Incas, i figli del Sole

Nel gennaio 1531 un plotone di duecento uomini con una decina di cavalli a bordo di tre navi salpò da Panama diretto verso le coste dell’America meridionale. A capo di questa spedizione vi era un ambizioso e spregiudicato cinquantaseienne, Francisco Pizarro. Egli sapeva che questa volta non avrebbe potuto fallire, dopo che una sua precedente spedizione del 1524 lungo le coste dell’attuale Ecuador si era rivelata infruttuosa: il conquistador e i suoi compagni non avevano trovato altro che giungle inaccessibili e paludi malsane costringendoli a fare marcia indietro.

Francisco Pizarro (1475-1541), conquistatore dell’Impero inca.

Ma don Francisco non era uomo da arrendersi facilmente di fronte alle difficoltà, lui che, figlio illegittimo, era stato costretto fin da ragazzo a guadagnarsi il pane facendo la guardia ai porci. Convinse così i suoi soci in affari Diego de Almagro e padre Hernando de Luque a pagare il suo viaggio fino in Spagna, dove giunse  nel 1528 con la ferma intenzione di farsi ricevere a Corte per ottenere l’avallo regale ad una nuova spedizione verso meridione, chiedendo in cambio la nomina a governatore di tutti i territori che lui e i suoi uomini fossero riusciti a sottomettere. Pizarro riuscì a convincere Carlo V, aiutato dal fatto che, dopo la fortunata spedizione di Cortes in Messico risalente a pochi anni prima, il sovrano era ben disposto a concedere il suo assenso, allettato dai grandi guadagni che avrebbe realizzato se la campagna avesse avuto esito favorevole. Pizarro quindi, con l’appoggio dei fratellastri, unitisi a lui senza esitazioni, poté reclutare in Spagna 250 masnadieri per la sua spedizione. Si trattava di gente poco raccomandabile, avanzi di galera, scarti dell’esercito e in generale di disperati senza alcuna prospettiva in patria e che per questo erano i soli a essere disposti a sfidare l’ignoto pur di migliorare la propria condizione.

La progressiva espansione dell’impero incaico.

Il materiale umano dunque era deteriore ma è con soldati senza scrupoli come questi che si costruiscono gli imperi. Le navi di Pizarro presero terra a Tùmbez, città situata nell’estremo nord dell’odierno Perù, già toccata dal conquistador nella sua precedente spedizione. Rispetto a qualche anno prima, però, l’insediamento versava in uno stato di profondo degrado, come del resto l’intero impero degli Incas, agitato in quegli anni da una cruenta guerra civile.

Gli incas, contro i quali si apprestava a muovere il condottiero spagnolo, erano una popolazione di lingua quechua stanziatasi nelle vallate andine dell’odierno Perù intorno alla metà del XIII secolo. Si trattava di fieri e combattivi montanari, signori di un vastissimo regno esteso approssimativamente su un’area di oltre 2 milioni di km2 compresa tra gli odierni stati di Perù, Ecuador, Cile e Bolivia occidentale. Fondatore di questa potente compagine statale era stato il leggendario sovrano Manco Capac. Il monarca, o Qhapaq Inca, era il padrone assoluto dell’impero, considerato la personificazione di Inti, il Sole, e pertanto adorato dai propri sudditi come una divinità. Risiedeva nel proprio lussuoso palazzo al centro di Cuzco, la capitale. In quanto di origine divina il sovrano era il solo uomo a poter portare monili d’oro, materiale avente valenza sacrale, in quanto considerato il sangue di Viracocha, il dio che secondo la mitologia incaica aveva creato gli uomini e il mondo intero.

Gli incas disponevano di conoscenze ingegneristiche assai avanzate che lasciano tuttora stupiti gli studiosi.

Tanto splendore si fondava sul duro e sfiancante lavoro dei contadini, i quali con fatica cercavano di trarre dalla terra mais e patate, base dell’alimentazione. Coltivare i campi a quasi 3000 metri di quota con strumenti primitivi costava un’enorme fatica, solo in parte alleviata dall’ausilio del mansueto e resistente lama, un camelide andino che gli inca avevano addomesticato e che impiegavano come animale da soma. Per ovviare alle asperità del terreno tipiche della cordigliera andina, gli agricoltori incaici avevano imparato a realizzare terrazze per ricavare terreno coltivabile sui pendii più scoscesi. Quella incaica era in effetti una civiltà che disponeva di avanzate conoscenze ingegneristiche. Lo dimostra la rete di strade monumentali che si inerpicavano per oltre 40 mila km tra le montagne, percorse da instancabili messaggeri che, di corsa, assicuravano i collegamenti tra Cuzco e ogni remoto angolo dell’impero. Oltre a ciò, consapevoli di abitare in una terra scossa da ripetuti terremoti, gli incas avevano imparato a costruire edifici “antisismici”, realizzando imponenti costruzioni con la tecnica del muro a secco. Le pietre sono state collocate con una perizia tale da lasciare sbalorditi ancora oggi per la loro solidità e resistenza alla sfida del tempo. Nonostante le difficoltà quindi, gli incas si erano perfettamente adattati al difficile ambiente in cui vivevano.

Ricostruzione di un villaggio di contadini incaici.

Tuttavia questo regno, un tempo tanto temibile, appariva ora debole e diviso. Nel 1525, dopo oltre trent’anni di regno, era morto l’ultimo grande sovrano dell’impero, Huayna Capac. La scomparsa dell’Inca è da attribuirsi con ogni probabilità al  vaiolo, malattia importata nel Nuovo Mondo dai colonizzatori europei alcuni decenni prima ed in seguito rapidamente diffusasi in tutto il continente americano. Dopo la morte di Huayna Capac i suoi due figli maggiori cominciarono subito a combattersi ferocemente per la successione al trono paterno, decretando la divisione dell’impero in due tronconi: a sud, nella capitale Cuzco, regnava Huáscar, figlio maggiore del defunto Huayna Capac, mentre a nord, nella città di Quito, si insediò suo fratello minore Atahualpa. Pizarro e Almagro, nel ricevere la notizia dello scontro fratricida nelle file degli inca, convennero opportuno inserirsi nella guerra civile offrendo il proprio supporto a uno dei due contendenti.

L’Inca (Imperatore) rappresentato mentre assieme ai sacerdoti e alla corte offre un sacrificio a Inti, il dio Sole.

Tuttavia quando gli spagnoli giunsero in Perù la contesa dinastica si era appena risolta a favore di Atahualpa. L’imperatore venne a sapere dello sbarco degli spagnoli e della loro progressiva avanzata all’interno del suo regno grazie alla sua collaudata rete di spie e informatori. Costoro riferirono all’Inca che il capo di questi strani invasori desiderava incontrarlo per rendergli omaggio. Non è chiaro perché Atahualpa si risolse ad acconsentire a quell’incontro. L’Inca era a capo di un numeroso e agguerrito esercito che con ogni probabilità avrebbe potuto spazzare via gli uomini di Pizarro se non altro in ragione dell’esiguità del loro numero. Il sovrano pensò forse, come a suo tempo aveva fatto Montezuma, che gli spagnoli fossero emissari divini? In effetti secondo una profezia analoga a quella azteca riguardante Quetzalcóatl, il dio Viracocha sarebbe dovuto tornare fra gli uomini arrivando da occidente a bordo di un’imbarcazione. Viracocha era immaginato con la barba e la pelle chiara, esattamente come quei forestieri, che guarda caso erano giunti proprio da ovest. L’incontro fra Atahualpa e Pizarro si tenne il 16 novembre 1532 nella cittadella di Cajamarca.

Viracocha, una delle maggiori divinità andine.

L’Inca apparve agli spagnoli su di una lussuosa portantina lasciando interdetti gli europei per la magnificenza e lo splendore dei gioielli e delle vesti del sovrano e dei nobili del suo seguito. Pizarro dal canto suo si presentò come l’ambasciatore di un grande Re a cui, aggiunse, Atahualpa e il suo popolo avrebbero dovuto sottomettersi. Poi si fece avanti un sacerdote al seguito degli spagnoli, padre Vicente de Valverde, il quale intimò ad un già piuttosto irritato Atahualpa di rinnegare la sua fede falsa e pagana per riconoscere la potenza del Dio cristiano. Il prete porse una Bibbia all’Imperatore, affermando che essa contenesse la parola del Signore. Atahualpa, il cui popolo non conosceva l’uso della scrittura, sfogliò il volume e poi se lo accostò all’orecchio, pensando di udire la voce di questo terribile dio straniero ma non sentendo nulla gettò irato la Bibbia per terra. Allora Pizarro, approfittando di questo atto blasfemo come scusa, diede ai suoi il segnale dell’assalto.

I conquistadores, che avevano circondato la piazza in cui si era svolto il vertice, accerchiarono gli incas facendo strage dei nobili che accompagnavano Atahualpa, i quali, disarmati, si strinsero intorno al loro imperatore per fargli scudo con i loro corpi. L’Inca fu invece risparmiato per espresso ordine di Pizarro e preso come ostaggio. Fintanto che fosse stato suo prigioniero il conquistador sapeva infatti di disporre di un formidabile strumento di pressione verso i nativi perché fino a quando Atahualpa  fosse stato nelle sue mani egli non avrebbe dovuto temere reazioni da parte degli incas. L’esercito che aveva accompagnato l’Inca a Cajamarca fuggì disordinatamente abbandonando il suo imperatore. Per i guerrieri inca infatti, se il loro capo cadeva o veniva fatto prigioniero la battaglia era considerata persa e i combattenti, presi dal panico, si disperdevano immediatamente.

16 novembre 1532: Pizarro coglie in un imboscata l’Inca Atahualpa durante un incontro diplomatico.

Il dover prendere atto di essere finito prigioniero degli invasori dopo essere stato abbandonato dai propri guerrieri con ogni probabilità gettò Atahualpa nella più profonda costernazione: lui, il Figlio del Sole, l’Inca Supremo, era ora in catene come un delinquente qualsiasi. Tuttavia, superata la prima fase di profondo scoramento, ben presto il sovrano cominciò a elaborare possibili piani per riguadagnare la propria libertà ed il trono. Avendo notato la cupidigia degli spagnoli e la loro spasmodica attrazione per l’oro, Atahualpa fece una proposta a Pizarro: avrebbe fatto riempire la stanza in cui era stato alloggiato di oro, argento e pietre preziose, mentre in cambio di quel faraonico riscatto il comandante spagnolo gli avrebbe reso la libertà.

La consegna del riscatto di Atahualpa da parte dei suoi sudditi.

Pur non riuscendo a credere alle proprie orecchie, il conquistador accettò l’offerta dell’imperatore prigioniero. Non solo, ma fece addirittura mettere nero su bianco il suo accordo con l’Inca, stipulando un regolare contratto di fronte ad un notaio. Atahualpa tuttavia ignorava che Pizarro non era per nulla intenzionato a rispettare i patti, in quanto lo spagnolo si rendeva perfettamente conto che fintanto che il sovrano fosse stato nelle sue mani egli non avrebbe dovuto temere alcunché dai suoi sudditi.

Atahualpa, dal canto suo, si ritenne soddisfatto delle assicurazioni fattegli dal suo carceriere e dunque inviò corrieri in tutto il suo regno affinché il popolo si mobilitasse per mettere assieme il tesoro necessario per riscattare il sovrano. Siccome per gli incas un “Figlio del Sole” non aveva prezzo, in breve decine di carovane di lama giunsero a Cajamarca stracolme di gioielli e altri manufatti sbalordendo i conquistadores. Nel frattempo, nei mesi in cui avveniva il pagamento del riscatto, Atahualpa, pur prigioniero, ricevette un trattamento degno del suo status regale: gli fu concessa una certa libertà di movimento, pur sotto l’occhio vigile dei soldati di Pizarro, il quale gli permise di seguitare ad occuparsi degli affari di stato e di godere della compagnia delle sue concubine.

Di tanto in tanto alcuni conquistadores si recavano in visita dall’Inca rimanendo stupiti dalla dignità e dalla fierezza del suo comportamento. Atahualpa aveva circa trent’anni e, secondo le descrizioni contenute nelle cronache riguardanti la conquista, doveva apparire come un uomo di corporatura robusta e dai lineamenti regolari. Dotato di una vivace intelligenza, nei mesi in cui fu ostaggio degli spagnoli, imparò da questi ultimi a giocare ai dadi e agli scacchi, oltre che a leggere e scrivere.

L’esecuzione di Atahualpa tramite garrota il 26 luglio 1533. Convertendosi al cristianesimo il sovrano aveva voluto evitare il rogo, considerato abominevole dagli incas.

L’oro per il riscatto dell’Inca venne puntualmente consegnato dopo alcuni mesi ma fu allora che Atahualpa capì di essere stato ingannato ancora una volta dai suoi carcerieri. Invece dell’agognata libertà ad attenderlo, nel luglio del 1533, vi era un processo farsa per tradimento al termine del quale l’imperatore degli incas fu dichiarato colpevole e condannato a morte. La sentenza sarebbe stata eseguita tramite rogo ma a quel punto padre Valverde persuase ancora una volta Atahualpa a convertirsi al cattolicesimo, dicendogli che qualora avesse accettato la conversione la sentenza capitale sarebbe stata eseguita tramite strangolamento. A quel punto Atahualpa accettò, possiamo immaginare con quale animo, il battesimo, con il quale ricevette il nome cristiano di Francisco. La decisione dell’Imperatore era dettata dal fatto che gli incas infatti aborrivano la distruzione del cadavere in quanto ritenevano che, privato del proprio corpo, il defunto non avrebbe più potuto ottenere l’immortalità dell’aldilà. Per una volta gli spagnoli furono di parola: dopo la cerimonia l’Inca fu giustiziato sulla garrota. Era il 26 luglio 1533 e assieme al sovrano quel giorno, di fatto, con lui di fatto morì anche il suo impero.

Manco II (1512-1544), in un disegno di Huaman Poma de Ayala.

Dopo aver assassinato Atahualpa gli spagnoli ritennero comunque opportuno collocare sul trono un nuovo monarca, il quale naturalmente sarebbe stato solo un docile strumento nelle loro mani per tenere sotto controllo il popolo. Fu così che, senza troppi ostacoli, Pizarro e i suoi poterono tranquillamente procedere all’occupazione di tutto l’impero, prendendo possesso dei principali centri di potere, a cominciare da Quito e Cuzco, la capitale. Sul trono che era stato di Atahualpa fu inizialmente collocato Tupac Huallpa, giovane fratellastro del defunto, il quale venne presto accusato da Pizarro di scarsa collaborazione se non addirittura di tradimento tanto che nell’ottobre del 1533 il giovane imperatore fantoccio fu arso sul rogo. A succedergli fu chiamato l’ennesimo esponente della numerosa progenie di Huayna Capac, un principe ventenne che assunse il nome di Manco Capac II.

Tuttavia ormai il vero padrone dell’impero era di fatto Pizarro, il quale aveva assunto le funzioni di governatore previste dall’accordo stipulato in Spagna nel 1528. Nello stesso tempo, ovunque andassero, gli spagnoli si comportavano da padroni, mostrando in maniera sempre più sfacciata tutta la loro arroganza e la loro prepotenza. Lo stesso Manco, di fatto prigioniero degli invasori europei, subì ripetute umiliazioni pubbliche da parte di quelli che poteva considerare a pieno titolo come i suoi guardiani. Va da sé che la sua autorità di sovrano ne uscì seriamente compromessa. Alla fine, ferito nell’orgoglio e conscio di essere l’ultimo esponente della casa regnante a poter reclamare legittimamente il titolo imperiale, Manco si ribellò ai suoi aguzzini, fuggendo con l’inganno da Cuzco il 18 aprile 1536.

Guerrieri inca.

Una volta libero il giovane sovrano prese contatto con i maggiorenti dell’impero, deciso a mettersi alla testa della ribellione del suo popolo contro gli odiati spagnoli. L’incontro fra l’imperatore e i notabili a lui fedeli si tenne a Lares, località situata ad alcune decine di chilometri dalla capitale Cuzco. Qui Manco, indossate le sontuose vesti imperiali, dichiarò solennemente guerra agli invasori europei. Tutti i nobili presenti giurarono solennemente di dedicare ogni sforzo nella guerra di liberazione anche a costo del sacrificio della propria vita. La promessa solenne fu suggellata da una bevuta collettiva di chicha, una bevanda inebriante ottenuta dalla fermentazione del mais. Hernando Pizarro, in quanto responsabile della custodia dell’Inca, quando fu informato dell’evasione di Manco ritenne opportuno correre immediatamente ai ripari per stroncare sul nascere ogni possibile gesto di ribellione degli indigeni ed evitare così anche la prevedibile collera di suo fratello Francisco. Hernando inviò suo fratello minore Juan alla testa di un contingente di settanta cavalieri che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto spazzare via ogni resistenza degli incas. Quando però giunsero a Calca, dove i ribelli erano stati avvistati, gli spagnoli si trovarono di fronte a uno spettacolo impressionante: tutta la vallata era brulicante di guerrieri!

La strategia degli insorti si basò sulla guerriglia e gli attacchi a sorpresa: furono così massacrati diversi contingenti di soldati spagnoli e numerosi coloni europei che vennero sorpresi isolati. Nel complesso gli incas si dimostrarono degli avversari molto più temibili per Pizarro di quanto non lo fossero stati gli aztechi per Cortes vent’anni prima. I guerrieri di Manco seppero innanzitutto sfruttare appieno le potenzialità difensive offerte dal loro impervio territorio fatto di vallate e pendii scoscesi, un teatro operativo nel quale la temibile cavalleria spagnola aveva poche possibilità di dispiegare le sue micidiali cariche.

Manco imparò a montare in sella dimostrando ai suoi guerrieri come non vi fosse nulla da temere dai cavalli.

Certamente anche gli incas, come già altri popoli amerindi erano stati inizialmente impressionati dalla vista dei cavalli, mai visti prima, ma impararono ben presto ad averne ragione, utilizzando ad esempio le bolas, armi da lancio formate da cordicelle di cuoio con dei pesi alle estremità già impiegate nel corso delle battute di caccia: una volta scagliate esse si intrecciavano fra le zampe delle cavalcature dei conquistadores , immobilizzandole e arrestandone la corsa. I resoconti inoltre riportano come lo stesso Manco avesse imparato a montare in sella al punto da presentarsi alla testa dei suoi guerrieri in groppa ad un cavallo catturato al nemico, dimostrando ai suoi guerrieri come non vi fosse nulla da temere da quelle strane creature.

L’esercito di Manco, forte di quasi duecentomila uomini, si accampò sulle colline che dominavano Cuzco, l’antica capitale imperiale, ribattezzata dagli europei Nuova Toledo, difesa da appena 200 spagnoli coadiuvati da un migliaio di ausiliari indigeni, membri di tribù ostili agli incas.

Juan Pizarro guida le sue truppe all’assalto della fortezza di Sacsayhuaman durante l’assedio di Cuzco.

L’offensiva contro la città ebbe inizio il 6 maggio 1536: gli insorti attaccarono simultaneamente da tutti i lati e grazie al loro numero soverchiamente ebbero ragione delle barricate approntate dai difensori. Gli uomini di Manco incendiarono i tetti di paglia delle case per stanare i nemici e costringerli alla ritirata verso la piazza principale, dove si asserragliarono nel palazzo del “Suntur Huasi”, contro il quale le fiamme non si propagarono permettendo agli spagnoli e alleati nativi di resistere trincerandosi nel complesso. Nonostante la pressione esercitata dagli incas, gli spagnoli tennero duro con la forza della disperazione passando infine al contrattacco: Juan Pizarro guidò i suoi all’assalto della cittadella di Sacsayhuaman. Durante la scalata alle mura venne colpito alla testa da una pietra scagliata dai bastioni ma incurante del dolore e del sangue che usciva copioso della ferita continuò a battersi come un leone finché l’intrepido conquistador non cadde a terra svenuto a causa dell’emorragia. Trasportato nelle retrovie sopravvisse per una quindicina di giorni finché non spirò ponendo fine ad un’atroce agonia. Il suo sacrificio non fu però vano: al termine di quella giornata di scontri gli assediati erano riusciti a prendere il controllo della fortezza da cui erano stati continuamente bersagliati.

Mappa della fortezza di Sacsahuaman.

Alla lunga questa sconfitta si rivelò decisiva per il fallimento dell’assedio e di tutta la ribellione di Manco: il morale degli incas era a terra e i viveri cominciavano a scarseggiare. L’esercito incaico inoltre non era preparato ad affrontare una guerra di logoramento: la sussistenza delle popolazioni dell’impero dipendeva dai raccolti e quindi presto Manco sarebbe stato costretto a sciogliere le proprie truppe e permettere ai propri guerrieri di tornare a casa per i lavori agricoli stagionali. Alla fine, incalzato dalle truppe di Diego de Almagro di ritorno da una spedizione in Cile, Manco tolse l’assedio a Cuzco nel marzo del 1537. Negli stessi mesi falliva anche l’attacco condotto da 60 mila ribelli indigeni contro città di Lima, la nuova capitale della colonia, fondata nel 1535 da Francisco Pizarro lungo la costa del Pacifico.

La cerimonia di fondazione della città di Lima (1535), divenuta in seguito capitale del Vicereame del Perù.

Ormai definitivamente battuto su tutta la linea l’Inca si ritirò a Vilcabamba, città posta in una regione selvaggia e circondata da montagne invalicabili e da giungle inaccessibili. Qui l’imperatore fondò uno stato neo-incaico, nel quale gli abitanti poterono continuare a tenere vive le tradizioni e le credenze dei loro avi, lontano dalla crudeltà e dalla cupidigia degli spagnoli. Il regno di Vilcabamba sopravvisse per poco più di trent’anni, sopratutto per merito della guerra civile che insanguinò il campo spagnolo, diviso fra i sostenitori di Pizarro e del suo antico socio e amico Almagro. Il conflitto si risolse a favore del governatore Pizarro, il quale vinse i ribelli nella battaglia di Las Salinas, combattuta il 26 aprile 1538. Almagro fu catturato e giustiziato per tradimento. Pizarro gli sopravvisse per altri tre anni per finire a sua volta assassinato  il 26 luglio 1541 da un gruppo di ex sostenitori di Almagro, decisi a vendicare l’ignominiosa morte del loro comandante.

La città perduta di Machu Picchu. Abbandonata in seguito alla caduta del regno inca di Vilcabamba, venne riscoperta ai primi del Novecento dall’archeologo statunitense Hiram Bingham.

Con Manco ormai confinato sulle montagne, il governo coloniale spagnolo poté procedere senza più alcuna opposizione alla pacificazione della colonia del Perù, ufficialmente proclamato vicereame della Corona di Castiglia nel 1542. Il territorio fu completamente ispanizzato con l’arrivo dall’Europa di un gran numero di coloni, mercanti, soldati, oltre naturalmente di missionari incaricati di convertire i nativi. L’osservanza dei dettami del cattolicesimo da parte di tutti i residenti fu garantita dalla creazione di un tribunale dell’Inquisizione, voluto dal governo del viceré don Francisco Alvarez de Toledo (1569-1581). L’economia della colonia divenne particolarmente prospera grazie allo sfruttamento delle ricche miniere d’argento, come quelle di Potosi. Tale ricchezza estratta dalle viscere della terra prese poi in gran parte la via dell’Europa, andando a finanziare la politica di potenza della Spagna asburgica per tutto il XVI secolo.

Tupac Amaru, figlio di Manco II e ultimo sovrano di Vilcabamba. Venne giustiziato dagli spagnoli nel 1572.

Nei nuovi territori furono importate le stesse strutture amministrative già presenti nelle altre colonie americane dei Caraibi e del Messico, come ad esempio l’encomienda: si trattava di un istituto giuridico di derivazione feudale mediante il quale il governatore affidava in concessione delle terre ad un notabile il quale aveva l’obbligo di amministrare il territorio affidatogli, curando nel contempo l’evangelizzazione degli indigeni che lo abitavano. Di fatto gli “encomienderos” si comportarono da padroni assoluti sfruttando senza scrupoli le risorse minerarie e agricole delle loro terre, oltre che la forza lavoro degli indios, degradati a veri e propri servi della gleba.

Gli spagnoli, pur ormai saldamente insediati in Perù, considerarono sempre lo stato di Vilcabamba come una minaccia, probabilmente memori della ribellione di Manco II. Fu così che nel 1568 l’implacabile don Francisco de Toledo organizzò una spedizione avente lo scopo di eliminare quell’ultimo baluardo della libertà e dell’indipendenza degli incas. La resistenza incaica fu annientata dalle soverchianti forze spagnole nel 1572 e l’ultimo sovrano di Vilcabamba, il ventisettenne Tupac Amaru, fu catturato e condotto in catene a Cuzco. Il 24 settembre del 1572 andò in scena l’ultimo atto della gloriosa storia degli incas: di fronte ai suoi ammutoliti connazionali Tupac Amaru fu giustiziato per decapitazione nella piazza principale di Cuzco. Calava allora il sipario sulla civiltà inca, nata e sviluppatasi nel magnifico scenario delle Ande.

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