Esattamente ottant’anni fa, il 2 febbraio 1943, il generale tedesco Friedrich Paulus, rimasto al comando di quanto restava della 6° Armata, scelse di issare bandiera bianca arrendendosi così alla vittoriosa Armata Rossa sovietica. Terminava così dopo mesi di scontri feroci la battaglia per il possesso della città di Stalingrado. Oltre che la pietra tombale per l’armata di Paulus, la battaglia rappresentò anche l’inizio della fine per le ambizioni di dominio di Hitler. Eppure fino a pochi mesi prima le forze naziste era apparse vittoriose e il trionfo sull’Unione Sovietica sembrava essere soltanto questione di tempo.

Come si era arrivati a questo capovolgimento? Quali le premesse e quali le conseguenze della disfatta subita dalla Wehrmacht in Russia? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, all’inizio dell’aggressione nazista contro l’Unione Sovietica, meglio conosciuta con il nome in codice di “Operazione Barbarossa”, cominciata all’alba del 22 giugno 1941. Secondo i piani dell’alto comando tedesco le truppe avrebbero dovuto avanzare verso oriente lungo tre direttrici: a nord, verso Leningrado (l’attuale San Pietroburgo), al centro verso la capitale nemica, Mosca, e a sud, in direzione dell’Ucraina e del Caucaso. L’offensiva, che richiese uno sforzo logistico spaventoso, vide il coinvolgimento di oltre 3,5 milioni di soldati – non solo tedeschi ma anche italiani, romeni, finlandesi e ungheresi – appoggiati da oltre 3 mila carri armati, 7 Mila pezzi d’artiglieria e 2.700 aerei da combattimento.

Nonostante l’enormità delle risorse profuse e le travolgenti vittorie conseguite dalle truppe dell’Asse fin dalle prime settimane dopo l’invasione, l’accanita resistenza sovietica unita al sopraggiungere del terribile inverno russo determinarono il sostanziale fallimento strategico di Barbarossa. Ai primi di dicembre le avanguardie della Wehrmacht raggiunsero la periferia di Mosca ma vennero respinte dal furioso contrattacco delle divisione mongole e siberiane dell’Armata Rossa che Stalin aveva fatto affluire a Occidente fidandosi delle assicurazioni fornitigli dalla sua spia a Tokyo, il dottor Richard Sorge, il quale aveva comunicato a Mosca che il Giappone non avrebbe attaccato l’Unione Sovietica alle spalle.

A causa del mancato crollo dell’Unione Sovietica Hitler si vide costretto a mantenere gran parte delle proprie divisioni nelle gelide pianure russe. Nonostante la violenza delle controffensive sovietiche la Wehrmacht riuscì comunque a mantenere la propri coesione evitando una rotta simile a quella subita dalla Grande Armee napoleonica centotrenta anni prima. In ogni caso, dopo l’infernale stagione invernale trascorsa nelle steppe orientali le truppe tedesche non sarebbero più state in grado di sferrare un’offensiva generale lungo tutto il fronte come avvenuto nell’estate del 1941. Con l’arrivo della primavera del 1942 Hitler ritenne giunto il momento di riprendere le operazioni. Pertanto il 5 aprile il Führer emanò la Direttiva 41, con la quale definì nei minimi dettagli le varie fasi operative previste per ottenere gli scopi strategici fondamentali dell’imminente campagna estiva, nota con il nome in codice di “Operazione Blu” (Fall Blau).

Secondo i calcoli dell’Alto Comando delle forze armate tedesche (Oberkommando der Wehrmacht, o semplicemente OKW) la nuova offensiva avrebbe impegnato complessivamente circa un milione di soldati germanici divisi in due gruppi d’armate appoggiati da 2.500 mezzi corazzati. A queste forze andavano sommate le altre quattro armate fornite dagli alleati del Terzo Reich, italiani, romeni e ungheresi, per un totale di altri 600 mila uomini. L’offensiva prevedeva innanzitutto l’occupazione dei territori della Russia meridionale situati tra i fiumi Don e Volga, premessa fondamentale per poi proseguire l’avanzata verso il Caucaso e i pozzi petroliferi dell’Azerbaigian sovietico che avrebbero assicurato al Terzo Reich le risorse energetiche necessarie alla prosecuzione dello sforzo bellico. In tutto questo la conquista di Stalingrado – l’odierna Volgograd- costituiva un obbiettivo fondamentale trattandosi di uno dei maggiori centri industriali della Russia sovietica nonchè, per Hitler, della città intitolata al suo arcinemico Stalin. Il Führer d’altro canto era convinto che l’armata Rossa, in seguito alle catastrofiche perdite umane e materiali subite nella campagna 1941-42, fosse ormai sull’orlo del collasso e che pertanto la vittoria fosse da considerarsi a portata di mano.

Programmato per l’inizio di maggio del 1942, il nuovo attacco tedesco ebbe inizio soltanto alla fine di giugno a causa dell’aspra difesa sovietica della fortezza di Sebastopoli, in Crimea. In ogni caso la violenza dell’offensiva tedesca condusse ad un rapido cedimento dell’intero fronte sovietico. Mentre i reparti dell’Armata Rossa ripiegavano in disordine verso est, la 6° Armata del generale Friedrich Paulus, punta di diamante del Gruppo Armate B, penetrava come un coltello nel burro in territorio russo. alla metà del luglio 1942 gli uomini di Paulus entrarono in contatto con le forze sovietiche che Stalin aveva raggruppato con grande difficoltà nella grande ansa del Don a difesa della città a lui intitolata.
L’importanza strategica e propagandistica di Stalingrado è ancora una volta testimoniata dall’ordine (prikaz) numero 227 emanato dal dittatore sovietico il 28 luglio 1942: «Non un passo indietro!» con il quale esortava energicamente alla resistenza contro l’invasore nazista. Stalin temeva infatti che un ulteriore ripiegamento avrebbe potuto infliggere un colpo mortale al morale delle truppe sovietiche, portando così al crollo dell’intero Paese.

I tenaci sforzi dei difensori sovietici vennero tuttavia schiacciati dalle forze della Wehrmacht dopo duri scontri e alcuni tentativi di contrattacco da parte dei russi. A fine luglio le truppe sovietiche furono costrette a ripiegare combattendo minacciare da sud dalla 4. Panzerarmee del generale Hermann Hoth, che Hitler aveva dirottato dall’iniziale destinazione verso il Caucaso. Finalmente il 21 agosto 1942 la 6° Armata del generale Paulus conquistava teste di ponte a est del Don e lanciava le sue forze corazzate concentrate in una puntata diretta nel corridoio Don-Volga in direzione di quest’ultimo fiume nella regione settentrionale della città. Il 23 agosto 1942 la 16. Panzer-Division del generale monco Hans-Valentin Hube – aveva infatti perso la mano sinistra durante la Grande Guerra – dopo aver superato una debole resistenza, irrompeva improvvisamente sul Volga a nord di Stalingrado tagliando fuori in questo modo la città dai collegamenti da nord.

Quello stesso giorno a guerra si manifestò per la prima volta agli abitanti di Stalingrado in tutta la sua drammaticità: il pomeriggio del 23 infatti la Luftwaffe eseguì il primo massiccio e devastante bombardamento a tappeto, colpendo duramente la popolazione civile nonostante la coraggiosa difesa contraerea di un gruppo di ragazze-soldato. La popolazione era rimasta in gran parte bloccata dentro la città, sia a causa della rapidità dell’avanzata tedesca, ma anche per la volontà di Stalin di non autorizzare un’evacuazione per non scatenare il panico e per dare un segnale di ottimistica tenacia. Nella notte tra il 23 e il 24 agosto il leader del Cremlino telefonò al generale Erëmenko, comandante del fronte di Stalingrado, spronandolo brutalmente a resistere e a non farsi prendere dal panico. Tuttavia, nonostante si sforzasse di ostentare pubblicamente un’immagine di ottimismo e risolutezza, Stalin era perfettamente conscio della drammaticità del momento. A peggiorare la situazione contribuì anche la consapevolezza che l’Unione Sovietica avrebbe dovuto resistere da sola all’attacco tedesco in quanto gli alleati occidentali non erano ancora pronti ad aprire l’agognato secondo fronte come comunicato dallo stesso Premier britannico Winston Churchill a Stalin durante il loro incontro avvenuto a Mosca in quegli stessi giorni.

All’inizio di settembre al termine di una rapida manovra di aggiramento, la Quarta Armata corazzata del generale superò le precarie difese sovietiche, congiungendosi con le truppe della 6° Armata in avanzata frontale da ovest verso Stalingrado e raggiunse a sua volta il Volga a sud della città. La situazione della 62° Armata sovietica, schierata a difesa di Stalingrado, iniziò a farsi particolarmente critica, trovandosi isolata a nord dalle truppe di Hube e a sud da quelle di Hoth e venendo investita frontalmente dalla Sesta Armata di Paulus. Quest’ultimo il 12 settembre ebbe un colloquio con Hitler e con il Feldmaresciallo Maximilian von Weichs – comandante del Gruppo Armate B dal quale dipendeva la Sesta Armata – presso il quartier generale ucraino del Fūhrer a Vinnycja. Nel corso della riunione, pur manifestando alcune preoccupazioni di carattere logistico, i comandanti tedeschi si mostrarono piuttosto sicuri di poter giungere alla completa conquista di Stalingrado in capo a dieci giorni.

A partire dal giorno successivo, 13 settembre, Paulus scatenò l’attacco frontale contro la città. La battaglia si trasformò allora in una lotta feroce quartiere per quartiere, palazzo per palazzo, strada per strada. Devastata dai bombardamenti della Luftwaffe e martellata dal tiro dell’artiglieria, Stalingrado era ormai ridotta ad un cumulo di macerie nelle quali si asserragliarono i difensori sovietici. Intanto a partire dal 12 settembre il comando della difesa di Stalingrado fu assunto dal nuovo comandante della 62° Armata, il generale Vasilij Ivanovič Čujkov, un ufficiale estremamente risoluto, energico e impermeabile al pessimismo. Egli piazzò il suo comando nelle immediate vicinanze della prima linea rischiando più volte di venire ferito o addirittura ucciso. Il suo obbiettivo era resistere a oltranza in modo d logorare il più possibile le forze naziste in attesa della grande offensiva pianificata da Stalin e dallo Stavka – il comando supremo delle forze sovietiche – per la stagione invernale.

Il generale Žukov aveva stabilito in 45 giorni, poi diventati due mesi, il tempo necessario a scatenare il grande attacco durante il quale la 62° Armata combatté tenacemente sulle rovine di Stalingrado. “A Stalingrado il tempo è sangue”, divenne il motto sovietico di quei giorni, parafrasando il più famoso “il tempo è denaro”. Anche Paulus comunque non se la passava bene: nonostante le ottimistiche previsioni di una rapida conquista della città, i sovietici non davano segno di volersi arrendere mentre il morale delle sue truppe iniziava a risentire della durezza degli scontri e delle perdite crescenti. I capisaldi sovietici in mezzo alle rovine – spesso costituite solo da pochi uomini equipaggiati con poche mitragliatrici pesanti – si difendevano in tutte le direzioni fino all’ultimo uomo, come nel caso della famosa “casa di Pavlov”, dal nome un sergente sovietico che difese la posizione per settimane con poche decine di uomini.

Per tutta la durata dei combattimenti inoltre il comando sovietico riuscì inviare nottetempo rinforzi in città attraverso il Volga mediante l’utilizzo di battelli senza che né la Luftwaffe né l’artiglieria tedesca riuscissero a interromperne l’afflusso. Nel complesso Čujkov ricevette l’equivalente di sei nuove divisioni che gli consentirono di mantenere il controllo di un perimetro difensivo oscillante, secondo i settori, tra i 2 km e le poche centinaia di metri a ovest del Volga nelle aree centrali e settentrionali di Stalingrado. A dar man forte ai difensori dell’Armata Rossa contribuirono gli stessi cittadini di Stalingrado che, armati, presero parte agli scontri. Un ruolo molto importante fu inoltre giocato dall’artiglieria pesante posizionata al riparo sulla riva orientale del Volga che, organizzata dal generale Nikolaj Nikolaevič Voronov, ripetutamente colpì i concentramenti tedeschi e sferrò a volte degli efficaci bombardamenti di sorpresa con effetti distruttivi sui reparti nemici colti allo scoperto.

Nonostante questi problemi il 30 settembre Hitler espresse pubblicamente la sua ottimistica certezza di vittoria e la convinzione dell’invincibilità delle armi tedesche, che non abbandonò nemmeno quando cominciarono ad arrivare le notizie relative all’inizio dell’offensiva britannica in Nord Africa e alla disfatta subita dalle forze dell’Asse ad El-Alamein. Ancora l’8 novembre 1942, nel corso della tradizionale cerimonia di commemorazione del “Putsch della birreria” a Monaco, il dittatore dichiarò anzi che la battaglia di Stalingrado era ormai da considerarsi virtualmente vinta.

L’11 novembre Paulus, seguendo gli incitamenti del suo Führer e sperando di sfruttare le difficoltà di rifornimento dei sovietici, sferrò quella che era destinata ad essere la sua ultima offensiva generale, gettando nella mischia tutte le truppe più fresche a sua disposizione. In un primo momento l’attacco sembrò avere successo: i tedeschi si spinsero nel cuore delle residue difese sovietiche al centro, conquistarono una parte della fabbrica Krasnij Oktiabr e raggiunsero per la terza volta le rive del Volga, provocando un’ultima crisi nel comando sovietico. Ma, nei giorni seguenti, anche quest’ultima offensiva si esaurì di fronte a nuove gravi perdite ed alla capacità di resistenza degli ultimi capisaldi sovietici. Infine, il 19 novembre, proprio quando Paulus parve ormai vicino alla vittoria, ricevette la sorprendente comunicazione proveniente dal comando del gruppo di armate di interrompere tutte le azioni offensive a Stalingrado e di disimpegnare forze mobili da impiegare a ovest verso il Don. Era cominciata l’Operazione Urano.

La caratteristica fondamentale dell’attacco fu la grande velocità della progressione delle colonne corazzate sovietiche soprattutto sul fronte Sud-Ovest del generale Nikolaj Fëdorovič Vatutin. Dopo una coraggiosa resistenza le truppe rumene in prima linea vennero distrutte o accerchiate in mezzo alla nebbia e al nevischio mentre i corpi corazzati sovietici progredirono in profondità nonostante la scarsa visibilità e il terreno irregolare, travolgendo le retrovie dell’Asse, spargendo il panico nei comandi e negli improvvisati reparti di blocco affrettatamente costituiti dai tedeschi, e respinsero o aggirarono le poche truppe mobili di riserva tedesche disponibili. I carri armati sovietici, senza lasciarsi agganciare e rallentare dai pochi panzer tedeschi disponibili affrontarono le riserve mobili nemiche con solo una parte delle forze, mentre altre colonne le superarono, le aggirarono e intercettarono le linee di comunicazione con le retrovie. La Divizia 1 Blindată rumena, rimasta completamente isolata, finì in mezzo alle forze corazzate sovietiche in rapida avanzata venendo praticamente distrutta dopo alcuni giorni di confusi scontri,mentre le riserve meccanizzate tedesche vennero costrette, dopo essersi battute coraggiosamente e aver subito gravi perdite, a ritirarsi precipitosamente per evitare di essere annientate.

Già la sera del 21 novembre i corpi corazzati sovietici erano molto vicini ai ponti sul Don e minacciavano il Comando tattico della 6°Armata di Paulus. Il 22 novembre le truppe del 26º Corpo corazzato sovietico conquistarono di sorpresa il fondamentale ponte di Kalač, attraversavano il Don, respingendo i tentativi tedeschi di contrattacco e progredivano a sud del fiume per ricongiungersi con le colonne sovietiche del Fronte di Stalingrado del generale Erëmenko che, a partire dal 20 novembre, aveva sferrato la sua offensiva con un distruttivo bombardamento di artiglieria. In questo settore la resistenza rumena fu più debole e il fronte rapidamente sfondato; il 4º Corpo meccanizzato – il più potente dell’intero schieramento sovietico- venne gettato nel varco e superò definitivamente le difese nemiche puntando verso ovest in direzione del Don. Anche in questo settore il contrattacco tedesco, sferrato dalla 29°Divisione motorizzata, non riuscì, dopo qualche successo iniziale, a fermare l’avanzata del 4º Corpo e quindi non ottenne alcun risultato decisivo.

Nel primo pomeriggio del 23 novembre le colonne corazzate sovietiche provenienti da nord e da sud si congiungevano nella località di Sovetskij. Le scene di gioia e gli scambi di vodka e salsicce tra i carristi sovietici salutarono la riuscita della manovra. A questo punto la 6° Armata e gran parte della 4° Armata corazzata tedesche si trovarono accerchiate tra il Don e il Volga. Nella sacca erano bloccate 20 divisioni tedesche, di cui tre corazzate e tre motorizzate, 2 divisioni rumene, un reggimento croato e numerosi reparti logistici o di retrovia oltre a reparti specializzati di artiglieria e del genio. A questo punto si presentavano ad Hitler due sole possibilità: ordinare l’immediata ritirata delle truppe di Paulus oppure imporre loro di tenere ad ogni costo le posizioni conquistate in attesa di un soccorso dall’esterno da parte di truppe fresche opportunamente richiamate da altri fronti.
I generali cercarono di convincere il Führer della necessità di un ripiegamento ma questi fu irremovibile. Hitler riteneva infatti che una ritirata, per di più da compiersi in quelle condizioni avrebbe certamente comportato la perdita di una grande quantità di uomini e materiali compromettendo irrimediabilmente i risultati già raggiunti dall’offensiva estiva. Infine Hitler si lasciò convincere dalle assicurazioni del borioso Hermann Göring circa il fatto che la Luftwaffe sarebbe stata in grado di rifornire la 6° Armata accerchiata mediante un ponte aereo nonostante le carenze organizzative e le prevedibili intemperie invernali rendessero tale impresa assai ardua.

Nel tentativo di spezzare l’accerchiamento sovietico della Sesta Armata a Stalingrado l’OKW approntò un forte raggruppamento strategico offensivo –Gruppo d’armate Don – posto al comando dell’esperto feldmaresciallo Erich von Manstein. Dopo una fase preparatoria difficoltosa e piuttosto lenta a causa dei notevoli problemi logistici per effettuare gli spostamenti di truppe previsti, il tentativo di salvataggio della Sesta Armata– nome in codice “Tempesta invernale” in tedesco Unternehmen Wintergewitter – ebbe inizio soltanto il 12 dicembre 1942. Le forze radunate erano in realtà fortemente ridotte rispetto agli ottimistici piani iniziali consistendo in tre Panzer-Division piuttosto incomplete, vale a dire la 6°, la 17° e la 23°. Nonostante queste carenze, l’offensiva, diretta sul campo dal generale Hoth, inizialmente ottenne risultati incoraggianti e colse piuttosto di sorpresa i sovietici, ancora impegnati nei complessi riposizionamenti di truppe previsti da Stalin.

Entro quattro giorni le colonne corazzate tedesche si spinsero, in mezzo alla neve, fino a portata tattica dalla sacca di Stalingrado, nonostante aspri contrattacchi sferrati dai sovietici con unità meccanizzate. Gli elementi di punta della 6. Panzer-Division giunsero il 19 dicembre a 48 km dal perimetro della sacca. L’avanzata tedesca aveva però ormai esaurito la sua energia propulsiva e di fronte alla crescente resistenza dei sovietici, divenne impossibile fare ulteriori progressi in direzione degli accerchiati. Il fallimento del tentativo di von Manstein di spezzare l’accerchiamento sovietico condannò di fatto la Sesta Armata di Paulus alla distruzione. Per la verità i tedeschi avrebbero ancora forse potuto salvarsi tentando un’ultima disperata sortita dopo aver abbandonato parte degli equipaggiamenti e dei mezzi, in direzione delle colonne del generale Hoth.

Venne predisposto a tal proposito un piano di emergenza, la cosiddetta “operazione Colpo di tuono”, ma Hitler rifiutò categoricamente di autorizzare la manovra ritenendo che la ritirata di un’intera armata – già indebolita e impossibilitata a muoversi rapidamente per mancanza di mezzi e di carburante – nella steppa in pieno inverno rappresentasse un suicidio. A decretare il fallimento dei piani di soccorso alle truppe intrappolate nella sacca di Stalingrado contribuì anche l’Operazione “Piccolo Saturno”. Lanciata dall’Armata Rossa il 16 dicembre, l’offensiva travolse in pochi giorni le truppe italiane dell’8° Armata con conseguente irruzione in profondità nelle retrovie tedesche dei corpi meccanizzati sovietici. A partire dal 10 gennaio cominciò la fase finale della battaglia di Stalingrado che vide il totale annientamento delle ultime sacche di resistenza tedesche da parte dell’artiglieria sovietica.

Dopo la divisione in due parti della sacca e il congiungimento il 26 gennaio 1943 tra le forze sovietiche in avanzata da ovest e le truppe del generale Čujkov che tenevano ancora tenacemente la linea del Volga, ogni ulteriore resistenza risultò impossibile. Il generale Paulus, ormai completamente isolato, si arrese il 31 gennaio consegnandosi ai soldati della 64° Armata sovietica del generale Michail Šumilov. Il comandante della 6° Armata disattese così il tacito ordine di Hitler di suicidarsi nonostante il dittatore lo avesse promosso feldmaresciallo pochi giorni prima della resa finale, sottolineando che nessun ufficiale tedesco di tale grado si fosse mai arreso. Pochi giorni dopo, il 2 febbraio 1943, gli ultimi reparti tedeschi attestati, nell’area delle grandi fabbriche, al comando del generale Karl Strecker, si arresero definitivamente il 2 febbraio 1943. La battaglia per Stalingrado era terminata con a totale disfatta delle forze dell’Asse. La 6° Armata tedesca venne completamente distrutta. Complessivamente a Stalingrado vennero annientate venti divisioni tedesche e altre quindici nelle battaglie del teatro meridionale del fronte orientale. Per quanto riguarda gli alleati della Germania i romeni persero diciannove divisioni mentre ungheresi e italiani dieci ciascuno. Dentro la sacca perirono qualcosa come 140 mila soldati tedeschi mentre altri 100 mila vennero catturati e avviati in prigionia verso i gulag siberiani.

Soltanto poche migliaia di loro avrebbero fatto ritorno in patria e soltanto intorno alla metà degli Anni Cinquanta! Paulus condivise il destino in prigionia dei propri uomini e nel dopoguerra, durante il processo di Norimberga, fu chiamato a testimoniare in favore dell’accusa. Rilasciato nel 1953 si stabilì a Dresda, nella Germania Est, dove morì sessantaseienne il 1° febbraio 1957 a causa della SLA che lo aveva colpito l’anno precedente. La battaglia di Stalingrado resta in ogni caso il simbolo della disfatta tedesca sul fronte orientale. Certamente la Wehrmacht continuò a battersi tenacemente sul fronte orientale sia in difensiva sia contrattaccando localmente ottenendo un importante successo nella terza battaglia di Char’kov nel febbraio-marzo 1943 e tentando persino di prendersi la rivincita sull’Armata Rossa nella battaglia di Kursk del luglio successivo. La guerra o oriente sarebbe infatti durata ancora, aspra e sanguinosa, fino al maggio 1945 ossia fino al crollo finale del Terzo Reich. Tuttavia, come ha scritto lo storico statunitense David Glantz, la battaglia di Stalingrado provocò realmente una svolta irreversibile, “perché fu una catastrofe da cui la Germania e la Wehrmacht non riuscirono più a riprendersi”.