Le epoche storiche, che spesso sembrano qualcosa di neutro e spesso spiccatamente cronologico, assumono altrettanto spesso una corporeità e una fisicità, ottima per permettere una maggiore immedesimazione che superi la serie delle date e gli avvenimenti. Questo aspetto si riesce a manifestare tramite vie differenti. Da un lato attraverso i frutti della società e della cultura, dalla letteratura alle arti, dall’altro con le vicende degli uomini, i cui accidenti colorano e danno forma alla storia del mondo.
Queste storie nella Storia, vere testimoni e narratrici del loro tempo e del loro spazio, hanno però spesso anche un alone di indeterminatezza, producono una sensazione di offuscamento in cui i loro caratteri sono poco definiti e misteriosi. Se da un lato questo dipende dal ruolo delle fonti, spesso non chiare e frammentarie, dall’altro dipende anche dai noi contemporanei. La poca chiarezza non deriva nella maggior parte dei casi da una volontà passata di celare la verità o di elaborare un pensiero criptico che nasconda innominabili pensieri, quanto dal fatto che le opere d’arte come quelle letterarie siano, per così dire, figlie del loro tempo, inserite in una serie di coordinate politiche, ideali e filosofiche precise, note e conosciute dai committenti e dagli uomini del loro tempo, che essi facessero parte del grande pubblico o di una ristretta cerchia intellettuale. Per comprenderli quindi non è necessario pensare fantomatiche teorie usate in senso sensazionalistico, quanto cercare di sostituire, o meglio sovrapporre i nostri occhiali moderni con quelli contemporanei, cambiando il punto di vista per quanto esso sia possibile.

Questa particolare condizione, che si registra in tantissimi casi e campi, specie in quelli letterari, risulta molto interessante soprattutto in quei contesti che pensiamo di conoscere più nel dettaglio, soprattutto quando questi divengono quasi l’emblema di un’epoca, uno stile, un tempo. Se infatti questa fa quasi meno rumore nella Venezia del Quattrocento e in quella cinquecentesca, popolata di piccoli gruppi umanistici aristocratici, amici e committenti di Bellini, Giorgione e Tiziano, questa risalta invece di più in una delle piccole ma ricche corti del XV secolo, scrigni di ciò che noi identifichiamo più direttamente come Rinascimento. Tra queste, dalla cavalleresca Ferrara all’antiquaria Mantova, si colloca anche la capitale del Montefeltro, Urbino. Una città con grandi testimonianze del suo passato medioevale, ma che si identifica come una sfumatura importante del Rinascimento italiano. Una città modellata e animata intellettualmente da un grande personaggio, che vi creerà all’interno una città nella città, il Palazzo Ducale.
Questi è Federico da Montefeltro, la cui nascita risale a 600 anni fa. Una figura quasi identitaria per il Rinascimento italiano, anche nella sua ambiguità. Il signore, poi duca del Montefeltro, unisce in sé infatti più sfaccettature, come un caleidoscopio. Da un lato uomo d’arme, prototipo di quei capitani di ventura che avevano guidato la vita militare italiana dalla metà del ‘300, grande guerriero sul campo ma anche organizzatore e gestore delle sue truppe, tanto di riuscire a sostenere la sua corte attraverso le condotte militari.

Un uomo che esprime di questo ruolo ogni aspetto, da quello guerresco dei tornei, che gli costerà l’occhio destro, a quello molto meno glorioso dell’assedio e sacco di Volterra nel 1471. Un uomo politico abile e attento, capace di creare rapporti ad ampio raggio, con il duca di Milano come con la curia pontificia, che gli garantiranno l’investitura ducale nel 1474, ma anche un uomo spregiudicato, coinvolto forse nella congiura a danni del fratellastro Oddantonio e più tardi socio occulto della congiura dei Pazzi, pur avendo sviluppato un buon rapporto con Lorenzo de’Medici. Anche però un grande mecenate e umanista del suo tempo, formatosi con Vittorino da Feltre e creatore di una significativa biblioteca, ora nelle collezioni vaticane. Capace in ciò di creare un florido crogiuolo di arti e artisti da tutta Europa, da Giusto di Gand e lo spagnolo Pedro Berrughete a Piero della Francesca e Giovanni Santi, padre di Raffaello. Il tutto nel suo palazzo, grande come una città, figlio di menti come Luciano Laurana e il senese Francesco di Giorgio Martini, tra castello tardogotico ed edificio vitruviano, che da Federico prende il nome di Palazzo Ducale.
Tra le opere che popolano il suo palazzo ve ne è una però molto particolare, una piccola tavola di pioppo la cui storia ha aperto un’accesa discussione e dibattito e che ancora oggi riesce a raccontarsi solo fino ad un certo punto. Questa è la Flagellazione di Cristo, dipinta dal pittore di San Sepolcro Piero della Francesca. Il titolo potrebbe far pensare ad un’opera di semplice lettura, un episodio legato alla Passione di Cristo magari per devozione privata, qualcosa di abbastanza comune dal Medioevo fino ad oggi. Le sue forme tuttavia rendono questo tema, pur presente, qualcosa di molto diverso e di complessa lettura.

Piero, infatti, costruisce la scena in modo articolato, dividendola spazialmente in due parti, sviluppando e giocando con uno degli strumenti cardine della prima metà del XV secolo, la prospettiva. La scena sacra, composta da Cristo legato alla colonna, dai flagellatori, da Ponzio Pilato in trono e da un personaggio vestito alla turca, viene posto infatti in secondo piano, inserita in una loggia aperta, sorretta da colonne all’antica e coperta da un soffitto cassettonato. La prospettiva, particolarmente ardita, gioca soprattutto proprio con il soffitto classico e con il pavimento a marmi composti, al cui centro viene a trovarsi una grande rota marmorea, schiacciata da essa in un’ellisse scuro. Tale uso scenico porta anche ad un altro aspetto interessante. La scena sembra infatti, sin dalla sua composizione, staccarsi nettamente e allontanarsi visivamente al proscenio del quadro. Qui, nella parte destra del quadro e accompagnati da un panorama urbano sullo sfondo, tre personaggi, uno di tre quarti, uno frontale e uno di profilo, discutono tra di loro, anche se quasi senza parole, attraverso gli sguardi. Gli elementi noti dell’opera non sono molti, se non la sicurezza dell’autore Piero di Borgo San Sepolcro, come il pittore si firma sullo scalino al di sotto della figura di Pilato.
Un primo dato, che porta la Flagellazione ad essere una sorta di manifesto dell’arte di Piero, è proprio lo stile. L’artista qui riprende ed elabora molti degli elementi del primo Rinascimento italiano, conformandoli però al suo stile personale. Un elemento importante e interessante ed evidente è proprio il ruolo centrale della prospettiva. Il pittore, infatti, cura minuziosamente la resa spaziale della scena, creando una vera immersione dello spettatore nella vicenda. Questo taglio centrale si sviluppa in particolare nella creazione degli equilibri interni tra le parti, sia nella scenografia architettonica che nel rapporto tra le figure umane, tutti giocati, come egli sviluppò nel suo manuale De Prospectiva pingendi, su un accurato studio della matematica e della geometria, in particolare nell’attenzione ai rapporti proporzionali tra i caratteri, resi attraverso moduli precisi, creando così un effetto armonico dell’insieme.

Ciò garantisce anche la monumentalità della resa pittorica, sviluppata però in uno stile semplice e asciutto, quasi razionalista, che riduce il dettaglio al solo necessario. Questo senso di armonia si allarga quindi anche ai personaggi umani.
Se questi partecipano all’insieme attraverso la geometria dei loro corpi e il dialogo scultoreo che disegna lo spazio, il senso di calma dato dalle architetture si esplicita anche tramite il loro agire. Piero in particolare, tranne in rari casi, predilige una narrazione poco movimentata, basata invece su un senso di moto quasi cerimoniale e processionale. A questo aspetto si aggiunge anche l’elemento psicologico. A differenza di artisti a lui contemporanei come Donatello, Piero abbandona e limita sensibilmente la manifestazione più diretta, emotiva ed espressiva dei sentimenti e delle emozioni dei personaggi, sviluppando invece un taglio più indiretto e mediato, come se l’osservatore dovesse entrare in un dialogo intimo e muto con i protagonisti delle opere stesse. Un ultimo dettaglio è il colore e la luce.

Nel primo caso Piero tende in particolare ad utilizzare colori carichi e accesi, sviluppati poi anche attraverso il contatto con i fiamminghi alla corte di Federico da Montefeltro, seppur ammorbidendo le tinte forti e cangianti dei suoi contemporanei fiorentini, come Paolo Uccello. La luce invece sembra seguire la linea dettata dall’architettura. Essa, infatti, viene modellata dall’artista in modo accurato, permettendo di creare l’effetto di una luminosità diffusa, dove ogni elemento venga colpito dalla medesima luce con la medesima forza, con un ulteriore effetto armonico. Un effetto che, unito proprio all’architettura e ai sentimenti solamente abbozzati, crea un effetto finale di attesa, di un luogo pacificato nel quale sembra che il tempo si sia fermato.
Come mai allora, in questo clima di chiarezza estrema e di piena comprensione della realtà la Flagellazione rimane ancora centro del dibattito? Tale elemento nasce infatti, non dalla forma, ma dal significato. La collocazione, infatti, del tema principale sullo sfondo, in una posizione defilata rispetto agli astanti, ha fatto fin dall’inizio pensare che il significato dell’opera avesse un senso più profondo del tema sacro, pur preso da diversi esperti in considerazione. Le prime interpretazioni che si possono proporre, portate avanti anche da esimi studiosi, sviluppano delle idee che guardano ad un caleidoscopio di significati più legati al dato materiale dell’opera. In essa in particolare si è vista, su di un fronte, la medesima scena evangelica, non inusualmente posta in una posizione centrale nelle composizioni, o temi ad essa legati, come il tradimento e il pentimento di Giuda, che sarebbe da identificarsi con il primo personaggio a sinistra sul proscenio. Altri invece vi hanno dato un taglio più prosaico.

Analogamente al clima in cui Piero era immerso, quello della Urbino e dell’Italia della metà del Quattrocento, l’opera sarebbe invece uno studio spiccatamente artistico, un’opera pensata come un vero teatro in pittura in cui il pittore avrebbe creato una scenografia e dei personaggi protagonisti di un gioco e uno studio di prospettiva e di matematica. Altri studiosi invece hanno sviluppato un tema diverso. Questo sarebbe legato alle tematiche filosofiche di cui era imbevuto il Rinascimento italiano, che portavano a rappresentare nelle opere d’arte più piani di lettura, da uno più superficiale ed immediato ad altri più criptici e intellettuali. Alcuni in particolare vi vedrebbero, in chiave sacra, la Flagellazione di San Gerolamo, episodio mistico legato al santo, oppure un’immagine più rarefatta e teologica, legata alla riflessione sullo Spirito Santo e a letture esoteriche del libro sacro, identificando gli astanti o come l’immagine dell’umanità, rappresentata da un arabo, un greco e un latino, o l’incontro tra sapienti, legati, in coerenza con l’epoca, all’ebraismo, al paganesimo classico e a quello moderno che da Bisanzio si era esteso ai circoli neoplatonici di Rimini, Urbino e Firenze, di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino.
A queste letture coerenti con il clima culturale dell’Italia quattrocentesca si accostano però altre linee, accomunate da un filo comune, quello della politica, che vedono la Flagellazione come un messaggio politico che il committente avrebbe voluto rivelare al suo pubblico. Questa linea complessa gioca in particolare su diversi dati indiretti che si sono ricostruiti sull’opera attraverso gli autori che l’hanno scoperta e studiata dalla metà dell’Ottocento. Un primo dato assai interessante è la sua collocazione. Anche se oggi l’opera si trova in Palazzo Ducale, nella Galleria Nazionale, questa sua collocazione non è originaria, ma molto postuma, avvenuta solo dal 1916. In precedenza, nel Settecento l’opera doveva essere conservata in Cattedrale, sempre ad Urbino, anche se non si conosce il motivo della sua collocazione. Questo dato è importante anche per il suo permanere nella città marchigiana, non soggetta alle spoliazioni che prima il cardinal Francesco Barberini, nipote di papa Urbano VIII e presente alla devoluzione del ducato allo Stato Pontificio nel 1625, e poi da Napoleone attuarono sulle collezioni non comprese nel lascito ai Medici. A questo permanere nello stesso luogo fa seguito anche la ricostruzione della presunta data di realizzazione. Nel corso del ‘900 essa è stata collocata in una forbice tra la metà degli anni ’40 del XV secolo e i primi anni ’70, motivati anche attraverso possibili interpretazioni dell’opera. Un’analisi più speculativa ha invece voluto dare un più preciso riferimento alla seconda metà degli anni ’50.

Tale identificazione sarebbe confermata da confronti legati all’arte di Piero e a possibili riferimenti al suo contesto. La struttura architettonica in particolare rimanda, come impostazione spaziale e come riferimenti al mondo classico e archeologico a medesimi edifici costruiti da Piero nella sua opera più monumentale, il grande ciclo dedicato alle Storie della Vera Croce nel presbiterio della chiesa di San Francesco ad Arezzo. Un grande ciclo narrativo, dipinto tra il 1457 e il 1459 per Giovanni Bacci, un ricco mercante aretino, in cui diversi dettagli, dalle architetture dell’incontro tra Salomone e la regina di Saba ai volti di Costantino e del suo seguito, che richiamano quelli di Pilato e di altri personaggi, dichiarano un diretto legame con la Flagellazione. A questi farebbero seguito una serie di elementi, probabilmente desunti da Piero visitando luoghi, leggendo libri e discutendo con i suoi contemporanei. Alla Flagellazione sembrano dare il loro contributo l’impostazione e le architetture dipinte da Benozzo Gozzoli entro il 1452 nel ciclo francescano di Montefalco, in Umbria, così come lo studio delle architetture e delle idee del grande umanista e architetto Leon Battista Alberti, in particolare nel trattato De re aedificiaria, pubblicato proprio in quegli anni, ma anche nella sua architettura forse più classica e anche poco conosciuta, la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio a Firenze, misto tra cappella funeraria dei Ruccellai, suoi committenti, e una mimesi del vero Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Infine, un ruolo profondo deve esserci stato con il luogo nel quale Piero si trovava in quel torno di anni e dove probabilmente venne realizzata l’opera, ossia Roma. La grande capitale dei papi, dove l’artista ebbe modo di confrontarsi con le antichità, era infatti la sua sede, dove era stato chiamato a dipingere alcune stanze per papa Pio II Piccolomini, oggi identificabili con le Stanze di Raffaello. Tutti luoghi che Piero aveva visitato e conosciuto, tramite le sue peregrinazioni centroitaliane e i suoi contatti intellettuali.
Partendo da questi dati in particolare si sono sviluppate due linee interpretative, entrambe di taglio politico. Quella più antica, legata anche a Roberto Longhi, vede concentrarsi nell’opera un significato dinastico, con la corte urbinate come committente. Ad essere commemorata sarebbe stata la morte violenta di Oddantonio, fratello minore di Federico e signore di Urbino prima di lui. Oddantonio, nato dal matrimonio legittimo di Guidantonio e di un membro di casa Colonna, parenti di papa Martino V, sarebbe infatti stato ucciso in una congiura cittadina nel 1444 insieme con i suoi consiglieri Manfredo Pio di Cesena e Tommaso di Guido dell’Agnello. L’opera paragonerebbe quindi la morte violenta e innocente del signore di Urbino a quella di Cristo nella Passione, elemento rimarcato dalla comune postura del corpo tra i due personaggi. Accanto a lui i suoi consiglieri che dialogano con il defunto, riconoscibile nel suo stato per i piedi scalzi. Questo soggetto sarebbe stato commissionato in memoria del defunto dal fratello successore, poco dopo o più avanti rispetto all’omicidio. Se ciò potrebbe sembrare lineare, alcuni elementi lo escluderebbero. In particolare, oltre alla data troppo avanzata per una commemorazione, i rapporti tra i due fratelli spingerebbero in un’altra direzione. Oddantonio infatti sarebbe stato assassinato in quanto principe tiranno, accusato dalle fonti di molti atti ingiusti e moralmente riprovevoli, cosa che potrebbe spingere a escludere una sua glorificazione postuma nella famiglia.

A ciò si aggiunge il rapporto con il fratello. Le fonti, infatti, forse influenzate dallo stesso duca, esaltano le qualità di Federico sul fratello, il quale sarebbe stato anche coinvolto nella congiura, entrando in città e costituendo un nuovo statuto con i cittadini solo poche ore dopo la morte di Oddantonio. Escludendo quindi la possibile committenza federiciana, che sarebbe confermata anche dall’assenza dell’opera dal palazzo, essa potrebbe reggere solo con un ruolo svolto dalle sorelle di Oddantonio, sorellastre di Federico, che avrebbero così ricordato il congiunto e mostrato un chiaro atto di accusa in chiesa nei confronti del duca. Federico come Giuda, quindi. Se la linea di Oddantonio sembra poco credibile, la tavola ha mantenuto un forte legame famigliare, facendo interpretare gli astanti con lo stesso Federico, con il padre Guidantonio a destra e il figlio Guidobaldo al centro, accostati però a volte ad altri personaggi, o legati alla corte urbinate, o al panorama internazionale come Francesco Sforza o Filippo Maria Visconti, riconoscibili forse nel personaggio a destra. Questa linea dinastica sembra però aprire anche letteralmente ad un altro mondo. Alcuni hanno visto infatti nell’abito del personaggio di sinistra e nel suo aspetto diversi caratteri, dalla barba biforcuta agli stivaletti da viaggio, che rimandano all’immagine quattrocentesca di un personaggio bizantino, identificato direttamente con l’imperatore Giovanni VIII Paleologo o con un suo emissario.
Questo dato porta con sé un ulteriore teoria storiografica. Essa nacque a partire dagli anni’50 da Kenneth Clark, direttore della National Gallery di Londra. Egli in particolare si rifà ad una scritta riportata nella prima metà dell’Ottocento da Passavant, giovane storico dell’arte legato ai Nazareni e dal suo predecessore Eastlake, che recitava “Convenerunt in unum”, una citazione latina estrapolata dai Salmi pasquali che associa in particolare alla stagione quattrocentesca dei concili, in particolare di quello Ferrara- Firenze del 1437/39 e a quello successivo, meglio detto Conferenza, tenutosi a Mantova nel 1459.

Se il primo, voluto da Giovanni VIII Paleologo e da papa Eugenio IV, puntava a cercare la ricomposizione teologica e liturgica tra la chiesa d’Oriente e d’Occidente dopo lo scisma del 1054, in prospettiva di un aiuto occidentale unitario a Costantinopoli e alla Morea, naufragato nella battaglia di Varna del 1444 e nella non accettazione bizantina dell’Unione, il secondo, convocato da papa Pio II, spingeva per un nuovo consesso occidentale che potesse difendere Mistrà e la Morea, unico brandello bizantino rimasto e creare una nuova crociata contro Maometto II. La scritta sarebbe poi scomparsa nel corso degli anni ’60 del XIX secolo, forse a seguito del primo restauro seguito da Giovanni Battista Cavalcaselle, storico dell’arte e amico di Eastlake. Essa si sarebbe trovata o sulla tavola, cancellata perché creduta postuma, o sulla cornice, eliminata proprio in quell’occasione. Questa suggestione di Clark ebbe quindi dei successori. Una prima ipotesi in particolare dava una nuova interpretazione in questa linea. Essa nasce da un dato di fatto interessante, ossia che la divisione tra gli spazi architettonici dell’opera nascondano anche una distanza temporale tra i due, ben definita dalla differenza di luce, da destra in secondo piano, da sinistra nel primo. La suddivisione sarebbe anche un parallelo. I rapporti spaziali tra personaggi e architetture risultano infatti gli stessi tra le due parti e la maggior grandezza a destra è frutto solamente dal rapporto prospettico tra i piani. Sotto la loggia infatti si nasconderebbe l’impero d’oriente, impostato però con i caratteri coevi al concilio di Ferrara e Firenze. Innanzitutto la figura di Pilato sarebbe riconoscibile con il profilo e il vestiario proprio dell’imperatore Giovanni VIII. La sua identificazione nel prefetto romano di Giudea non sarebbe da collocarsi nella sua inazione rispetto al supplizio, quanto nell’identificare l’imperatore con colui che personifica il suo ruolo, in continuità tra l’impero di Augusto e quello di Costantino.
La sua immagine riconoscibile sarebbe da confrontare sia con i disegni coevi di Pisanello ma anche con la medaglia, realizzata nell’estate 1438, proprio da Pisanello per volontà dello stesso imperatore. Di fronte a lui Cristo legato alla colonna, flagellato da due aguzzini e osservato, in disparte, da un personaggio vestito alla moda turca, identificabile in Maometto II o nell’impero ottomano. Gesù in questo caso si identificherebbe nella Chiesa d’Oriente, o in quella universale, colpita e flagellata dall’espansionismo ottomano e musulmano. A rafforzare l’identificazione è la colonna, su cui troneggia una statua classica in nudità eroica con corona solare e lancia. Inizialmente interpretata come immagine del trionfo sulla morte della Resurrezione di Cristo, essa è stata identificata anche con un elemento immaginifico che accomuna tre città, entrambe partecipi dell’evento a livelli diversi. Da un lato Gerusalemme, sede degli eventi evangelici e connotata in alcuni testi con una colonna fatta erigere da Adriano nel II secolo, ma anche la città del martirio in chiave crociata.

Dall’altro Roma, sede della Chiesa ma anche ricca di riferimenti al passato imperiale e cristiano, tra i quali una statua simile di Costantino, conservata in pezzi all’epoca di Piero in Laterano e forse oggi ai musei Capitolini, o la scala che si intravede alle spalle di Pilato, ricordo anche devozionale della Scala Santa, conservata a Roma nell’omonimo palazzo in Laterano e chiamata all’epoca Scala di Pilato, storpiando il termine palatium, palazzo. Infine, Costantinopoli, la città più direttamente coinvolta nella vicenda, la città dei Cesari, la Seconda Roma, identificata con la statua e la colonna di Costantino, un monumento famoso del suo Foro e legato strettamente alla città, in quanto inaugurata alla sua fondazione. Seppur scomparsa durante il Medioevo, la statua era ancora protagonista delle illustrazioni e delle mappe dell’epoca.
Se il secondo piano ricorda l’Oriente del 1439, il proscenio scalerebbe circa di una ventina d’anni, nel periodo preparatorio al Concilio di Mantova del 1459. Una prima teoria spinge per una nuova interpretazione dei personaggi, legandoli in particolare anche al ciclo aretino. A sinistra, a cavallo dei due mondi, si troverebbe il cardinal Basilio Bessarione. Costui, nato a Trebisonda e forse di origini regali, era un personaggio molto importante della politica e della cultura bizantina. Formatosi prima a Costantinopoli e poi in Morea, alla scuola pagana e neoplatonica di Giorgio Gemisto Pletone, avrebbe partecipato come vero protagonista al concilio di Firenze, scrivendo e declamando il discorso conclusivo dell’assise, per poi entrare come cardinale orientale nella Curia Romana, guidando parte della sua politica fino ai primi anni ’70 e svolgendo un’opera di mediazione e di spinta in direzione di una crociata antiturca e filobizantina. Di fronte a lui, caratterizzato da un abito damascato blu e oro e da una fascia rossa, Giovanni Bacci.
Costui sarebbe rappresentato come inviato da papa negli anni’40 del XV secolo in Oriente e poi presso alcune corti italiane con l’obbiettivo di invogliare i signori alla Crociata. La sua identificazione in questo caso si legherebbe a dei ritratti riscontrabili nel ciclo da lui commissionato ad Arezzo e vedrebbe quindi lo stesso Bacci come committente della Flagellazione, sia per la sua posizione che per il ruolo che essa veniva ad avere, come una cronaca figurata della condizione orientale ma anche un auspicio alla partecipazione. A concludere il quadro il personaggio frontale scalzo. Questa prima teoria ha spinto quindi a identificare il giovane biondo con Bonconte da Montefeltro, figlio naturale di Federico. La presenza del giovane Montefeltro è stata quindi interpretata in modi diversi. Se la teoria postula che il destinatario sia quindi il padre, Federico da Montefeltro, la presenza del figlio profila due strade diverse. Da un lato un’identificazione figurata, nella quale l’autore avrebbe identificato il dolore della Chiesa sullo sfondo con le vicende familiari del futuro duca, in particolare con la morte prematura dello stesso figlio nel 1458 a Napoli, invitandolo quindi a lenire il suo dolore agendo per evitarne un altro. Analogamente, proprio la presenza di Bonconte a Napoli può far pensare ad un intervento militare diretto verso Oriente di Federico, che avrebbe agito attraverso lo stesso Bonconte.
Questa teoria ha però dei problemi. Da un lato l’età di Bessarione, incompatibile nel 1459 con il giovane barbuto e oltretutto privo del cappello cardinalizio. Analogamente i rapporti tra Bacci e Bessarione non sono certi, e la stessa figura del mercante, anche se importante, non sembra essere arrivato a ruoli così prestigiosi nella curia romana. Infine non sarebbe comprensibile la comunanza tra la postura di Cristo e Bonconte, oltre che la comunanza tra le due occasioni luttuose.
Un’ultima ipotesi sembra cercare di aggiustare il problema. Se il disegno sullo sfondo rimane compatibile con le vicende storiche, il proscenio troverebbe altri personaggi. Il contesto sarebbe quello presente mantovano, ma rappresentato guardando al passato, come ricordando agli interlocutori il parallelo tra il concilio mantovano e i suoi precedenti. Da un lato la figura di Bessarione sarebbe da collocare nel medesimo personaggio, il quale però sarebbe figurato con i suoi caratteri giovanili, quelli che egli aveva come giovane studioso all’epoca del concilio ferrarese.

Di fronte a lui, riconoscibile confrontando suoi ritratti miniati, disegni di Pisanello, medaglie coeve e soprattutto con una Madonna con il Bambino e Lionello d’Este di Jacopo Bellini, si troverebbe Niccolò III, il duca d’Este, coinvolto qui come padrone di casa del concilio e propugnatore della politica filobizantina, che avrebbe trasmesso ai suoi figli, soprattutto a Lionello stesso, con cui condivide la moda dei broccati. Al centro, infine, la spiegazione si troverebbe invece nei caratteri del giovane. Se la postura richiamerebbe quella di Cristo e quindi i tormenti che egli stesso soffrirebbe, tre dati portano in un’unica direzione. Il giovane biondo è rappresentato frontalmente, richiamando un principio di ieraticità caro alle rappresentazioni ufficiali degli imperatori bizantini, anche nelle incoronazioni celesti. Il giovane indossa poi una lunga veste rossa purpurea, un connotato che, dialogando con la veste similare di Giovanni VIII, richiamerebbe il colore simbolo e identificante del potere imperiale, da Augusto agli ultimi Paleologi, e che lo riconosce come Porfirogenito. Infine i piedi scalzi. Se normalmente esso identifica sicuramente un defunto, in questo caso il riferimento sarebbe ancora Giovanni VIII. Come imperatore egli indossa uno degli elementi simbolo del potere degli imperatori, specie nel periodo terminale.
Questo è la coppia di stivaletti rossi che identificavano l’imperatore e che egli portava in tutti i momenti ufficiali, oltre ad essere l’unico autorizzato a portarli. Chi sarebbe quindi il giovane? Egli si identificherebbe con Tommaso Paleologo, ultimo figlio di Manuele II e despota in Morea fino alla fine, rifugiatosi in occidente e riconosciuto solo formalmente come successore del fratello Costantino alla porpora imperiale, figurato anch’egli come era nel 1437. Una porpora che avrebbe potuto ottenere proprio con il risultato crociato del Concilio mantovano. Una volontà comune con il sultano, anch’egli principe rappresentato scalzo. Il riferimento al Concilio ferrarese sarebbe dimostrato anche dall’ambientazione di destra. Da un lato infatti le architetture richiamano scenografie inserite in opere d’arte di ambito ferrarese, dalle tarsie dei cori alle pale di Francesco del Cossa. Dall’altro la fisionomia della torre sembra richiamare i tratti della torre campanaria del duomo di San Giorgio proprio a Ferrara, opera di Leon Battista Alberti e dipinta più come doveva presentarsi nei progetti dell’architetto fiorentino che per come si presenta oggi.

Chi furono quindi il committente e il destinatario di quest’opera? Se il committente rimane ignoto, si può ipotizzare l’uso e il significato. La tavola, di piccole dimensioni e dipinta con una tecnica particolare, che le garantiva maggior leggerezza, doveva essere non tanto un quadro da camera quanto un quadro da viaggio, inserito in una custodia. Sarebbe quindi pensato proprio per essere trasportato a Mantova, trasformando qui, come un auspicio in figura, le idee di Bessarione. L’idea di una concordanza tra i principi italiani che, uniti nuovamente anche ai greci ortodossi, avrebbero potuto portare aiuto a Bisanzio e alla Chiesa d’Oriente. L’opera quindi non sarebbe stata pensata o diretta al duca di Urbino. Federico infatti ne sarebbe venuto in possesso probabilmente nel 1472, quando, per proteggere la sua corposa biblioteca dalla rapacità della curia romana e per avere un fedele sostenitore a protezione della sua eredità, Bessarione avrebbe lasciato la medesima biblioteca e molti dei suoi beni proprio a Federico, a cui era legato da amicizia e da comuni interessi filosofici, affinché potesse custodirle e garantisse, più dei suoi esecutori testamentari, la loro trasferta corretta e sicura alla loro sede finale, Venezia e la nascente Biblioteca Marciana.

Il duca poi l’avrebbe donata alla cattedrale, forse perché inclusa dall’amico prelato in una stauroteca, un grande contenitore di reliquie.
Una storia contorta, quella della Flagellazione. Una vicenda che ancora oggi ha molti punti oscuri e dove quelli chiari sono sfumati e poco stabili. Un’opera che racconta un tempo passato, di principi e prelati, di concili e di crociate, un passato che però non è misterioso o criptico per sua volontà, ma perché basato su idee diverse dalle nostre. Un principio che però è sempre positivo, perché allena la sana e accurata curiosità. Una ricerca e uno studio che ben si ambientano nel palazzo a forma di città, nella città del Rinascimento, e nella mente del suo ideatore e oggi custode, Federico da Montefeltro.