880-81 e nel 1899-1902 – rappresentano un caso peculiare sia perché furono innescate da un impulso espansionistico partito non dalla madrepatria ma da una colonia – in questo caso il Sudafrica – sia per il fatto che l’imperialismo britannico si scontrò con un nazionalismo anch’esso di origine europea dando vita ad un conflitto tra due potenze bianche e cristiane.

Cecil Rhodes in una caricatura nella quale si fa riferimento alla sua volontà di estendere la sovranità inglese “dal Capo al Cairo”

Le contrastanti ambizioni di dominio per poco non condussero francesi e britannici al conflitto aperto: nel settembre 1898, durante la riconquista inglese del Sudan, un contingente britannico proveniente da nord si incontrò con uno francese proveniente da ovest che aveva occupato la fortezza di Fashoda, sul Nilo.  Le truppe si fronteggiarono in un clima di grande tensione fino ai primi di novembre, quando i francesi si ritirarono, grazie all’accordo dei due governi. Ne seguì una distensione nei rapporti tra Parigi e Londra che avrebbe portato di lì a pochi anni alla stipulazione della cosiddetta Entente (intesa) Cordiale nell’aprile del 1904.

Per concludere non possiamo che esaminare quale fu l’impatto della colonizzazioni sui popoli che si trovarono a subirla. In una parola: devastante. Soprattutto nell’Africa sub sahariana gli europei ricorsero in modo sistematico all’uso della forza per stroncare qualsiasi velleità di ribellione, sfoderando un campionario di crudeltà mai visto prima nel corso dei conflitti tra potenze “bianche”.

Linea ferroviaria nel Congo Belga, primi anni del XX secolo.

Gli europei misero in moto un processo di sviluppo funzionale agli interessi dei colonizzatori. Dal punto di vista economico le realtà africane entrarono nel vasto mercato globale, ma in una posizione dipendente, passando da una condizione di “povertà” ad una di “sottosviluppo”. Nei territori sotto il loro controllo infatti gli europei imposero modelli economici funzionali agli interessi dei colonizzatori e non dei colonizzati. Certamente la colonizzazione comportò alcuni effetti positivi quali ad esempio l’introduzione di nuove tecniche agricole, la costruzione di infrastrutture – strade, ponti, ferrovie – e l’avvio di attività industriali e commerciali. Ma tutto questo avvenne a prezzo di un continuo depauperamento delle risorse e della manodopera locale.

Stazione commerciale nel Camerun tedesco, dipinto di Rudolf Hellgrewe del 1908.

La colonizzazione ebbe un impatto ugualmente micidiale dal punto di vista culturale con la totale cancellazione di intere culture che fin lì si erano trasmesse soltanto oralmente. Questo almeno fu quello che accadde in buona parte dell’Africa Nera. Altrove, come nel Nord Africa musulmano, la presenza di strutture politico-sociali con una lunga e solida tradizione alle spalle riuscirono a opporre una maggiore resistenza agli apporti della colonizzazione europea finendo in parte per assimilarli, anche grazie all’opera di élite educate nelle università del Vecchio Continente. Saranno proprio quegli ideali di democrazia e quei principi di nazionalità tipici della cultura occidentale a determinare nei quadri dirigenti dei popoli assoggettati la consapevolezza della propria identità e il desiderio di autogovernarsi che saranno alla base dei vari movimenti per l’indipendenza delle colonie.

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