L’11 febbraio 1929, al termine di un lungo negoziato, la Santa Sede e il Governo italiano sottoscrissero i patti lateranensi. La conciliazione tra Stato italiano e Chiesa Cattolica pose fine una volta per tutte alla cosiddetta “Questione romana”, ossia lo scontro serrato che lungo tutto il Risorgimento vide opporsi la Chiesa Cattolica dapprima contro il movimento nazionale italiano e poi, a partire dal 1861, contro lo Stato unitario. Per comprendere appieno le origini di questo annoso dissidio che caratterizzò per decenni la Storia unitaria del nostro Paese occorre risalire agli anni risorgimentali.
L’inizio della frattura può essere fatto risalire al fatidico 1848, quando in diverse città d’Italia si verificarono insurrezioni di carattere patriottico. In particolare la rivolta anti austriaca di Milano – le famose “Cinque Giornate” – portarono all’intervento dell’esercito piemontese in Lombardia e allo scoppio di quella che viene ricordata come la prima guerra d’indipendenza italiana. Inizialmente , pressanti dai rispettivi sudditi, anche il Granduca di Toscana Leopoldo II, il Re di Napoli Ferdinando II e persino Papa Pio IX acconsentirono all’invio di contingenti militari nella pianura Padana in appoggio a Carlo Alberto di Savoia.
Con il suo gesto il Pontefice parve confermare quella fama di Papa “patriota” e “liberale” che lo aveva accompagnato fin dalla sua ascesa al Soglio pontificio il 16 giugno 1846. In effetti i primi due anni del pontificato di Pio IX (al secolo Giovanni Maria Mastai-Ferretti) erano stati caratterizzati da importanti riforme e da provvedimenti liberali quali ad esempio l’amnistia per i detenuti politici concessa poco dopo la sua elezione. Seguirono l’allentamento della censura sulla stampa, la creazione di un organismo rappresentativo, la Consulta di Stato, e di una guardia civica, fino alla concessione, 14 marzo 1848, di una costituzione denominata “Statuto Fondamentale pel Governo Temporale degli Stati della Chiesa”.

Alla luce di quanto abbiamo raccontato, Pio IX apparve agli occhi di numerosi cattolici come quel “Papa patriota” in grado di dare seguito alla soluzione “neoguelfa” teorizzata dall’abate piemontese Vincenzo Gioberti nella sua opera più celebre intitolata “Del primato morale e civile degli italiani”, pubblicata nel 1843. Tuttavia i successivi eventi che a partire dalla primavera del 1848 avrebbero agitato l’Italia e l’Europa dovevano rivelare come questa convinzione fosse da considerarsi del tutto illusoria. Come narrato poc’anzi, dopo aver acconsentito all’invio di un corpo di spedizione papalino nel nord Italia, il 29 aprile successivo Pio IX fece clamorosamente dietrofront pronunciando la famosa allocuzione “Non semel” con la quale in definitiva si defilava dalla guerra adducendo che il suo ruolo di capo della Chiesa gli impediva di prendere le armi contro una potenza cattolica come l’Austria. Per i patrioti – romani e non solo – fu una doccia fredda. Il mito del “Papa patriota” andò definitivamente in frantumi evidenziando in maniera inequivocabile come il progetto di un’Italia unificata sotto l’egida della Chiesa fosse pura utopia.

Mentre l’ipotesi neoguelfa tramontava definitivamente, a Roma la situazione si fece sempre più pesante sino a precipitare il 15 novembre 1848 con l’assassinio del Ministro dell’Interno pontificio, il Conte Pellegrino Rossi. Giudicando non più sicuro per la propria incolumità restare a Roma, il 24 Pio IX lasciò l’Urbe travestito da semplice sacerdote per rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando II di Borbone. Da lì il Papa lanciò pressanti appelli a tutte le potenze cattoliche affinché ne restaurassero il potere temporale. A Roma intanto la fuga del Papa aveva portato il 9 febbraio 1849 alla proclamazione della Repubblica guidata da un triumvirato composto dai patrioti Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Pur proclamando il Papato decaduto “di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano” e che “dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”, garantendo quindi la laicità dello Stato, il nuovo governo repubblicano si impegnò ad assicurare al Romano Pontefice “tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale”.

Purtroppo l’esperimento della Repubblica Romana non sopravvisse alla repressione operata dalle truppe francesi inviate in Italia dal principe-presidente transalpino Luigi Napoleone Bonaparte – il futuro Napoleone III – allo scopo di restaurare il potere temporale del Papa. Una volta rientrato a Roma, Pio IX accantonò definitivamente la politica riformatrice arroccandosi nella difesa del proprio potere temporale. Di lì a qualche anno, con l’avvio del processo di unificazione nazionale innescato dalla vittoria franco-piemontese nella seconda guerra d’indipendenza, lo Stato pontificio venne dapprima privato delle province romagnole e poi anche delle Marche e dell’Umbria riducendosi alla vigilia della proclamazione dell’unità d’Italia al solo Lazio. Era chiaro però che i patrioti non avrebbero considerato l’Italia veramente unita fino a quando Roma non ne fosse diventata la Capitale. Lo stesso Cavour verso la fine del 1860, pochi mesi prima del fatidico 17 marzo 1861, nel corso di una riunione del Parlamento Subalpino “La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico”.
Fin dalle settimane immediatamente precedenti la proclamazione dell’Unità Cavour, basandosi sul suo celebre principio di “libera Chiesa in libero Stato”, aveva intavolato trattative segrete con il Vaticano nel tentativo di giungere ad una soluzione di compromesso volta ad assicurare piena libertà in campo spirituale alla Chiesa previa rinuncia da parte di quest’ultima al potere temporale su Roma e su quanto restava dello Stato Pontificio. Purtroppo i piani di Cavour vennero tragicamente interrotti dalla sua prematura e improvvisa scomparsa: la morte lo colse non ancora cinquantunenne il 6 giugno 1861 a Torino, privando in questo modo il neonato stato italiano di uno dei suoi principali “padri fondatori”.

La politica cavouriana nei confronti della Chiesa venne portata avanti dai successori del Conte ma qualunque ipotesi di accordi si arenò di fronte all’inflessibilità di Pio IX. Il fallimento delle trattative governative ridiede fiato all’iniziativa dei democratici, da sempre assertori della “guerra di popolo” quale strumento per giungere al completamento dell’unità nazionale. Le due spedizioni promosse da Garibaldi nel tentativo di conquistare Roma mettendo le potenze europee – e in particolare la Francia – di fronte al fatto compiuto si risolsero tuttavia in un fallimento. Nel 1862 fu lo stesso governo italiano che, per evitare incidenti a livello internazionale, non esitò a schierare l’esercito contro i garibaldini mentre nel 1867 l’Eroe dei Due Mondi e i suoi volontari vennero sconfitti dalle truppe pontificie appoggiate dal corpo di spedizione appositamente inviato in Italia da Napoleone III, erettosi a paladino del potere temporale del Papa. Di fronte alle minacce rivolte al proprio potere, Pio IX risposte con un atteggiamento di sorda chiusura nei confronti della modernità: nel 1864 il Pontefice pubblicò l’enciclica Quanta cura, cui allegò il Sillabo, vale a dire dire l’elenco degli “errori” del secolo. Oltre al socialismo e al liberalismo, Pio IX bollava come eresie anche il relativismo, l’ateismo, la laicità dello stato, la sovranità popolare, il divorzio e il matrimonio civile.
Soltanto nel 1870, in seguito alla sconfitta dell’Imperatore dei Francesi nella guerra contro la Prussia di Bismarck, l’Italia poté annettere Roma. Dopo avere fatto pervenire a Pio IX una lettera nella quale Vittorio Emanuele II “con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di Re, con animo d’italiano” esortava il pontefice a non opporre un’inutile resistenza, il 20 settembre 1870 le truppe italiane entrarono nella Città Eterna attraverso la celeberrima “Breccia di Porta Pia”. Il 2 ottobre successivo un referendum sancì l’annessione di Roma e del Lazio al Regno d’Italia. Pio IX dichiarò l’azione italiana “ingiusta, violenta, nulla e invalida”, colpì con la scomunica il Re e il governo e si dichiarò “prigioniero in Vaticano”. Vista l’impossibilità di giungere ad un accordo con il Papa, il Parlamento procedette alla regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa per via unilaterale. Nel maggio 1871 venne approvata la cosiddetta “Legge delle Guarentigie”. Essa constava di venti articoli ed era divisa in due parti.

La prima riguardava le prerogative del Papa a cui fu garantita l’inviolabilità personale, gli onori sovrani, il diritto di tenere guardie armate nei palazzi Vaticano, Laterano, Cancelleria e Villa di Castelgandolfo, sottoposti a regime di extraterritorialità, libertà di comunicazioni postali e telegrafiche, diritto di rappresentanza diplomatica attiva e passiva e infine un appannaggio annuo di tre milioni e duecento cinquanta mila lire, pari alla cifra dell’ultimo bilancio pontificio per il mantenimento del Sacro Collegio e dei palazzi apostolici. La seconda parte riguardava i rapporti fra Stato e Chiesa, mirando a garantire la massima, reciproca, indipendenza. Agli ecclesiastici fu garantita libertà di riunione, i vescovi furono dispensati dal giuramento al Re mentre gli atti dell’autorità ecclesiastica non sarebbero stati più assoggettati all’approvazione da parte dello Stato.

Pio IX, che non aveva cessato di tramare per provocare un intervento straniero, respinse in blocco “i futili privilegi” previsti dalla legge e “i trenta denari” dell’appannaggio. Infine, nel 1874, il Papa, con la formula lattina “non expedit” (“non conviene”), interdì ai fedeli la partecipazione alla vita politica italiana. Il divieto non impedì comunque ai cattolici di interessarsi ai problemi del proprio tempo e di agire allo scopo di dar vita a uno stato più giusto e più cristiano. Proprio per coordinare le diverse associazioni laicali cattoliche per un’azione comune in difesa dei diritti della Chiesa e degli interessi religiosi e sociali degli italiani nel 1874 venne fondata con il benestare dello stesso Pio IX l”Opera dei congressi e dei comitati cattolici, o più semplicemente Opera dei Congressi. Organizzata in comitati a livello parrocchiale e diocesano, essa convocava periodicamente congressi nazionali, in cui si discutevano le questioni di maggiore rilevanza per il movimento cattolico. Radicatasi soprattutto in Lombardia e Veneto, l’organizzazione promosse una vasta attività in campo economico e sociale. Sul piano politico, pur attenendosi al non expedit pontificio, che vietava la costituzione di un partito cattolico su base nazionale, a livello provinciale e municipale l’Opera si impegnò invece affinché candidati cattolici venissero eletti negli consigli locali.

Pio IX scomparve il 7 febbraio 1878, al termine di uno dei pontificati più lunghi della millenaria storia della Chiesa. Il suo successore, l’Arcivescovo di Perugia Vincenzo Gioacchino Pecci, che scelse il nome di Leone XIII, fu il primo Pontefice a non esercitare dopo oltre mille anni il potere temporale. Ma Papa Pecci fu anche colui che si impegnò nel tentativo, in gran parte riuscito, di reinserire la Chiesa nella società moderna. Pur mantenendo pienamente in vigore il non expedit, Leone XIII esortò i cattolici all’impegno in campo socio-economico attraverso la fondazione di casse rurali e di società artigiane e operaie di mutuo soccorso. Nel 1883 giunse a indicare come, non solo utile, ma doverosa, in certe circostanze, la partecipazione più o meno larga dei cittadini alla gestione dello Stato, il che significava riconoscimento della legittimità dell’inserimento dei cattolici nella vita pubblica, dove e quando la Chiesa lo avesse ritenuto opportuno.
L’attenzione di Leone XIII nei confronti dei problemi creati dal processo allora in atto è testimoniato dall’enciclica Rerum Novarum, pubblicata non a caso nel 1891, anno di fondazione del partito socialista. Nel documento il Pontefice, pur ribadendo l’avversione al socialismo e la legittimità della proprietà privata, incoraggiava, in nome del solidarismo cristiano, l’accordo reciproco tra lavoratori e datori di lavoro, condannando come ingiusta una eccessiva sperequazione della ricchezza e ammettendo l’intervento dello Stato a tutela dei diritti dei lavoratori – riposo festivo, limitazioni dell’orario di lavoro ecc.- e riconoscendo la liceità delle organizzazioni sindacali operaie.

Leone XIII morì nel 1903 e al suo posto il Conclave elesse il Patriarca di Venezia Giuseppe Melchiorre Sarto, che divenne così Papa Pio X. Agli inizi del XX secolo l’avanzata delle forze laiche e socialiste indusse il nuovo Pontefice a pubblicare, l’11 giugno 1905, l’enciclica Il fermo proposito nella quale derogando per la prima volta al “non expedit” -che rimase ufficialmente in vigore – concedeva ai fedeli di partecipare alle elezioni anche se solo in particolari circostanze riconosciute dai vescovi. Va detto che già l’anno precedente, in occasione delle elezioni politiche del 1904, il non expedit era stato sospeso in alcuni collegi nel nord Italia.
Un’ulteriore passo verso il superamento del non expedit venne compiuto di lì a pochi anni in occasione delle elezioni del 1913, le prime svoltesi a suffragio universale maschile. Deciso a bloccare l’avanzata del Partito Socialista il Presidente del Consiglio uscente Giovanni Giolitti decise di rinnovare la collaborazione con i cattolici. Il risultato fu il cosiddetto “Patto Gentiloni”, siglato con l’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), così chiamato dal nome del presidente di quest’ultima, il Conte Vincenzo Ottorino Gentiloni. In base all’accordo – che ebbe carattere soltanto informale e che non venne messo per iscritto – l’elettorato cattolico si impegnava a sostenere nei collegi maggioritari uninominali quei candidati liberali che si impegnavano a fornire garanzie circa il sostegno alla libertà di insegnamento delle scuole private confessionali e ad opporsi a qualunque disegno di legge favorevole al divorzio.
Tuttavia l’ammissione a pieno titolo delle masse cattoliche nella vita politica italiana si verificò solamente dopo la Grande Guerra. Il 18 gennaio 1919, in seguito alla pubblicazione dell′Appello ai liberi e forti da parte del sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo nacque il Partito Popolare Italiano. Pur ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa, la nuova formazione politica si dichiarava aconfessionale e autonoma rispetto alle gerarchie ecclesiastiche. Presentatosi alle elezioni del 16 novembre successivo, il Partito Popolare raccolse il 20,5% dei voti riuscendo ad eleggere ben 100 deputati, numeri che ne facevano la seconda forza politica italiana dopo i socialisti, i quali ottennero il 32% dei suffragi e 156 deputati.

Tuttavia se la fondazione del Partito Popolare e la conseguente abolizione del non expedit – ormai peraltro privo di significato – avevano condotto i cattolici italiani fuori dal ghetto in cui li aveva gettati l’intransigenza di Pio IX all’indomani della Breccia di Porta Pia, per assistere a una definitiva composizione della Questione Romana dovettero passare ancora diversi anni. Frattanto, alla fine di ottobre del 1922 l’ex direttore dell’Avanti ed ex agitatore socialista Benito Mussolini conquistava il potere al termine della Marcia su Roma condotta dalle sue camicie nere. Nominato Presidente del Consiglio dal Re Vittorio Emanuele III, Mussolini diede vita a un governo di coalizione che comprendeva ministri fascisti, nazionalisti, liberali conservatori e popolari. Tuttavia non passò molto tempo prima che il fascismo rivelasse la sua vera natura, dapprima con il rapimento e l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) – di cui lo stesso Mussolini rivendicò la responsabilità “politica, morale e storica” nel discorso pronunciato alla Camera il 3 gennaio 1925 – e poi attraverso il varo, tra il 1925 e il 1926, delle cosiddette “Leggi fascistissime” che condussero allo svuotamento delle garanzie costituzionali previste dallo Statuto Albertino ponendo le basi per la creazione del totalitarismo fascista.
Divenuto l’ormai incontrastato “Duce” del Paese, Mussolini si impegnò per ottenere la definitiva identificazione tra Stato, partito e società civile. Ciò presupponeva non soltanto il pieno controllo sulle masse ma anche la loro mobilitazione per mezzo delle organizzazioni di regime. L’obbiettivo del fascismo era quello di riplasmare l’intera società italiana dalle fondamenta puntando in modo particolare sui giovani. Tuttavia nel realizzare tale obbiettivo il regime incontrò diversi ostacoli, primo fra tutti quello costituito dalla Chiesa, per nulla intenzionata a rinunciare alla propria missione educativa nei confronti della gioventù. D’altronde in un Paese come il nostro in cui il 99% della popolazione si dichiarava cattolico e nel quale luoghi come le parrocchie e gli oratori costituivano un importante – se non l’unico – luogo di incontro e aggregazione, era impossibile governare senza trovare un qualche tipo di modus vivendi con la Chiesa o addirittura contro di essa.

Nonostante i suoi trascorsi anticlericali giovanili, il Duce intuì che un accordo con il Vaticano avrebbe rafforzato il suo prestigio in Italia e all’estero permettendo al regime di guadagnare l’appoggio delle masse cattoliche, fin lì mostratesi abbastanza tiepide nella loro adesione al fascismo. Dal canto suo la Santa Sede aveva mostrato un atteggiamento più che benevolo nei confronti del fascismo, giudicato come il male minore di fronte all’imperversare del disordine sociale e al pericolo della rivoluzione socialista che avevano caratterizzato l’immediato dopoguerra in Italia. L’accondiscendenza nei confronti del regime fascista era il risultato del prevalere delle tendenze più conservatrici all’interno della curia, testimoniata dall’elezione dell’Arcivescovo di Milano Achille Ratti, succeduto nel febbraio 1922 a Benedetto XV col nome di Pio XI. Tra i primi a fare le spese dell’avvicinamento tra Chiesa e Italia fascista vi fu il Partito Popolare: nell’aprile del 1923 Mussolini impose ai ministri popolari di dimettersi e poco dopo Don Sturzo, ormai entrato in urto col Vaticano, fu costretto di lì a poco a dimettersi da segretario del PPI e l’anno successivo a lasciare il Paese.

Consapevole della disponibilità delle gerarchie ecclesiastiche, Mussolini si spinse ancora più in là, deciso a ricomporre la “Questione Romana”, quel vulnus che attanagliava il Regno d’Italia fin dalla sua fondazione. Così facendo il Duce intendeva dimostrare fra le altre cose che egli era in grado di riuscire laddove le classi dirigenti liberali avevano fallito per sessant’anni. Le trattative tra Italia e Santa Sede, favorite dalla mediazione di Padre Pietro Tacchi Venturi e di Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce, ebbero inizio nel massimo riserbo nell’estate del 1926, quando furono designati ufficiosamente e informalmente due incaricati: l’avvocato concistoriale Francesco Pacelli – fratello di monsignor Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII – da parte vaticana e da parte italiana il plenipotenziario Domenico Barone, poi sostituito dallo stesso Mussolini in seguito alla sua morte avvenuta il 4 gennaio 1929. I negoziati andarono avanti per due anni e mezzo e si conclusero, come noto, con la firma dei Patti dell’ 11 febbraio 1929, detti “Lateranensi” in quanto la cerimonia si tenne presso il palazzo del Laterano, a Roma. Vi presero parte Mussolini in qualità di Capo del Governo italiano e il Segretario di Stato vaticano Cardinale Pietro Gasparri, in rappresentanza di Papa Pio XI.

Gli accordi si componevano di tre documenti: un trattato internazionale con il quale la Santa Sede riconosceva ufficialmente lo Stato italiano con Roma capitale mentre l’Italia riconosceva la sovranità pontificia sul neo costituito Stato della Città del Vaticano; una convenzione finanziaria con cui l’Italia versava alla Santa Sede una somma pari a 750 milioni di lire a titolo di indennizzo per le spoliazioni dei beni ecclesiastiche avvenute dopo la Presa di Roma del 1870; un concordato che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa. La religione cattolica venne dichiarata “religione di stato”, il matrimonio religioso aveva anche effetti a livello civile (matrimonio concordatario) mentre la dottrina cattolica, proclamata “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”, veniva introdotta tra le materie scolastiche.
La Chiesa Cattolica quindi, in cambio della rinuncia a qualcosa di ormai irrimediabilmente perduto da sessantanni (il potere temporale) vedeva riconosciuto il proprio ruolo all’interno della società italiana. Contemporaneamente per Mussolini la conciliazione con il Vaticano fu un’iniziativa importante per consolidare il consenso degli italiani verso il regime fascista presentandosi come colui che aveva finalmente sanato una ferita antica e profonda all’interno della società.
Tuttavia negli anni successivi i rapporti tra Stato e Chiesa non furono sempre idilliaci: da un lato la Chiesa non poteva accettare la pretesa del regime di esercitare il monopolio sull’educazione e la formazione della gioventù mentre il regime mal sopportava l’autonomia di organizzazioni cattoliche come i Boy Scout o l’Azione Cattolica, associazione di laici cattolici alle dipendenze della gerarchia ecclesiastica la cui autonomia era garantita dal concordato. A causa di questi dissidi già nel 1931 s giunse allo scontro aperto: Mussolini ordinò lo scioglimento di tutte le organizzazioni e associazioni cattoliche mentre l’Azione Cattolica dovette astenersi da ogni attività che non fosse di carattere strettamente religioso.

Al termine della tempesta della seconda guerra mondiale i Patti Lateranensi vennero riconosciuti dall’Assemblea Costituente venendo inseriti nell’articolo 7 della Costituzione grazie al voto favorevole dei deputati comunisti. Nel 1984 i Patti vennero rivisti attraverso gli accordi di Villa Madama sottoscritti dall’allora Premier Bettino Craxi e dal Segretario di Stato monsignor Agostino Casaroli e che adattarono il concordato alle mutate condizioni della società italiana dell’Italia repubblicana togliendo al cattolicesimo la condizione di “religione di stato” e stabilendo un nuovo sistema di finanziamento del clero mediante una frazione del gettito totale IRPEF, attraverso il meccanismo noto come otto per mille.
Oggi assistiamo periodicamente a polemiche circa l’opportunità di abolire i Patti Lateranensi, con particolare riferimento al concordato. Tuttavia è bene ricordare che eventuali proposte di modifica o abolizione non possono essere sottoposte a referendum ai sensi dell’art. 75 della Costituzione. Inoltre l’art. 7 prevede che «le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale»: ciò significa che le modifiche bilaterali possono essere adottate con legge ordinaria, mentre, argomentando a contrario, quelle unilaterali richiedono il procedimento aggravato art. 138 Cost. Nulla vieta, peraltro, che tale legge ordinaria o costituzionale sia proposta dal corpo elettorale, in quanto l’art. 71 Cost., nel disciplinare l’iniziativa legislativa del popolo, non menziona alcuna restrizione riguardante l’una o l’altra fonte del diritto.

Il dibattito sulla modificabilità dei Patti ha considerato la possibilità di un atto unilaterale a costituzione invariata, oltre alle due procedure appena ricordate. Nel primo caso, lo Stato perseguirebbe una denuncia unilaterale del concordato, in analogia all’art. 4 della Convenzione di Vienna, pur successiva alla firma dei Patti. In alternativa, il legislatore potrebbe implicitamente disapplicare i Patti o loro parti, sottraendosi alla legislazione ecclesiastica
Una denuncia formale si potrebbe prestarsi a contestazione da parte della Santa Sede per violazione del diritto internazionale. Un atto legislativo potrebbe invece essere portato all’attenzione della Corte costituzionale, che può stabilire l’incostituzionalità di leggi collegate al Concordato come avvenne nel 1979 quando venne acclarato come la condizione di “religione di stato” attribuita al cattolicesimo fosse incompatibile con il dettato costituzionale. Oltre a costituire probabile violazione del diritto internazionale, un eventuale recesso unilaterale dai Patti Lateranensi sarebbe osteggiato dal Vaticano, come stabilito a suo tempo da Pio XI, il quale poco dopo la ratifica dei Patti, a seguito della crisi dei rapporti tra Chiesa e Governo italiano, enunciò in proposito la dottrina “simul stabunt vel simul cadent“, “insieme staranno oppure insieme cadranno”.