È il 13 ottobre 1815. Nel cortile del castello aragonese della cittadina di Pizzo Calabro si stanno consumando gli ultimi istanti di vita di un condannato a morte che dopo avere ricevuto gli ultimi conforti religiosi si avvia ad affrontare il plotone d’esecuzione. Potrebbe sembrare la descrizione di una banale, per quanto tragica, formalità prevista dalla giustizia borbonica se non fosse per l’identità del prigioniero in questione. Quell’uomo infatti è nientemeno che Joachim – conosciuto anche come Gioacchino – Murat, sfortunato cognato dell’ormai ex Imperatore dei Francesi Napoleone Bonaparte e a sua volta ex Re di Napoli. Chissà se, un attimo prima di crollare crivellato dalle pallottole, il nostro abbia avuto modo di ripercorre in una sorta di flashback la sua sfolgorante carriera che da figlio ribelle di un albergatore di provincia lo vide diventare dapprima ufficiale, poi Maresciallo di Francia e infine addirittura Re.

François Gérard del 1808 circa.
Tutto ebbe inizio il 25 marzo 1767, nel minuscolo villaggio di Labastide-Fortunière – che a metà del XIX secolo, durante il Secondo Impero venne rinominato Labastide-Murat in onore dell’illustre concittadino – situato nella regione dell’Occitania, nella Francia sudoccidentale. Quel giorno in quello sperduto borgo di provincia Jeanne Loubières, moglie dell’oste Pierre Murat Jordy diede alla luce il suo undicesimo figlio, battezzato col nome di Joachim.
Essendo l’ultimogenito i genitori nel 1785 lo inviarono presso il seminario dei lazzaristi a Tolosa, pensando di farne un prete. Ma si sbagliavano di grosso. Joachim dimostrò infatti un carattere indocile e ribelle oltre che una propensione per le belle ragazze. Espulso dal seminario dopo appena due anni, per non incorrere nelle ire paterne preferì ripiegare sulla carriera militare arruolandosi nei Cacciatori delle Ardenne per poi passare quasi subito nel 12° reggimento dei Cacciatori a cavallo della Champagne, un’unità composta da uomini particolarmente audaci all’interno della quale, grazie alle sue doti di coraggio e sprezzo del pericolo nonché all’istruzione ricevuta ottenne la nomina a sergente.
Joachim però finì presto nuovamente nei guai. Due anni dopo, nel fatale 1789, il reggimento, di stanza nella provincia di Sélestat, si ammutinò rifiutandosi di obbedire agli ordini di un ufficiale e, in seguito ad un indagine interna, Murat venne identificato come l’ispiratore della rivolta avendo svolto propaganda filo-rivoluzionaria fra i commilitoni distribuendo opuscoli e giornali. Posto in congedo illimitato, Joachim fu costretto a fare ritorno al villaggio natio con la coda fra le gambe ma suo padre Pierre, ancora deluso per la sua naufragata carriera ecclesiastica, rifiutò di riaccogliere questo “figliol prodigo” in casa. Il ragazzo fu così costretto a spostarsi nel paese limitrofo di Saint-Céré, dove trovò impiego come cameriere presso la locale drogheria.

Tuttavia lo stipendio era miserabile e non gli consentiva di sbarcare il lunario ragion per cui l’ex seminarista ventitreenne decise di tentare di arruolarsi nuovamente nell’esercito. La sua domanda fu accolta e nel gennaio 1791 venne reintegrato nei ranghi sia pure come soldato semplice. L’anno successivo fu ammesso nella guardia costituzionale di Luigi XVI, voluta dall’Assemblea legislativa per difendere – ma soprattutto per sorvegliare – il sovrano.
Murat aveva chiesto di essere ammesso nella Guardia poiché si trattava di un reparto d’élite con base nella capitale, ma presto si rese conto che l’ambiente non gli si confaceva, essendo comandato da ufficiali di tendenze prevalentemente filo-monarchiche. Così, dopo appena un mese di servizio Joachim diede le dimissioni. Fu allora che il giovane venne segretamente contattato dal colonnello realista Descours, il quale, colpito dalle sue doti militari, gli offrì ben 40 luigi d’oro in cambio del suo arruolamento tra le file dell’armata controrivoluzionaria che andava formandosi al di là dei confini francesi. Joachim non solo rifiutò ma anzi denunciò il tradimento di Descours.
Mentre la Guardia costituzionale veniva sciolta per decreto dell’Assemblea Nazionale alla fine di maggio del 1792, Murat ottenne il trasferimento al suo vecchio reggimento. Intanto, a settembre, venne proclamata la nascita della Prima Repubblica francese. La carriera di Murat, ardente sostenitore della Rivoluzione, conobbe nel frattempo una rapida accelerazione: nell’ottobre del 1792 divenne luogotenente mentre nel 1793 venne promosso capitano e successivamente comandante di squadrone.

Superata la turbolenta fase della Rivoluzione dominata dal Comitato di Salute Pubblica e dalla dittatura di Robespierre, culminata nel sanguinoso “Regime del Terrore” e terminata con l’arresto la decapitazione del leader giacobino e di decine di suoi sostenitori, nel 1795 ritroviamo il ventottenne Joachim a Parigi dove il 5 ottobre 1795 – 13 vendemmiaio anno IV secondo il calendario rivoluzionario – i partigiani dell’ormai decaduta monarchia borbonica tentarono un’insurrezione. In quell’occasione Murat fece la conoscenza di un ufficiale di origine corsa poco più giovane di lui, Napoleone Bonaparte, già messosi in luce per il ruolo avuto nella riconquista di Tolone del 1793.
Ricevuto il comando della piazza di Parigi dal Direttorio – il nuovo governo instauratosi dopo la caduta di Robespierre – Bonaparte stroncò l’insurrezione realista a suon di cannonate. Fu proprio Joachim, alla testa di uno squadrone di cavalleria, a prelevare quei quaranta pezzi d’artiglieria dal camp des Sablons e che furono poi piazzati su ordine di Napoleone alle estremità di tutte le strade che portavano al Palazzo delle Tuileries, sede della Convenzione, circondato dagli insorti monarchici. L’audacia e la prontezza nell’esecuzione degli ordini dimostrate da Murat in quel difficile frangente gli fruttarono la promozione a colonnello oltre, che, cosa ancor più prezioso per lo sviluppo della sua futura carriera, la fiducia di Napoleone.

Da quel momento infatti la fortuna di Joachim sarebbe stata legata a quella di Bonaparte: nel 1796, in qualità di aiutante di campo, seguì il ventisettenne generale corso durante la sua prima campagna d’Italia, terminata con la firma dell’armistizio di Leoben, il 17 aprile 1797. Poco meno di due mesi dopo, il 14 giugno 1797, presso il castello di Mombello, alle porte di Milano, il trentenne Joachim conobbe la quindicenne Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone, giunta in Lombardia dalla Francia per assistere alle nozze delle sorelle maggiori Elisa e Paolina. La ragazza si invaghì del bell’ufficiale di cavalleria il quale del resto aveva fama di inguaribile seduttore. Tuttavia Napoleone almeno per il momento rifiutò categoricamente di considerare Joachim come un valido pretendente alla mano della sorella minore.
Le cose sarebbero cambiate di lì a qualche anno: nel maggio 1798 Napoleone partì per la campagna d’Egitto. Ancora una volta Murat seguì il suo comandante nella terra dei Faraoni dove diede ancora una volta prova del suo coraggio e della sua abilità di cavallerizzo alla battaglia di Abukir, combattuta il 25 luglio 1799, nella quale le truppe francesi sbaragliarono le forze mamelucche. Nonostante i successi sul campo, preoccupato tuttavia delle terribili notizie che giungevano dall’Europa – l’esercito francese in ripiegamento su tutti i fronti a causa della pressione austro-russa, il Direttorio ormai privo di potere in Francia – e consapevole che la campagna d’Egitto non aveva conseguito i fini sperati, Napoleone, lasciato il comando al generale Kléber, s’imbarcò in gran segreto il 22 agosto alla volta della Francia.

Al suo rientro in patria Bonaparte ricevette un’accoglienza trionfale. Forte del sostegno popolare, il generale corso iniziò a tramare per rovesciare il Direttorio e prendere il potere. Il piano golpista scattò il 18 brumaio anno VIII – 9 novembre 1799 – e vide l’attiva partecipazione di Murat, il quale, assieme al generale Leclerc irruppe nella sala del Consiglio dei Cinquecento alla testa di un reparto di granatieri. Una volta divenuto Primo Console Napoleone ricompensò la fedeltà di Joachim nominandolo comandante della sua guardia personale e concedendo finalmente il suo assenso alla sue nozze con Carolina. Il matrimonio, celebrato il 20 gennaio 1800 a Mortefontaine, fu allietato dalla nascita di quattro figli, due maschi, Napoleone Achille e Napoleone Luciano Carlo, e due femmine, Letizia e Luisa Giulia.
Entrato nel clan Bonaparte, la carriera di Murat non conobbe più ostacoli e gli anni successivi lo videro accumulare sempre più cariche e onori. Nell’aprile 1800, in vista d’una seconda campagna d’Italia, fu nominato luogotenente generale e comandante della cavalleria. Partecipò poi alla celeberrima battaglia di Marengo, combattuta il 14 giugno 1800 e vinta dai francesi anche grazie al valore delle sue truppe montate. Tornato in patria Joachim venne dapprima eletto deputato in rappresentanza del dipartimento del Lot, nel quale si trovava il suo paese natale, per poi essere nominato governatore di Parigi e comandante della guardia nazionale, trovandosi così con 60 mila uomini ai suoi ordini.
Poi, come tutti sappiamo, il 18 maggio 1804 il Primo Console Bonaparte si proclamò Napoleone I Imperatore dei Francesi. Il giorno successivo Murat, assieme ad altri diciotto ufficiali generali, venne creato “Maresciallo dell’Impero” e in questa veste partecipò alla sfarzosa incoronazione del cognato tenutasi il 2 dicembre 1804 in Notre-Dame a Parigi. Negli anni seguenti Murat continuò a partecipare alle campagne napoleoniche. Grande soldato e comandante di cavalleria, Joachim era in effetti un combattente nato, un uomo sprezzante del pericolo, sempre pronto ad attaccare anche quando la situazione era rischiosa e pericolosa. Sulla lama della sua sciabola aveva fatto incidere il motto «L’onore e le donne».

Più volte le cariche travolgenti della sua cavalleria avevano risolto a favore dei francesi una situazione critica, come successe nella battaglia di Eylau combattuta l’8 febbraio 1807 contro i russi. Tuttavia Joachim dimostrò a più riprese di possedere più fegato che cervello e quando non seguiva le istruzioni minuziose il suo imperiale cognato gli dava finiva spesso per combinare guai. A tal proposito il generale Savary, riferendosi al comportamento di Joachim durante la battaglia di Heilburg (10 luglio 1807) commentò amaramente «sarebbe stato meglio che fosse dotato di meno coraggio e di un po’ più di buon senso!». In particolare si possono citare due episodi, entrambi avvenuti durante la campagna del 1805, nelle settimane trascorse tra le battaglie di Ulma e di Austerlitz, che bene evidenziano tanto la sagacia quanto il velleitarismo che contraddistinguevano il carattere di Murat.

Il primo risale al 12 novembre 1805: Murat, assieme al collega, il Maresciallo Jean Lannes, giunse in vista di Vienna, dichiarata dagli austriaci “città aperta”, e si accinse ad attraversare l’ultimo ponte sul Danubio che non ancora non era stato fatto brillare dai genieri austriaci. Non potendo prendere il ponte d’assalto, nel timore che gli artificieri nemici facessero brillare le mine già piazzate, i due comandanti francesi, accompagnati dal loro intero stato maggiore, si presentarono sulla riva meridionale del Danubio in grande uniforme da parata e cominciarono ad attraversare a piedi il ponte urlando “Armistizio, armistizio” e sfoggiando grandi sorrisi. Gli ufficiali austriaci che dirigevano le operazioni rimasero interdetti e non osarono far aprire il fuoco su quegli alti ufficiali francesi, apparentemente non più belligeranti. Fu allora che, attraversato il ponte e giunti sulla riva opposta Murat, Lannes e il loro seguito abbandonarono i sorrisi e, sfoderate le sciabole, si avventarono sugli artificieri più vicini neutralizzandoli. In quel momento una colonna di granatieri francesi del generale Nicolas Oudinot, che era rimasta celata nel bosco lungo la riva meridionale, attraversò a passo di carica il ponte e sopraffece facilmente il reparto di genieri austriaci.

Di lì a poco però Joachim la combinò grossa mandando su tutte le furie Napoleone. Il fattaccio avvenne circa una settimana prima della celebre battaglia di Austerlitz (2 dicembre 1805). Mentre la Grande Armee tentava di accerchiare l’esercito russo Murat venne convinto dal generale zarista von Wintzingerode ad accettare una tregua d’armi. Joachim stupidamente accettò pur non avendo nessun potere in tal senso consentendo così ai russi del generale Pëtr Ivanovič Bagration di sganciarsi dalla morsa. Nonostante lo scivolone nel 1806 Napoleone investì Joachim del titolo principesco di Granduca di di Clèves e di Berg e due anni dopo gli diede la grande possibilità di diventare addirittura Re.
Nella primavera del 1808 l’esercito francese invase la Spagna, detronizzando il debole sovrano Carlo IV di Borbone. Napoleone assegnò allora il trono di Madrid al fratello Giuseppe costringendolo a rinunciare a quello di Napoli che gli era toccato in sorte due anni prima a seguito della cacciata di Ferdinando IV di Borbone – fratello di Carlo di Spagna – costretto a riparare a Palermo assieme alla Regina Maria Carolina d’Austria e alla corte sotto la protezione della flotta britannica. Ecco che quindi, alla ricerca di un nuovo Re per Napoli, il 20 giugno 1808 l’Empereur mediante lo statuto di Baiona ne assegnò la corona a Joachim, peraltro distintosi nella brutale repressione della rivolta antifrancese di Madrid del 2 maggio precedente.
Murat e la moglie Carolina fecero il loro ingresso trionfale nel capoluogo partenopeo il 6 settembre 1808. La coppia reale divenne subito molto popolare tra i nuovi sudditi. I napoletani in particolare accolsero calorosamente questo nuovo sovrano inviato da Napoleone, apprezzandone immediatamente la bella presenza e il carattere sanguigno. Preso possesso del trono da cui avrebbe regnato col pomposo nome di “Gioacchino Napoleone”, Murat si mise subito al lavoro deciso a trasformare Napoli e il Mezzogiorno d’Italia similmente a quanto suo cognato stava facendo con Parigi e la Francia.
Tanto per cominciare, da buon soldato, pianificò uno sbarco per riconquistare l’isola di Capri, occupata fin dal 1805 da una guarnigione inglese. Dopodiché, posata la sciabola impugnò il piccone dell’urbanista dando inizio a una vasta campagna di lavori pubblici che furono coordinati dal Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade. Sotto la direzione di questa istituzione vennero realizzate opere pubbliche sia Napoli – il ponte della Sanità, via Posillipo, il Campo di Marte – che nel resto del Regno – l’illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, il progetto del Borgo Nuovo di Bari, l’istituzione dell’ospedale San Carlo di Potenza, l’ammodernamento della viabilità nelle montagne dell’Abruzzo – mentre gli scavi archeologici a Pompei ed Ercolano ricevettero un nuovo impulso.

Murat diede poi applicazione alla legge di eversione della feudalità, emanata sotto il governo di Giuseppe Bonaparte ma poi rimasta solo sulla carta. Attraverso questo provvedimento furono cancellate le ultime vestigia del feudalesimo in tutto il Mezzogiorno, favorendo la nascita di una moderna borghesia. Infine fu introdotto anche nel Reame napoletano il codice civile napoleonico che apportò significativi cambiamenti nel diritto di famiglia attraverso l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio. Ovviamente il nuovo corso non poteva non suscitare la viva opposizione del clero, peraltro già colpito da provvedimenti di esproprio e dalla soppressione di numerosi ordini religiosi. Inoltre fra il popolo non erano pochi che consideravano i francesi degli “anticristi” nemici della religione.
Nel tentativo di mettere a tacere l’opposizione al suo regime nella primavera del 1810 Re Gioacchino decise di tentare la conquista della Sicilia, di cui lo statuto di Baiona lo riconosceva quale legittimo sovrano. Del resto una delle prime riforme a cui Murat aveva messo mano era stata quella dell’esercito napoletano. Giunto a Scilla il 3 giugno vi restò sino al 5 luglio, quando fu completato un grande accampamento presso Piale, frazione di Villa San Giovanni (Reggio Calabria), dove il sovrano si stabilì con la corte e i ministri. Dopo aver fatto costruire i tre forti di Torre Cavallo, Altafiumara e Piale – quest’ultimo con torre telegrafica – Il 26 settembre, constatando che la conquista della Sicilia si stava dimostrando un’impresa troppo ardua, Murat ripartì per la capitale.

Nonostante il fiasco della spedizione in Sicilia avesse evidenziato i limiti di Murat come comandante in capo, due anni dopo Napoleone lo volle ancora alla testa della sua cavalleria – e accompagnato beninteso da un nutrito contingente di soldati napoletani – in quella che si sarebbe rivelata la più disastrosa delle sue campagne: l’invasione della Russia. Dopo che Napoleone fu costretto a rientrare precipitosamente a Parigi mentre il suo esercito si ritirava decimato dal gelo e dagli assalti dei cosacchi, le potenze europee risollevarono la testa decise a farla finita con Bonaparte una volta per tutte. Mentre l’impero napoleonico iniziava a mostrare i primi segni di disfacimento, Murat, consigliato dall’intelligente e ambiziosa consorte Carolina, allacciò i primi contatti con gli austriaci nel tentativo di conservare il suo trono.
Tuttavia qualche mese dopo la situazione parve volgere nuovamente a favore della Francia e Gioacchino tornò a schierarsi con il cognato. Napoleone infatti era nel frattempo riuscito a ricostruire un’armata composta da giovanissime reclute male addestrate, ma venne sconfitto nell’ottobre del 1813 a Lipsia in quella che venne ricordata come la “battaglia delle nazioni”. Di lì a qualche mese Parigi venne occupata e Napoleone fu costretto ad abdicare.

Murat a quel punto tradì il cognato passando ufficialmente dalla parte della coalizione antifrancese nel tentativo di scongiurare una restaurazione borbonica a Napoli e mantenere il trono. Inizialmente Austria, Russia e Inghilterra parvero appoggiare le pretese di Gioacchino al congresso di Vienna. Poi però gli equilibri mutarono. Il 1° marzo 1815 Napoleone fuggi dal suo regno-prigione dell’isola d’Elba e tornò al potere in Francia durante quelli che furono ricordati come i “Cento Giorni”.
Murat scrisse alle corti di Vienna e di Londra che era sua intenzione restare fedele all’alleanza con entrambe le potenze ma poi, vedendo che a Vienna i delegati ora sembravano essere maggiormente inclini ad appoggiare una restaurazione borbonica sui territori del suo regno, nel marzo del 1815 Murat diede inizio alla guerra austro-napoletana, invadendo lo Stato Pontificio alla testa di un esercito di 35 mila uomini. Giunto in Emilia, il 3 aprile sconfisse gli austriaci alla battaglia del Panaro ma presto l’esercito asburgico passò al contrattacco e il mese successivo Murat venne sbaragliato alla battaglia di Tolentino perdendo definitivamente il trono in favore di Ferdinando di Borbone. In quei giorni a Napoli, si sentì cantare “fra Macerata e Tolentino è finito ‘o Re Gioacchino”.

Intanto Murat, dopo la disfatta di Tolentino e dopo aver emesso il 12 maggio il famoso proclama di Rimini in cui si rivolse agli italiani invitandoli alla ribellione contro lo straniero – e che lo fece passare a posteriori come un precursore del Risorgimento – commise l’ennesimo errore. Invece di difendere il suo regno decise di spostarsi in Francia nel tentativo di raggiungere Napoleone che per tutta risposta gli ingiunse di stare lontano da Parigi. Dopo la disfatta di Waterloo Gioacchino fuggì rocambolescamente in Corsica. Qui, informato del malcontento anti-borbonico diffuso tra la popolazione del Regno di Napoli tentò di riprendersi il trono come già aveva fatto Napoleone fuggendo dall’Elba.
Così il 28 settembre 1815 Gioacchino salpò da Ajaccio con 250 compagni. Il piano prevedeva di sbarcare a Salerno ma una tempesta dirottò il gruppo sulle coste calabresi. L’8 ottobre Murat sbarcò nei dintorni di Pizzo ma a quel punto, tradito dal capo battaglione Courrand venne intercettato dai gendarmi borbonici che lo tradussero in prigione nel locale castello.

Processato per direttissima Gioacchino fu condannato a morte per fucilazione in forza di una legge da lui stesso emanata quando era Re. Prima dell’esecuzione scrisse una lettera a moglie e figli poi si confessò e ricevette la comunione. Condotto dinanzi ai soldati che dovevano fucilarlo dimostrò ancora una volta tutto il suo sangue freddo rifiutando di essere bendato e chiedendo di essere lui a impartire al plotone l’ordine di far fuoco. Pare che le sue ultime parole siano state: «Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!».
Il suo corpo fu inumato nella chiesa di San Giorgio a Pizzo Calabro, in una fossa comune. Una lapide sul pavimento al centro della navata ne ricorda la sepoltura. Napoleone durante il suo esilio di Sant’Elena espresse a proposito del cognato un giudizio lapidario: «Murat ha tentato di riconquistare con duecento uomini un Regno che non era riuscito a tenere quando ne aveva a disposizione ottantamila.».