I contesti di guerra possono dar vita a diversi stati emotivi legati agli avvenimenti vissuti. Sia i soldati al fronte sia le famiglie e i civili in patria sono sempre soggetti alle emozioni che nascono di fronte ad un evento così imponente come quello bellico. Uno degli accadimenti più rilevanti e capace di produrre emozioni a cui si va in contro è l’arruolamento, volontario o meno. Disperazione e paura, così come gioia e senso del dovere, toccano i cuori di chi prende parte al conflitto. I sentimenti negativi come la paura, la tristezza e i timori colpiscono principalmente le persone che vengono “strappate” forzatamente dalla propria vita, dalla propria terra, dai propri affetti venendo inviati al fronte in maniera improvvisa. Attraverso i canti dei soldati al fronte, possiamo carpire le sensazioni provate dagli uomini del Regio Esercito italiano in prima linea durante la Prima Guerra Mondiale.

Nel momento in cui si arrivava al fronte, nelle trincee, i soldati prendevano parte ad una routine scandita dall’esecuzione dei singoli ordini, che siano quelli di un assalto verso i nemici, della difesa della posizione dagli attacchi altrui o anche di un turno di guardia, che spesso avveniva di notte, in un clima ostile come quello dell’inverno di montagna. Le giornate si ripetevano, i timori per la propria vita restavano sempre presenti e aumentava ogni volta che il sole dava inizio a un nuovo mattino. Eppure, in qualche modo bisognava farsi forza e superare le difficoltà e i timori, compresi i momenti “morti”, in cui un soldato era in trincea, senza nessun compito da svolgere, in attesa. È qui che entra in gioco un elemento che si è rivelato essenziale per sopravvivere alle lunghe giornate spaventose segnate dalla guerra, ovvero il canto.
Questo fenomeno è dilagato fortemente lungo tutto il fronte italiano tra le truppe del Regio Esercito. Diverse sono le raccolte di materiale sul folklore e sui canti al fronte durante la Grande Guerra anche se, come ricordano Dei e de Simonis, “limitato invece è il numero degli studi specialistici […] alla dimensione musicale.”
Il canto al fronte era frutto di un’evoluzione del canto popolare. Fortemente presente nella tradizione contadina di tutta la popolazione italiana, il canto popolare accompagnava il lavoro nei campi (ricordiamo che la gran parte degli italiani che presero parte al conflitto erano di provenienza contadina), diventando poi compagno fedele nelle lunghe giornate passate in trincea, come a fissare un parallelismo simbolico tra il lavoro agricolo il lavoro al fronte. Alcuni studiosi avviarono un’analisi del processo popolare del canto e delle sue conseguenze sui soldati. Fra questi, padre Agostino Gemelli vide nei canti dei “documenti utili a determinare quale fosse il contenuto della vita psichica del soldato”. Lungo la stessa prospettiva si muove anche Piero Jahier:
«Ufficiale al fronte che aveva osservato con attenzione i suoi alpini mentre cantavano, mentre copiavano alla meglio le parole dei canti e se le passavano “come una lettera alla morosa”. Suo scopo principale era quello di educarli “fino ai canti dei popoli liberi che danno la coscienza di questa guerra”.»

Un’altra personalità che studiò i canti di guerra italiani fu Arturo Marpicati, volontario di guerra e futuro vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, il quale redasse un filone dei canti, basato sul contesto di “formazione del soldato”: distacco da casa, caserma, trincea, battaglia. Diversi erano i canti, diverse le chiavi di lettura proposte da chi li studiò, così come fu diverso anche il modo in cui gli Alti Ufficiali e i membri dello Stato Maggiore li consideravano. Quest’ultimi capirono il valore e le capacità di coesione che i canti avrebbero potuto produrre nei soldati e perciò il primo settembre del 1918:
“[…] è il Comando della III Armata a richiedere pubblicamente un inno che doveva «avere forma e struttura semplicissima quale conveniva ad un canto popolare destinato all’esecuzione corale». «Occorre […] che le reclute sappiano a memoria gli inni della patria. Gli ufficiali del deposito del 94° fanteria, hanno avuto la felicissima idea di tenere addirittura ogni giorno un’ora di canto patriottico ai loro soldati». Occorre […] «sviluppare nel soldato l’amore per il canto onesto; ristabilire quel gusto per il canto corale che tanta parte ha avuto nelle guerre dell’Indipendenza nazionale […]».”
Evidente fu la volontà di “cavalcare il fenomeno” del canto che ogni giorno prendeva sempre più piede tra gli uomini al fronte. Questi tentativi “imposti” dall’alto, però, si frantumarono ben presto. Tutti i canti imposti dagli Ufficiali, o quanto meno la maggior parte, non attecchirono nello spirito delle truppe e morivano ancor prima di nascere. I canti venivano considerati “pubblici”, provenienti dal basso e appartenenti ad un’autorialità comune. “L’artista è tutto insieme il popolo”. Emblematico fu l’esempio di un fante che:
“Intonò in sordina «Quanto è bello far l’amore». Fu un richiamo alla vita: dubbio e stanchezza scomparvero: fummo tutti odio e ira – era il nostro amore che difendevamo – e scattammo, feriti, laceri, affamati come eravamo. E vincemmo.”
Tuttavia, il ruolo catartico del canto può esulare completamente dal contesto bellico, conferendo unità di gruppo e rinvigorendo sentimenti di sopravvivenza alle ostilità anche in altre situazioni. Siccome il territorio italiano trovò la sua unità nazionale nel 1861, al tempo dell’entrata in guerra lo Stato-Nazione “aveva solamente” 54 anni di vita, e i suoi cittadini non avevano ancora sperimentato concretamente una situazione di reciproca aggregazione. Per questo motivo, la lingua italiana, ancora scarsamente nota e poco utilizzata per le comunicazioni orali, fu uno scoglio “difficile” da superare. Espressioni e linguaggi dialettali, legati al luogo di provenienza, andavano a formare varianti creole parlate nelle trincee. Sardi con lombardi, napoletani con veneti e così via andarono a creare un’eterogeneità di lingua estremamente rilevante. Se da una parte nasceva un problema di comunicazione e di comando, dall’altra quest’accorpamento diede un forte slancio verso la coesione e la nascita di una lingua comune.
“In quella guerra di cento anni fa, non nacque solo un ricco e importante canzoniere nazionale ma anche l’Italia moderna, poiché, come stato ampiamente dimostrato e documentato dagli storici della lingua, primo fra tutti Tullio de Mauro, l’esperienza inedita di un esercito di massa formato in prevalenza da contadini dialettofoni e illetterati, buttati all’improvviso nella fornace di un conflitto di lunga durata, determino e impose, in una situazione di emergenza estrema, la creazione di un codice di comunicazione comune, che fu l’italiano popolare.”

Ci si trovò per la prima volta a dover condividere con individui di diversa provenienza non solo il cibo, gli oggetti, lo spazio “abitativo” e il tempo quotidiano ma anche il linguaggio, nel tentativo di un incontro con l’altro che passò per la prima volta dalla comunicazione e dalla reciproca comprensione. Oltre alla ricerca di una lingua comune, anche il canto rappresentò un fattore di condivisione importante. Ognuno portava da “casa propria” i motivi da intonare, il proprio dialetto, tematiche da affrontare. Tuttavia, persistette anche il tentativo di mantenere inalterata l’identità di provenienza e separate le diverse appartenenze trasmettendo piuttosto sentimenti di vicinanza a casa e di calore che i canti della propria terra, intonati nella propria lingua, riuscivano ancora a suscitare. Eppure, la vicinanza con persone diverse, seppur sempre connazionali, fu il preludio di una contaminazione linguistica e di una ibridazione culturale che fu sempre più declinata in senso nazionalista.
“Ognuno canta preferibilmente i canti della sua terra ma la condizione militare determina inevitabilmente situazioni di incontro tra diversità.”
L’esempio forse più lampante a sostegno di questa tesi è quello della canzone “O surdato ‘nnammurato”, la quale diventò quasi un inno non ufficiale dei soldati. Lo stesso musicologo Caravaglios disse che non ci fu soldato italiano che non avesse almeno una volta, anche solamente sospirato, questo brano o anche solo il suo ritornello.
Un altro esempio d’inno non ufficiale molto diffuso e utilizzato ancora oggi come musica durante le celebrazioni in memoria dei soldati caduti è “La leggenda del Piave”, composta ancora una volta da un napoletano. Esempi come questo mostrano fino a che punto il diffondersi di melodie iconiche esprimesse il desiderio di conferire un linguaggio aulico e un valore corale alla poesia cantata. La musica diventa così la vera protagonista all’interno delle trincee italiane andando a coinvolgere tutti i soldati costretti a vivere negli spazi angusti del fronte. In patria l’entrata in guerra fu occasione di fama per cantori e artisti che, a fianco dei cantastorie, si fecero portavoce degli umori dell’esercito al fronte.
“Per un povero cantore di strada come il Sor Capanna (Pietro Capanna) […], l’entrata in guerra dell’Italia fornì un’occasione straordinaria alla sua vena satirica di intrattenitore da osteria, conferendogli fama nazionale sul fronte dell’umorismo popolaresco, «ridendo e facendo ridere alle spalle degli uni e degli altri, in chiave grottesca, talvolta con tale insorgenza del reale, azzeccatissimo, da sconfinare nel surreale».”

La satira fu un elemento molto utilizzato all’interno dei canti e dei racconti musicali che spopolavano al fronte e in patria. Essi prendevano di mira non solamente i nemici (iconici i nomignoli dati agli Imperatori Francesco Giuseppe I e Guglielmo II, rispettivamente sovrani dell’Austria-Ungheria e della Germania imperiale, come Cecco/Checco Beppe e Guglielmone), ma anche i Generali, le alte cariche dello Stato Maggiore, spesso anche con toni estremamente polemici, ritenendoli responsabili di una guerra non richiesta. Opere come “Addio padre”, utilizzata dalla metà dell’Ottocento alla fine della Seconda Guerra Mondiale, diventarono un grido corale verso la miseria e la sofferenza della guerra che strappa i figli alle famiglie.
Insieme alla satira, venivano raccontate anche la miseria e la disperazione prodotte dal conflitto, riportandone i più tragici dettagli. Diversi furono i canti e le poesie che raccontavano gli eventi della presa di Gorizia (Sesta battaglia dell’Isonzo, 6-17 agosto 1916) in cui oltre 50 000 uomini persero la vita. Canti come “O Gorizia tu sei Maledetta” (conosciuta anche come Gorizia) esprimevano il forte sentimento di tristezza per le innumerevoli perdite, trasformandosi di lì a poco in riluttanza nei confronti della guerra.
“O Gorizia tu sei maledetta / per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza / e il ritorno per molti non fu…”

Da segnalare che l’azione di alcuni interventisti fu incentrata sull’esigenza di modificare in chiave patriottica questi sentimenti di avversione emergenti:
“Benito Mussolini nel suo diario di guerra, dal Fronte dell’Isonzo il 15 dicembre 1916 (perciò quattro mesi dopo la conquista della città) registra «la strofa di una canzone in voga fra noi», che rovescia la maledizione in senso patriottico:
O Gorizia, tu sei la più bella / e il tuo nome risuona lontano; or sei passata al dominio italiano, / sarai protetta dal nostro valor!
Come mostrato, il tema della canzone al fronte assunse diverse sfaccettature in base al proprio ideale di partenza, nel confronto con l’esperienza reale vissuta dai soldati. Per questo motivo le canzoni e i loro argomenti si diffusero notevolmente. Repulsione verso la guerra, propaganda, unione delle truppe, celebrazione epico-lirica si infiltrarono all’interno delle trincee, come acqua nel terreno.
Il canto, oltre a svolgere la funzione di rimedio alla malinconia, al timore della morte in azione e alla noia, assunse anche il compito di “silenziatore”. Esso copriva il rumore, spesso incessante e assordante delle armi in continua azione. Diverse sono le espressioni onomatopeiche come “Bim, bum, boom, bam” presenti in alcuni testi di alcuni canti, seguiti da “Pim, pum, pem, pam” che andavano, in ordine, a simulare il rumore dei cannoni e dei fucili alleati o nemici e a coprirli durante l’esecuzione del canto:
“[…] Eppure non solo i soldati cantavano tanto, ma talvolta quel loro canto riusciva a interrompere come per magia il fragore delle armi.”
“Canta che ti passa!”; questa era la frase che molto spesso aleggiava lungo le trincee, tra le schiere di soldati terrorizzati dalle fragorose esplosioni che in un istante avrebbero potuto spegnere diverse vite. I cori avviati da un singolo individuo venivano assecondati da chi era vicino a lui e così via, lungo l’intera linea del fuoco. Essi diventarono un antidoto al veleno delle armi.
“Il bisogno di musica appare comunque qualcosa di comune a tutti i soldati combattenti, a qualunque esercito appartenessero.”
La necessità di produrre musica diventò talmente tanto impellente che i soldati fabbricavano strumenti fai-da-te, con mezzi rudimentali e materiale di riciclo come barattoli, latte da petrolio, cassette di legno, spago e così via. Non importava che il suono fosse “dolce”/“professionale” o “stridulo”/“sporco”, ma che esso accompagnasse i canti, scandendo così i diversi momenti della giornata.

Tutto ciò fu possibile poiché tra le fila del Regio Esercito v’erano appassionati di musica, direttori d’orchestra o di banda, aspiranti o esperti musicisti, tutti individui che fecero nascere un movimento musicale parallelo a quello “ufficiale” delle bande militari. Salta all’occhio quanto i sentimenti di unione e la necessità di farsi forza siano condizionati dalla produzione musicale, al quale gli uomini impegnati al fronte sono da sempre state legate, racchiuse in uno scenario drammatico come quello della guerra. I vari canti pacifisti, antimilitaristi e in generale contro la guerra non erano certamente visti in maniera positiva dalle alte sfere di comando del Regio Esercito italiano. Aldo Cazzullo ne “La guerra dei nostri nonni” identifica un episodio che conferma tale astio verso i canti non accettati dal comando:
“Un civile viene sorpreso a cantare una canzone di trincea «Il General Cadorna ha scritto alla regina / se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina» Sei mesi di reclusione.”
Ancora oggi queste canzoni alimentano i ricordi del popolo italiano. Diverse sono le canzoni italiane, composte dopo il 1945, che raccontano uno o più aspetti della guerra (Prima o Seconda che sia), mostrando come i due Conflitti Mondiali abbiano lasciato un marchio indelebile sul sentimento nazionale del Paese. Nel corso del Secondo Novecento, canzoni quali “Generale” di Francesco De Gregori, “La guerra di Piero” di Fabrizio De André, “Sciur capitan” di Davide Van De Sfroos e diverse altre opere testimoniano in particolare la volontà di attingere dal linguaggio del passato per rinsaldare nel presente il valore della pace e il ripudio verso la guerra.
Per saperne di più:
- A. Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Mondadori, Milano, 2018
- F. Dei, P. de Simonis, Lares Vol. 78, No. 3 (Settembre-Dicembre 2012), Folklore di Guerra: l’Antropologia italiana e il Primo Conflitto Mondiale, pp. 401-432 (32 pages), Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
- F. Castelli, E. Jona, A. Lovatto, Al rombo del cannon. Grande Guerra e canto popolare, Neri Pozza editore, Vicenza, 2018.